Suora

a Giorgia e a Marilisa: grazie per la fiducia

Li sentivo, che mi guardavano. Sentivo i loro occhi addosso da quando ero uscita di casa, li sentivo che mi seguivano, dal portone alla fermata del tram, e poi anche sul tram, quando non avevo trovato posto e un vecchio m’aveva offerto il suo. Persino quando m’ero fermata al bar a fare colazione, in piedi davanti al bancone, m’avevano osservato. Anzi, soprattutto allora; mi ero sentita esposta, vulnerabile, m’ero sentita nuda, come in quegli incubi in cui ti svegli e sei in lacrime perché ormai ti hanno vista, però devo ammettere che un po’ mi faceva piacere sentire che s’interessavano a me, che non volevano perdersi uno solo dei miei gesti. Loro, gli altri, mi consideravano, volevano sapere tutto di me, e più sembravano incuriositi e più mi schermivo, voltavo loro le spalle, abbassavo lo sguardo: era tutto un gioco di potere e, per una volta, quel potere ce l’avevo io. Più di tutto, mi faceva piacere quando erano le donne interessarsi, a posizionarsi in modo da potermi comprendere nel loro campo visivo: erano scaltre, nei modi, erano furbe. Ne stanavo la doppiezza, la morbosità pure, però, in fondo, erano gentili, erano accoglienti e sorelle, e questo mi sollevava, sicché a loro soltanto restituivo lo sguardo, a loro soltanto regalavo mezzi sorrisi, cenni d’intesa che significavano: vi ho viste. Sono una di voi. Era sconcertante, per me, sentivo tutta l’amarezza e la vertigine delle prime volte: mai, prima d’allora, mai le donne mi avevano guardata così. Io, le donne, sono nata per renderle infelici.

Milano non la conoscevo; eppure ci ero stata spesso, ci ero stata con Michele. Per quasi un anno aveva lavorato lì e io lo raggiungevo appena lui mi voleva – una, due volte al mese –, ma non è che potessi andarmene in giro per la città: passavo tutto il tempo con lui, nella sua stanza, e l’indomani me ne tornavo a casa. Quando fui davanti alla Rinascente, ci rimasi male: me l’aspettavo più grande, più sontuosa, più luminosa. Me l’aspettavo diversa, tuttavia lo stesso entrai, mi aprii un varco tra gli sguardi, mi feci spazio sulla scala mobile e raggiunsi il secondo piano: avevo un colloquio fissato per l’indomani, volevo fare la commessa. Avevo mentito, sul curriculum, mi ero inventata una vita professionale che non avevo mai avuto – anni passati nei grandi magazzini a Londra e a Parigi – e avevo confezionato per loro un’esperienza che non possedevo ma che avevo saputo simulare con cura. Ero stata così credibile che anche adesso, se ci penso, mi sembra di aver detto il vero e riesco a vedermi da Harrod’s, il margine di rossetto a contenermi il sorriso e un’etichetta col mio nome appuntata sulla camicia.

