Sul tavolo trovai i resti della colazione; accesi la TV, i cartoni animati che guardavamo ogni mattina erano appena iniziati e il mio sguardo si diresse verso l’angolo dello schermo, sul logo del programma per bambini ch’era diventato parte delle mie coordinate quotidiane. Un appiglio, come prima erano le canzoni dei Daft Punk, dei Belle and Sebastian, che ascoltavo in cuffia, andando a lezione. Adesso, per calmarmi, nei momenti di smarrimento – rendersi conto ch’è tardi, che loro escono da scuola, dover lasciare tutto a metà e correre a prenderle senza salutare, senza chiedere scusa –, adesso cantavo sottovoce le sigle dei cartoni, martellanti e ipnotiche. Le schiacciavo con la lingua sul palato e mi ferivano, chiudevo gli occhi e sorbivo il sapore di sale e di ferro, sorridevo alle mie figlie, che hai fatto al mento, cos’hai nella cartella, dov’è il fermaglio che t’ho messo stamattina? La pausa pubblicitaria mi riscosse e guardai l’ora: le sette e mezza. In altri giorni, in quel momento, mi sarei seduta sul letto dell’una o dell’altra, avrei alzato al massimo il volume della TV, canto stonato di sirene, inganno inflitto alle mie figlie: ascoltate quella voce, non me. A lei, obbedite a lei. Negli altri giorni – ieri, avantieri, prima ancora, e alla vigilia del prima –, quello era il nostro inizio. Il trampolino, la linea del via, le gemelle che fingevano di dormire, riottose nel pigiama rosa l’una e violetto l’altra – distinguerle, dovevo pur imparare, far pagare a loro la colpa che avevo avuto di generarle uguali, incidente desiderato della fecondazione assistita. Negli altri giorni, a quell’ora, avrei indossato la mimetica di madre, avrei caricato le armi contro le mie figlie, contro il tempo, contro la scuola, che ci obbligava a quella guerriglia del “di buon’ora” – ma non era la scuola a forzarmi, era mio marito, gli occhi che lui imponeva come le mani d’un santo dispotico sui miei gesti, sulle mie giornate che lui vedeva vuote. Era per lui che ogni mattina mi alzavo, riscaldavo la voce arrochita dal sonno, vocalizzando i nomi delle gemelle – Ga-ia! Se-re-na! Ga-ia! –, cercavo di sedurne una su due, di portarla dalla mia parte, e l’altra già piangeva più forte, già pianificava la controffensiva. Negli altri giorni, ma non allora: quel lunedì le gemelle non c’erano. Le avevo affidate io stessa alle mani dell’insegnante, identiche, cartella gialla, cartella verde, scarpe di tela blu, scarpe di tela celesti, ma lei non sbagliava mai, ravviava i capelli a Serena e porgeva la guancia a Gaia, le chiamava per nome senza esitare. – Non sei madre loro -, l’accusavo muta ogni volta, – Non lo sei cosa ne sai? Non vedi come t’inganni? -; così ero rimasta senza gemelle. Mi ero accertata che l’autobus sparisse dentro la nebbia, oltre il semaforo, avevo chiesto conferma: venerdì sera alle sette e mezza?, sette e mezza, venerdì, mi mancherete, e nemmeno l’avevo avuto il tempo per elaborare la possibilità della mancanza, il buco nella bocca di una madre che per qualche giorno perde le figlie, le sputa come un dente andato a male, e se le ritrova sul palmo, cave e insanguinate.
