– Potresti raccontare un po’ di te -, mi dice. – Chi sei, cosa ti piace fare, cosa scrivi. E poi perché uno dovrebbe leggerti -. Annuisco, non sono convinta. – Soprattutto, dovresti parlare della tua, di storia -, continua. – Fa sempre piacere guardare le vite degli estranei, come quando sei in vacanza, ed entri per sbaglio in una stanza che non è la tua, solo perché qualcuno aveva lasciato la porta aperta -; mi faccio più attenta, l’idea dell’errore mi incuriosisce. – E ti rendi conto che la camera è identica alla tua, il letto è posizionato nello stesso modo, i comodini pure, la finestra offre una prospettiva della strada leggermente diversa, ma te ne accorgi solo perché l’affaccio è la prima cosa che noti, in un posto nuovo. Tuttavia, riconosci quel luogo come estraneo -. Ci penso qualche secondo, provo a ricordarmi di com’è andare in vacanza, di che odore hanno gli alberghi delle città che non conosciamo. – Ma una stanza di albergo è di per sé un luogo estraneo -, provo a obiettare, e già sono perplessa, già inizio a dubitare. – Certo -, mi risponde. – Ma dentro c’è un disordine personale: una valigia addossata alla parete, un libro appoggiato sul copriletto, i jeans abbandonati sulla poltrona. Puoi già dire che quel luogo transitorio è casa tua. E se, per sbaglio, entri nella stanza di un altro, in pochi secondi hai in mano una bozza della sua vita -.
È così. Non ci avevo pensato, ma è vero; dev’essere per questo che sto sempre attenta alle chiavi di casa, al numero esatto delle camere d’albergo, agli indirizzi. Ho un pessimo senso dell’orientamento, ma ricordo i nomi delle strade a memoria, sono incapace di collocarle con precisione su una mappa ma posso richiamarle alla mente quando voglio, senza sbagliare. Non mi piacerebbe entrare per inaccortezza in casa di qualcun altro; però mi piace immaginare, osservare i dettagli casuali – quello che si vede attraverso una finestra illuminata, un fazzoletto azzurro che viene fuori dalla tasca di un cappotto, la spesa nei carrelli, al supermercato, e cosa ti porta il cameriere, al bar, quando gli chiedi “il solito”.
Non sono brava a parlare di me; preferisco raccontare una storia che ho immaginato, una scena che ho visto, un film che ho scambiato per realtà e un imprevisto reale che potrebbe essere benissimo accaduto su uno schermo, al cinema, magari in una pellicola della Nouvelle Vague, imperfetta e prevedibile. È per questo che qui, tra queste pagine, tutto ciò che leggerete sarà finzione: è il mio modo per schivare le domande dirette come frecce e per sottrarmi alle luci puntate addosso come se fossi una ballerina di tip tap, è la mia arma personale contro l’eccesso di realtà, è la mia cura migliore per la prevenzione della malinconia. O dello spleen, come dicevano i poeti; le mie storie, sono uno spleen-killer, una pastiglia immaginaria per far pace col mondo. E per portare ordine laddove è necessario, e disordine in uno spazio talmente razionale da risultare incomprensibile.