Ero in città da qualche giorno, ormai, ma stavo male già da prima di partire. Sapevo che avrei provato dolore, ero preparata, ma non credevo avrei sofferto così tanto. Forse avrei dovuto fare una telefonata, chiedere spiegazioni, perché gli analgesici che stavo assumendo – ero stata precisa e obbediente – non stavano sortendo nessun effetto e non mi sentivo affatto meglio. Anzi, mi sembrava di star sempre peggio: mi girava la testa, forse quella mattina avevo esagerato con le dosi o forse c’era qualche problema, perché fluttuavo sull’orlo dello svenimento e il malessere mi attraversava per ondate. M’incendiava il corpo, mi faceva sudare e tremare e io cercavo di ignorarlo, e pregavo che mi desse tregua, pregavo e mi mordevo l’interno delle guance finché non passava. Ogni tanto, aggirandomi tra le calzature e gli sconosciuti, scorgevo la mia immagine nello specchio e trattenevo il fiato, avevo un piccolo soprassalto, poi mi veniva da ridere: ero io, quella ero io. Lo sapevano, gli altri? Cercavo nei loro volti una risposta – cosa pensavano, davvero? –, cercavo una conferma della mia esistenza ma era solo il dolore a darmela, un dolore che a un certo punto mi piegò in due, così mi ritrovai accasciata su una poltroncina di velluto, di quelle dove le donne si siedono a provare le scarpe nuove. – Tutto bene? -, mi chiese qualcuno, – Oddio, mi sente? -, e riuscii a ricacciare il male in fondo al corpo, riuscii a respirare, a guardare una delle donne che mi stavano addosso, a sfidare la loro inquietudine. – La toilette -, dissi, – Ho bisogno di un bagno -, e subito me l’indicarono. – L’accompagno? -, mi domandò una, ma non volevo nessuno, volevo essere dimenticata. Riuscii ad alzarmi e a camminare verso la toilette, ma ero atterrita e mi sentivo bagnata tra le cosce, bagnata e calda d’un calore che si andava dilatando, che mi andava occupando. Quando fui sola, mi tirai su la veste – non ricordavo fosse così pesante –, e mi sedetti, il freddo della porcellana contro la pelle nuda e sudata, il corpo che ormai apparteneva al male e che si contorceva, liberandosi di ciò che lo faceva soffrire, sangue e grumi, urina e qualcos’altro, qualcosa che non m’apparteneva, che non ero io. Svenni, la testa picchiò contro la porta e non so quanto tempo passò, non so cosa ne fu della mia nudità, sotto l’abito, della pelle e della carne dolenti, perché quando riaprii gl’occhi avevo tanta gente intorno, troppe persone e troppa luce. Ero in un corridoio, forse un ospedale; ero distesa su una barella, e stavo tremando. – Presto -, diceva una donna, doveva essere un’infermiera, e parlava a qualcun altro alle mie spalle, qualcuno che non vedevo. – Presto, dobbiamo andare al secondo piano. Abbiamo una ragazza, abbiamo suora che sta abortendo -. La suora ero io.

La verità è che non sono mai stata una suora. Ero vestita da suora, ma non lo ero. Non sono una donna di dio, non sono una femmina nata per la preghiera e per la contemplazione, per le orge saffiche nel silenzio dei conventi e per il rosario recitato con puntuale accanimento. Non sono un’ancella del Signore e nemmeno una creatura di fede, giacché la fede, io, l’ho coltivata solo per finta, per convenienza, per egoismo, nei mesi in cui venire in città era stata la mia liturgia, prendere un treno il mio canto di accoglienza, acquistare i biglietti – andata e ritorno, business class affinché la prossimità con troppi viaggiatori non mi sgualcisse i vestiti studiati per settimane – la mia penitenza, era la carità che elargivo al mio dio immaginario affinché mi perdonasse. La verità è che non ho mai fatto voto di castità ma ho dichiarato fedeltà assoluta a un uomo soltanto, Michele, a lui ho dato il mio corpo, il desiderio, l’amore, a lui ho dato la devozione che nessuno da me ha mai avuto né avrà più. A Michele ho dato la mia libertà di donna che viveva con un altro uomo e che per lui ha rinunciato a tutto, all’uomo, alla convivenza ai progetti; al lavoro, persino, quando con Michele è finita. Perché tra noi due è finita il giorno in cui sua moglie ha saputo di me e io ho saputo del bambino, sicché lui s’è ritirato offeso nel suo matrimonio in frantumi e io sono stata trascinata di peso sul patibolo, la nuca già sgombra dai capelli e pronta per la scure mortale. L’accusa, meritoria di condanna a morte, la conoscevo già e nulla feci per oppormi: rovinafamiglie, quello ero. Questo avevo fatto, lo facevo da sempre: era colpa del mio aspetto, della mia faccia, di come guardavo i maschi. Non soltanto adesso ch’ero adulta, ma anche prima, anche quando avevo otto, dieci anni, e il petto aveva incominciato a spingere i bottoni della camicetta di flanella, anche quando le cosce mi si erano ingrossate e riempite di striature viola, trasformandomi in una tigre bambina, bestia femmina che esibiva il manto ferino sotto l’ombrellone degli stabilimenti balneari di provincia. Gli uomini mi guardavano – padri, fratelli, il bagnino, il sordomuto della cabina accanto alla nostra –, si voltavano verso di me, verso il mio seno da donna nel costume di barbie, e mia madre mi sgridava, – Lo fai apposta –, diceva, – Tu, i maschi, li provochi –. Io non rispondevo mai, mi sentivo in colpa, anche se non era vero, che i maschi li provocavo. Io, i maschi, nemmeno li guardavo, perché al mare non mi facevano mettere gli occhiali e la miopia mi appannava lo sguardo, sicché tutto intorno era confuso, era un cono trigusto precipitato al suolo, la fragola che ha stinto nel cioccolato, che a sua volta ha sporcato il fiordilatte.