Anche senza marito ero rimasta: quella mattina aveva avuto il torto d’apporre una croce sul calendario delle gemelle e sul suo, sicché le croci s’erano scontrate, incapaci di star vicine, e noi – io e le gemelle, ma io non contavo, la loro parità m’inglobava – avevamo dovuto ritirarci, ridurre il conflitto della sveglia, consumarlo in silenzio, guerra fredda di recriminazioni filiali e di ripicche materne, amplificate dalla sovrapresenza del padre. Il padre offeso dalla coincidenza delle partenze: la sua e quella delle sue figlie, lo stesso giorno. Sarebbe tornato il venerdì anche lui, insieme alle gemelle, solo che loro due me le avrebbe restituite l’autobus che se l’era portate, mentre lui si sarebbe consegnato a noi da sé, avrebbe colmato il vuoto restante che nessuna di noi avrebbe notato – noi tre da sole eravamo l’intero -, ma che non avremmo tardato a soffrire nella mancanza d’ordine delle cose, nell’anarchia affettiva: non amarsi a vicenda, ma tollerarsi per sopravvivenza, niente grazie, buongiorno, mamma, solo gesti istintivi di reciproca cura. Senza mio marito, diventavo, per le mie figlie, la gatta che, cacciata a forza in mezzo a una cucciolata di cani, impara a leccarli e a tergerli come fossero figli suoi, ma è pronta a graffiare per difendere il suo cibo. Mi abbandonai sulla sedia che di solito era di mio marito, mangiai un moncone di biscotto umido – latte, acqua, saliva di Gaia o di Serena –, lo deglutii senza distinguerne il sapore, lo sguardo tirato di lato da un tovagliolo sporco di sangue. Una delle due s’era strappata la crosta da una ferita sul gomito e s’era esibita in un numero di pianto e compiaciuto spavento; ci aveva radunati intorno a sé – groviglio di moccio e di vanità da solista –, e ognuno di noi era stato obbligato a simulare interesse. Un interesse fittizio, come la premura, come la calma, come l’amore materno in un’alba di febbraio, ch’è ancora notte, insofferenza e furto di sonno.
La sigla del cartone animato esplose tra le pareti della cucina, la sentii spandersi sul tavolo, tra i fondi di latte e cacao, tra le briciole di pane di Camille – cibo buono per le formiche, per gli scarafaggi: venite, non mi lasciate –, colarmi addosso, ma non facevo nulla per fermarla, per proteggermi. Non mi scostavo, non cambiavo canale: cantai le parole a memoria senza capirle, poi tacqui e accadde: la solitudine mi si parò davanti, inevitabile e maestosa, come un muro infestato dall’edera cattiva e dal muschio, sul fondo d’un vicolo cieco. Era una solitudine sconosciuta, forestiera: non era il languore annoiato dell’infanzia, non era la libertà abusiva degli anni universitari, non era nemmeno la pena da scontare alla fine di un amore. Era una solitudine assoluta, mai vista, era una donna – la solitudine era una donna – che mai avrei pensato d’incontrare. Perché mai, da sette, otto anni almeno – quanto tempo era che avevo le gemelle? Da quando erano nate o da prima, quando m’avevano colonizzato il corpo e il sesso con mio marito, quando non ne volevano sapere di farsi concepire? Da quando? –, da sette, otto anni almeno, non ero mai stata sola. Meglio: sola ero stata anche troppo. La maternità era stata l’inizio d’una progressiva regressione della memoria. Una sorta di sovrascrittura, che aveva registrato il tempo trascorso con le mie figlie – stare con loro tutto il giorno, averle con me in bagno, lo sguardo fisso sul mio corpo mentre mi lavavo, mentre mi tenevo la testa tra le mani, le mutande all’altezza delle caviglie, le mutande che ancora non ero tornata a tingere del rosso mestruale che m’avrebbe restituita a quella ch’ero prima, e che invece tardava, lui che una volta era d’una puntualità crudele e che adesso mi faceva temere una gravidanza nuova, non voluta, esaudita fuori tempo massimo. Come avrei fatto a nasconderla? Come avrei fatto a nascondermi, adesso che avevo quattr’occhi sempre a sorvegliarmi, adesso ch’ero sola con loro due? Sola con: non si dovrebbe mai essere soli con qualcuno; ma io lo ero con le mie figlie. Dovevo pur ammetterlo, una buona volta.
