Di quella sera mi ricordo la pizza; era estate, le donne avevano trascinato le sedie della cucina sui marciapiedi, portandole giù per le scale, e se ne stavano di fronte alla strada, sporgendosi negli spazi tra le auto parcheggiate, come se fossero davanzali di finestre. Avevo chiuso io il salone della parrucchiera che mi dava lavoro, perché lei aveva dovuto andarsene in fretta, raggiungere in ospedale sua figlia, che era in sala travaglio da ore: il suo corpo stremato dalla gravidanza e dal caldo non avrebbe tardato a liberarsi di una bambina già grossa e piena di capelli, già disperata e piangente, come tutti gli umani di fronte a una separazione. In fondo, il parto non era altro che quello, una scissione, uno scorporo, come diceva mia madre; c’erano tutti i motivi per essere sconfortati, ed era così che mi era sembrata Costanza, quando mi aveva affidato il negozio e aveva preso le chiavi della sua auto: avvilita, addolorata. – Questa cosa non doveva succedere -, mi aveva detto, e mi aveva stretto l’avambraccio, mentre mettevo in piega i capelli all’ultima cliente; – Tu non farlo prima del tempo: sta’ attenta, mi raccomando -, e alludeva alla gravidanza, parlava di me per parlare di sua figlia, che aveva messo al mondo una bambina da sola, a diciott’anni appena, con la stessa rassegnazione indolente di chi va a comprarsi un ghiacciolo al limone in spiaggia e già sa che si sarà mezzo sciolto nel percorso dal bar all’ombrellone. Più tardi, mi aveva mandato sul telefono una fotografia della neonata, – Ha preso dal padre -, mi aveva scritto, anche se il padre non lo avevano mai visto e chissà se sapevano chi fosse; solo che io, allora, ero nel mezzo di un’altra disunione, ben diversa da quella della figlia di Costanza, e non le avevo risposto.
Michele era venuto a prendermi in macchina; – Non ho preso niente per cena, compriamoci due pizze da asporto -, aveva esordito, e avevamo ordinato due margherite, le stavamo portando a casa ed ero io a tenerle dritte, appoggiate sulle cosce nude, seduta al posto del passeggero. – Non fare inclinare i cartoni -, mi ripeteva Michele, e io iniziavo a non sopportare più quel calore contro il mio corpo e mi sembrava che la città fosse infestata da semafori rossi, da ritardi accumulati. Fu allora che mio marito mi disse che mi lasciava, che il nostro matrimonio non sarebbe arrivato a festeggiare il quinto anniversario e che aveva un’altra, Marzia, o Mara, nemmeno ascoltai bene il nome. Mi accompagnò a casa, salì con me, senza togliermi di mano le pizze bollenti, e ci sedemmo a tavola come tutte le sere. – Me ne vado un po’ alla volta -, mi annunciò, come per consolarmi, ma dall’indomani era come se non ci fosse già più, come se fossimo stati proiettati altrove e quella Marzia, o Mara, fosse già diventata sua moglie.
So tutto -, mi aggredì l’indomani Costanza, al salone, e rapidamente la notizia del tradimento prese il posto di quella della nascita della bambina senza padre. – Cosa sai? -, le chiesi, a metà mattina, perché io stessa ero ignara della maggior parte della storia, ricordavo soltanto il calore dei cartoni delle pizze contro la mia pelle, ricordavo un dolore insopportabile ma difficile da localizzare. Costanza si premette l’indice sulla bocca e chiuse gli occhi, mi spinse verso la cliente che mi aspettava e mi guardava attraverso lo specchio, coi capelli bagnati schiacciati sul cranio e gli occhi lividi di trucco sbavato. – Te ne devi andare -, mi annunciò, alla fine della settimana, – Te ne devi andare, perché al paese si parla troppo di te e ti voglio proteggere -, e mi spiegò che sarei andata a lavorare in città, da una sua amica, e che una sistemazione me l’avrebbero trovata di sicuro. – Devi farti dimenticare -, mormorò, mentre lavavo il pavimento, prima della chiusura, – Tanto qui saranno tutti impegnati a chiamarmi nonna e vedrai che in autunno staranno già pensando ad altro e potrai tornare. Era sabato sera. Il martedì successivo avrei iniziato a lavorare in un altro salone, a mettere le mani tra i capelli di altra gente, a strofinare la forfora dietro le orecchie di estranei nuovi.