Eppure, quell’accusa, nata insieme alle smagliature, insieme al seno che mi doleva, insieme ai peli sul pube e sotto le ascelle, eppure quell’accusa me la sono portata sempre dietro e mi ha definito più di un segno particolare, più di tutto. Tu lo fai apposta, perché io guardavo i maschi e li obbligavo a volermi, perché io chiamavo i mariti e li strappavo ai loro matrimoni, alla purezza esclusiva e monogama della paternità: era colpa mia, del mio corpo, colpa del mio sguardo sporco e tentatore. Non sapeva, mia madre, che il mio sguardo era soltanto miope e curioso, fallato e impiccione, e che a me, dei maschi, a dodici, tredici, a quindici anni non m’importava niente; piuttosto, volevo nascondermi, sparire, volevo essere come le mie compagne di scuola, così belle, così magre. Occupavano poco spazio e profumavano di shampoo l’oréal per bambini, si lucidavano la labbra col gloss alla fragola e nello zaino non nascondevano l’involucro viola degli assorbenti, ma giornaletti che insegnavano a baciare. Mica erano come me, loro, che a baciare l’avevo imparato da zio Marcello, un amico dei miei genitori che, una domenica, mentre la moglie era di là coi miei a bere Martini e a parlare di vacanza in montagna che non avremmo mai potuto permetterci, mi raggiunse nella mia stanza e mi ficcò la lingua in bocca, m’ispezionò il palato, le gengive, e mentre cercavo di capire cosa fare, mi strinse forte le tette con le mani. Sentii dolore, il dolore che fa il petto quando cerca di farsi spazio nel corpo d’una bambina e crepa la pelle, sentii il freddo del suo Rolex, sentii un formicolio nelle mutande e d’istinto strinsi le cosce, incrociai le gambe, come per trattenere la pipì. Zio Marcello si scostò, sorrise con la bocca bagnata, – Quello la prossima volta -, e se ne andò. Non avevo bisogno dei giornaletti, io: a baciare, l’avevo imparato da un vecchio. A farmi toccare pure: sapevo tutto, a tredici anni ero già maestra.

Il sesso, l’ho praticato presto, enfant prodige degli amplessi, intelligenza precoce e rapidissima del piacere, elargito come la comunione alla fine della messa: aveva ragione mia madre, era colpa mia, lo facevo apposta, me la cercavo. E, da un certo punto in poi, ho iniziato a preferire gli uomini sposati, specie se in attesa di un figlio o alla ricerca di una prole che coronasse un percorso; non sono sicura di averlo fatto consapevolmente, almeno al principio. Il fatto è che tutto è successo così in fretta che non ricordo davvero chi ha iniziato, se io o loro, se sono andata incontro a Lucas, a Ivano, a Davide per prima o se sono stati loro a cercarmi. Forse, in fondo, non ha importanza, perché con loro ho confermato il talento che mia madre mi ha sempre rinfacciato, con loro l’ho fatto apposta, sono stata brava, ho sposato le accuse a mio carico e le ho trasformate in vanto. Non per piacere, ma solo per rigore scientifico, per amore della verità materna. Ho distrutto tre, quattro, cinque famiglie, forse di più, e ho potuto farlo grazie al mio corpo, per colpa del mio corpo da tigre, da bestia, per colpa del petto nato troppo presto, per colpa della bocca, delle cosce, del sedere, per colpa mia, che ai maschi non ci pensavo.