Trascorsi quel primo giorno di solitudine in casa, trattenuta da un’immobilità che avevo ottenuto per deduzione, che mi s’impose come un’evidenza, come s’estrae la radice di un quadrato perfetto, che si lascia cavare intera, senza incisioni, senza sutura. Perlustrai le stanze una a una, uscendo e poi entrando, atterrita dall’ombra che il cappotto di mio marito, appeso alla maniglia dell’armadio, proiettava sul letto, lunga e spigolosa come il corpo d’una vecchia assopita sulle nostre lenzuola. Mi sedevo alla scrivania – sua, non mia: mia era la camera delle bambine, mio era il bagno dove le vestivo, dove ancora prolungavo i miei tempi necessari per sfuggire alla famiglia, al pianto delle mie figlie, alla voce di mio marito che m’invocava, Laura, affinché mettessi a tacere loro. Mio era il bagno dove le vestivo, pettinavo, sgridavo, ma solo per sentire l’eco rabbiosa delle loro reazioni e compiacermene, brave: ribellatevi, non permettete nemmeno a vostra madre di amarvi. Sfuggite alle mani altrui. Mia era la cucina, mia era –. Mi sedevo alla scrivania e fissavo il ritratto di donna affisso alla parete, un olio dai colori cupi come quelli d’un frutto marcio, d’una mela mangiata dai vermi. Chi era quell’estranea, perché mio marito l’aveva voluta in casa nostra, che ci faceva là? Perché a lei era toccato il salotto e a me il bagno, la cucina, la TV coi cartoni animati, perché lei la chiamavano signora – così era scritto, nella targa dorata in basso: Profilo di signora –, perché lei signora e me mamma? Anche a me dovevano dire signora: l’avrei imposto alle gemelle, come la sveglia crudele, come il passato di verdure che ficcavo a forza nelle loro bocche insultanti, e mi ripromettevo di non farlo più, di chiedere scusa, ma le promesse sono facili da dimenticare, sicché tornavo ad annegare la buona fede nei loro piatti, traboccanti di menzogne e d’un potere che, lo sapevo, non avrebbe tardato a rivoltarmisi contro. Il martedì, come il lunedì, non si lasciò guardare in volto – lo vidi davvero passare? Che aspetto aveva? –, e si dileguò prima che potessi chiamarlo per nome. Nemmeno il mercoledì uscii di casa; mi nutrii di mezze colazioni, di fette biscottate sbriciolate, di un panino rancido, che avevo ritrovato nella cartella di Gaia: perché non l’aveva mangiato? Quale dolore voleva che mi germogliasse sottopelle, quale ritorsione aveva spalmato tra la mollica indurita e l’orlo ingrigito della fetta di formaggio ormai secca? Mi offrii completamente ai programmi televisivi, mi lasciai possedere dalla loro vacuità, per impedire all’odio, che stava crescendo incontrollato e selvatico per una figlia, di superare quello che coltivavo per l’altra: non dovevano esserci squilibri, tra le gemelle, non potevo permettermi disparità. A ciascuna in egual misura. Quel pomeriggio, me la presi con l’armadio: mi avventai sul suo corpo come se volessi privarlo delle interiora, con la stessa voluttà ereditata dalle mani di mia madre, che emendava dalle piume e dalle budella decine di piccioni che poi serviva, ma non mangiava, che disponeva con gusto in una teglia in forno e poi contemplava, mentre rosolavano, come per accertarsi che non le facessero il nido in cucina. Tirai tutto fuori: maglioni, gonne, pantaloni premaman – era esistito un tempo, prima della maternità, eccone le prove. E poi calze, reggiseni, camicie: era così che faceva un chirurgo, durante un’operazione? Asportava gli organi che trovava, prima di arrivare a quello malato, e li appoggiava sulla barella, accanto al corpo spalancato e addormentato, i parametri vitali lampeggianti su uno schermo? E io, cosa stavo cercando, qual era il polmone, il rene, il cuore che volevo recidere? Notai una bruciatura di sigaretta, sulla manica del cappotto, e mi domandai a quando risalisse, chi fosse il responsabile: non contavo niente. Nella parità delle gemelle io scomparivo, bruciatemi pure, sono una tenda, sono un divano, sono un bidone della spazzature incendiato la notte di capodanno. Lasciai tutto com’era, mi trasferii in salotto – altro territorio straniero di cui ignoravo la capitale – , e nel passaggio da una stanza all’altra – dov’era la polizia di frontiera? I documenti, chiedetemi chi sono –, la scheggiatura sullo specchio dell’ingresso mi parve per la prima volta insopportabile, sfigurante come un incisivo spezzato, e mi misi a piangere, a piangere quella rottura, a piangere quello squilibrio, i vestiti sul letto e il coraggio che mi mancava, che m’impediva di tornare di là, di mettere tutto a posto.