In città mi ospitavano alcuni parenti dei miei genitori; mi accompagnò a casa loro mio padre, che raccontò del tradimento che mi era stato inflitto come se ne fossi stata responsabile, con la voce che gli tremava dall’umiliazione subita e la camicia azzurra bagnata di sudore sulla schiena. Nel nuovo salone, fui accolta da Irma, una donna dai capelli cortissimi e dai grandi occhiali rossi, che subito mi mise una parrucca in mano; – Devi mettere in piega questa -, mi ordinò, e già sapeva tutto di me, già mi chiamava per nome e ogni tanto mi strofinava la schiena, come per consolarmi per ciò che mi era successo, come se lei sola capisse che non avevo colpa. Appuntò con gli spilli la parrucca su una testa di polistirolo. – Devi far piano -, mi ingiunse, con un altro dei suoi imperativi, – Una parrucca è delicata, non hai idea di quante preoccupazioni si porta dietro -, e non capii se alludesse al dolore di chi è costretto a indossarla, all’onta sciagurata di una calvizie o alla cura di cui aveva bisogno una protesi così fragile. Mi abituai di giorno in giorno alle clienti, a Irma che ringraziava quando ero io a ricevere complimenti, all’inflessione dialettale del luogo, all’orario continuato. Guadagnavo poco in quel periodo, sentivo la mancanza di mio marito tutte le settimane, quando Irma contava le banconote che mi spettavano con le dita umide di saliva. Telefonavo ai miei genitori la domenica e ringraziavo i parenti che mi accoglievano, come se quella fosse la mia penitenza, come una preghiera per l’assoluzione. D’altra parte, casa loro era tappezzata di immagini di santi e di lumini per i morti; – Sei bella come una madonna -, mi disse Angela, la padrona di casa, un lunedì mattina. – Dobbiamo trovarti qualcuno -, e quel giorno stesso mi presentarono Elio, il figlio dei vicini, trent’anni e un viso così imbrunito dal sole da farlo apparire imbronciato e severo. Era tornato a casa dopo la sessione di settembre, studiava ancora all’università e avevo tre anni più di lui; questa differenza mi fece subito sentire responsabile, mi fece vergognare della mia inconcludenza prima ancora di capirne il motivo. Mi chiese di uscire con lui due giorni dopo, quando ci incrociammo per le scale; sarebbe rimasto a casa fino alla metà di ottobre, almeno, e mi spiegò anche quando si sarebbe laureato, e in che cosa, ma non lo ascoltai, mi sentii una traditrice nei confronti di Michele, anche se a lasciarmi era stato lui. – Ci vediamo stasera? -, mi domandò, e almeno in quel momento ero attenta e acconsentii, senza entusiasmo, timorosa di generare altri dolori o, più verosimilmente, di seppellire quelli vecchi sotto la terra di sofferenze più fresche, di alimentare disonori che mi avrebbero allontanata anche dalla città, anche dal salone di Irma, dove pettinavo parrucche e lavavo la testa a donne che non sapevano niente di me, o perlomeno così credevo.
Elio mi aspettava sotto il portone alle nove di sera, con le mani in tasca, appoggiato a un’automobile bianca; era bello e giovane, mentre io mi sentivo stantia come una camicetta di seconda mano, impregnata del sudore di chi l’ha indossata prima, consunta dall’usura sul collo e sui polsi. Andammo insieme a mangiare un gelato e fu lui a pagarlo, prima che potessi tirar fuori il portamonete dalla borsa, passeggiammo mentre fuori era già buio; pensai poco a mio marito e a quella donna che aveva preso il mio posto, solo una volta o due, e mi morsi forte il labbro per allontanare, col dolore, la loro immagine dalla mente. Elio parlava dell’università, degli esami, più di una volta mi chiese del mio lavoro: risi per l’imbarazzo, accennai ai capelli e alle parrucche, alla titolare che non aveva bisogno di messe in piega e delle clienti che cambiavano colore ogni due settimane pur di sottrarsi all’onta del grigio. C’era vento e l’aria di fine settembre sapeva di rosticceria e di temporale; se ci fossimo trovati sotto la pioggia, forse non me ne sarei nemmeno accorta. Prima di salutarci, Elio mi baciò all’angolo della bocca, – Ti amo -, gli dissi d’impulso, quasi in cambio: lui si ritrasse, – Vacci piano! -, mi rimbrottò. Ci rivedemmo un’altra volta, prima della sua partenza, e di nuovo non seppi trattenermi, – Ti amo -, gli confessai, senza pensarci sopra, e lui questa volta se ne ebbe a male. – Ma cosa ne sai proprio tu dell’amore? -, non mi baciò e mi lasciò davanti al portone. Non lo incontrai più, dopo quel secondo appuntamento, lo feci scomparire senza oppormi, come avevo fatto con mio marito, come avevo fatto con già altre volte.
Ci incontrammo di nuovo dopo qualche anno; Irma aveva aperto un negozio di parrucche e avevo preso il suo posto, nel salone. Vivevo in un appartamento senza balconi, lontano dal centro, ma non avevo dimenticato la famiglia che mi aveva accolta, nonostante l’infamia del matrimonio crollato, e tornavo spesso a trovare Angela, le portavo dei dolci e li mangiavamo dando le spalle alle icone dei santi appese alle pareti. – Sei bella come la madonna -, mi ripeteva sempre e, un giorno, mentre scendevo le scale, dopo essere stata da lei, mi imbattei in Elio. Ero felice di rivederlo: il divorzio mi aveva restituito una spensieratezza che fino ad allora non avevo conosciuto, ma non avevo smesso di sentirmi colpevole. Lo invitai a casa mia e lui accettò, e mi spogliò quasi subito, senza spegnere la luce, prima di accorgersi che la camera da letto dava su un cavedio, e che nessuno poteva vederci. Dopo quella prima volta, Elio prese posto nel mio quotidiano; veniva a prendermi al salone e mi portava a casa: gli piaceva il mio appartamento senza luce, quella mia solitudine che lo liberava dalla camera di ragazzo dove ancora dormiva, dai suoi. – Non mi ami più? -, mi chiese una sera, mentre eravamo seduti sul letto, e io non capii: allora lui rievocò il nostro primo appuntamento e io risi, imbarazzata, ma subito dopo mi rattristai. – Perché mi dicesti che mi amavi? -, mi domandò, serio.
Mi alzai, gli appoggiai un orecchio sulla schiena. – Perché allora non avevo niente, avevo soltanto quello -, gli risposi, – L’amore era tutto ciò che potessi darti -, ed era la verità, ma era solo la prima volta che ci pensavo.