Anche con Michele è stato così, niente di nuovo: il mio corpo l’ha chiamato, la mia faccia, i miei occhi spersi pure – non mi guardare così, mi diceva, prima dell’amplesso, non mi guardare, e io chiudevo gli occhi, d’improvviso obbediente –, e così me lo sono preso. Lo andavo a trovare a Milano quando potevo, mentivo all’uomo che mi viveva in casa e contavo i soldi per il biglietto, per non dovergli mai dire di no. Poi, scendevo dal treno e con Michele mi chiudevo in una stanza di albergo: fuori, eravamo due estranei, ma dentro, eravamo amanti, e lo siamo stati finché sua moglie non l’ha saputo, finché lei non mi ha fatto perdere il lavoro – com’è facile perdere tutto, quando hai contro chi ha più potere di te! –, finché io non ho capito di essere incinta e non ho deciso di abortire. L’ho fatto nella cucina di Carmen, non in una clinica ma in una cucina, perché non ero una madre gravida, ma una femmina colpevole, perché il mio corpo animale andava punito, mutilato, emendato da tutto ciò che di buono Michele gli aveva lasciato dentro, ma per sbaglio.

Non sono mai stata una suora, mai. Il vestito l’ho indossato per provare una volta soltanto a essere donna e non femmina, a essere innocua, innocente, incapace di far male; il velo nero l’ho calcato bene sulla testa, sulle tempie, sulla fronte lievemente segnata da trentacinque anni moltiplicati per il coefficiente fisso da bestia, da cane. Quanto fa? Qual è la mia vera età?

Così nascosta, avvolta nell’abito da monaca, mi sono sentita una creatura in fasce, un piccione appena nato nel nido: nulla poteva succedermi e, per qualche ora, ho vissuto l’innocenza che mai, nella vita, ho conosciuto, e per qualche ora non ho temuto di sfasciare alcuna famiglia, non ho rischiato di strappare uomini alle mogli né ai figli. Per qualche ora, la finzione d’essere un’altra, mi ha restituito a me stessa.

Il colloquio in Rinascente non l’ho più fatto: non mi sono presentata all’appuntamento, sono sparita come un amante che ne ha abbastanza ma gli manca il coraggio per affrontare l’argomento. Dopo l’aborto, dopo i giorni in ospedale, dopo essere stata sgridata, accusata, poi comatita dai medici, dalle infermiere, dalle altre donne nella stanza, sono tornata a casa e, per qualche tempo, ho evitato di guardarmi allo specchio. Ho dormito molto, nel mio letto ho cullato il corpo mio e quello del figlio sbrindellato e per metà finito nella fogna, gli ho cantato ninnenanne senza riuscire mai a calmarlo, l’ho pregato di trovare pace, l’ho supplicato di smetterla di piangere. Non ho risposto al telefono quasi mai, non ho cercato nessuno, non ho cercato niente tranne il riposo, tranne l’oblio, tranne un po’ di dolore fisico capace di anestetizzare l’altro dolore.

Stamattina, mi sono svegliata affamata; il figlio che non ho più mi ha chiesto di mangiare, così mi sono alzata, mi sono portata sotto la doccia, ho lavato il manto della tigre, che nel frattempo s’è come sbiancato: forse, la bestia s’è ammansita. Sono scesa in strada e la luce del giorno mi ha fatto piangere, e camminavo e piangevo, andavo verso il caffè della piazzetta e piangevo senza curarmi di nessuno; anche al bancone del bar, col cappuccino davanti e il croissant intatto davanti ai miei occhi piangevo, e tutto mi sembrava incredibilmente doloroso, da quanto era bello, e nuovo, e troppo intenso. Non mi sono asciugata mai le lacrime, le ho lasciate cadere, il moccio che dal naso mi scivolava sulle labbra, senza vergogna, finché non ho sentito una ragazzina che mi guardava: non sapeva impedirsi di farlo, mi ha fissato in silenzio e poi ha detto alla mamma, – Guarda quella, ma’, guardala: piange come una bambina -. Bambina, io, la rovinafamiglie. Bambina, io, la tigre. Bambina, io, quella che lo fa apposta. Bambina, io che bambina non sono stata mai.