L’indomani era giovedì; mi svegliò il telefono, lasciai che domandasse a vuoto. Non risposi mai. Invece, tornai nella mia stanza: mi spogliai, mi guardai le costole che la fame spingeva in fuori, la cicatrice rosa dell’herpes labiale e quella del cesareo, spessa, sotto l’elastico del pigiama. Ero cambiata, dall’ultima volta – da quando? Ero diversa da quando mi fingevo distratta, in ascensore, ma in realtà mi stavo controllando i capelli, diversa dal riflesso nel nero laccato del pianoforte, negli anni delle lezioni di musica, diversa da quando baciavo Gianni, compressa nell’abitacolo della sua auto, e mi scoprivo scomposta e brutta, nel retrovisore, ma non me ne curavo, impaziente com’ero di applicare sui corpi di altri maschi ciò che stavo imparando lì dentro. Sono sempre difficili gli apprendistati, così sporchi d’errori e d’umiliazioni, le gambe scosse dalla mancanza d’esercizio, lo spillo nella milza di chi corre e non respira. Quel giorno, sfuggire alle detonazioni delle mine che cospargevano il suolo di casa mia – giocattoli, scarpe da danza, riviste di barca a vela – fu difficile. Arrivai al pomeriggio ferita, le mani come un laccio emostatico per fermare l’emorragia: perché mio marito leggeva quelle cose, quanto era grande una barca? La collocai mentalmente in salotto, poi sul balcone, poi in bagno: no, in bagno non ce la volevo. Quello era territorio mio, ma più tempo passavo, da sola, in quegli spazi, più diventavo straniera; più loro si espandevano, più mi scoprivo incapace di riguadagnare la via della porta. Ero rimasta sola per la prima volta dopo troppo tempo, e tutti quegli anni di convivenze i avevano privato dell’istinto alla solitudine: tutti quegli anni con gli altri mi avevano isolata per sempre da me stessa.
Il venerdì mi alzai presto. Non accesi la TV, aprii le finestre. Volevo mettere a posto i vestiti, invece li scostai e mi distesi sul letto; la sera, toccava a me andare a prendere le bambine. Sarebbe stato facile, mi sarebbe bastato uscire di casa – uscire: non uscivo da lunedì mattina –, guidare fino alla fermata dell’autobus, riconoscerle: non Gaia da Serena, ma tutte e due dagli altri, mi siete mancate. Poi tornare a casa. Sarebbe stato facile: avevo goduto della solitudine per giorni, avevo dato da bere al serbatoio e adesso ne avevo una scorta, ero pronta a tornare alla vita di prima. Ero pronta a regredire alla domenica, al sabato, alle settimane, agli anni che dalla solitudine mi avevano allontanata, che me l’avevano fatta disconoscere: chi sei, come ti accolgo, che me ne faccio di te? Non ti voglio, non voglio me stessa: del mio tempo non so che farmene. Uscii con un’ora di anticipo – la strada, dovevo ricordarmi la strada: ero una madre che va a riprendersi le figlie –, parcheggiai davanti alla fermata ancora deserta, spensi il motore. Ripensai a casa mia, al disordine: avrei potuto mettere a posto, ma non l’avevo fatto. Avevo contemplato lo sporco, la confusione d’una donna sola – barattoli di cetriolini sottaceto, cartoni di pizze impilati e ancora mezzi pieni, una bevanda proteica al cioccolato aperta e appena assaggiata, poi abbandonata – era così diversa da quella d’una famiglia intera. Era più appiccicosa, aveva qualcosa d’illecito, di proibito; dopo, metto a posto, dopo. Mi riprendo le gemelle e sistemo ogni cosa prima di cena; prima che torni lui. Seduta al volante, avevo salutato i genitori, usciti in anticipo come me, che iniziavano ad arrivare; avevo acceso la radio e la musica m’era sembrata crudele, fuori posto, contro di me. La voce di una giornalista che parlava della Russia, dell’Ukraina, della guerra, mi obbligò a spegnere. Era quasi ora: l’autobus non avrebbe tardato. Allora misi in moto, abbassai i finestrini, me ne andai.
Mentre il cartello col nome della città mi spariva dietro le spalle, mi venne in mente mia madre. Erano diciotto anni che non la vedevo; chissà se viveva con qualcuno. Chissà se abitava ancora allo stesso indirizzo.