Quando mio marito uscì di casa, mi sentii leggera. Provai il sollievo di chi sta per trascinarsi su per le scale la valigia di un trasloco ed esita ai piedi della rampa, ma qualcuno lo sorprende alle spalle, gli libera le mani e gli allevia l’ascesa. Mi concentrai sul vuoto che aveva lasciato – spazio mio, spazio in più per me –, su quanto mi sembrava grande la stanza, adesso che c’ero io soltanto. E poi silenzio, tutto quel silenzio. Non ricordavo che potesse farmi così bene; chiusi gli occhi, distesa sul divano. Sentivo la radio accesa, nell’appartamento accanto al mio, la voce di qualcuno che scendeva di corsa e forse parlava al telefono, rideva. Aspettai di udire il portone sbattere – la spensieratezza di chi può dirsi indifferente al rumore garantisce un’esistenza più compatta, più felice, forse persino più lunga, in termini di aspettativa di vita. – Ecco -, pensai allora, – Ecco: è tornato il silenzio -.
Nei primi giorni, mi espansi. Ero una spugna rinsecchita che precipita in acqua per sbaglio e rinasce, ero il seme di papavero trasportato dal vento nei vasi di geranio di mia madre e fiorito all’improvviso, sfacciato e possente, e privo di grazia. Dall’errore nasce la vita, dalla fine di un matrimonio – del mio – nascevo io. Passò la prima settimana e, da spazio libero, l’assenza di mio marito divenne spazio vuoto, squarcio beante nella tela opaca della vita quotidiana. Il silenzio mi piaceva ancora; l’ordine derivante dal canto monodico – la mia voce e solo la mia – iniziava però a diventare inquietante e ossessivo, sinistro come un rosario recitato da una vecchia inginocchiata in una chiesa, incurante delle preghiere mute di chi entra e resta in piedi, renitente a genuflettersi, per paura che dio non gli conceda mai più la grazia di rialzarsi. Una mattina, fui svegliata dalle urla; cercai di stabilire da dove venissero, provai a distaccare quell’indignazione – un maschio e una femmina in conflitto –, come pelle morta, dal rumore di fondo: il lamento dell’acqua nelle tubature, la radio della vedova, al di là della parete, i clacson delle auto. Mi alzai andai in cucina e da lì capii: quelle grida arrivavano dal terzo piano, dai corpi esausti di una giovane coppia di coniugi che fino ad allora avevo visto felici, che fino a quel giorno avevo detestato, per il modo di aggrapparsi l’uno all’altra quando uscivano presto al mattino, la mano di lui in quella di lei, la mano di lei che si stringeva al guinzaglio del cane. Cercai il disco dei Concerti Brandeburghesi, lo appoggiai sul piatto, aspettai che la musica s’installasse nella stanza, ma le voci di quei due lo impedivano, la sovrastavano, come faceva prima la voce di mio marito. Ma se la sua riuscivo a isolarla, se la sua potevo soffocarla – la vedevo agonizzare dentro un sacchetto di plastica immaginario e nulla facevo per portarla in salvo –, la loro non riuscivo a smorzarla. Distinguevo le parole, le recriminazioni, il cane che latrava e non capivo se gioisse – bestia selvaggia riportata ai suoi istinti originali – o si dolesse. Forse soffriva, come me; forse non ero sola. Alzai il volume e, per qualche minuto, cercai di ascoltare la musica soltanto, come un amante, ai primi appuntamenti, ci parla, ma le sue parole si perdono nel brusio intorno. Gli archi sparirono, il fraseggio pure; il coro stonato del piano di sotto s’imponeva, annullava il resto: c’erano solo loro, gli sposi che prima si erano tenuti per mano e adesso se la staccavano a morsi, un uomo e una donna dall’amore insopportabilmente verbale, che non riuscivo a far tacere. Mi coprii le orecchie, mi venne da piangere; mio marito, pensai a lui: cosa mi aveva detto prima d’uscire di casa? Aveva urlato, come il marito sconosciuto che si disperava sotto i miei piedi? Sì, lo aveva fatto, e anch’io dovevo avergli detto qualcosa, perché mi bruciavano gli occhi e la gola dopo. Forse, pur senza ascoltarlo, avevo reagito. Ero stata io, pochi giorni prima, la donna del terzo piano? E loro, loro due, mano nella mano, cane a far la guardia al loro amore, loro due erano stati testimoni di ciò che era accaduto? Avevano origliato il mio fallimento come io stavo facendo col loro? Presi le chiavi di casa, m’infilai le scarpe e uscii; arrivai dietro la loro porta e non s’accorsero di me, continuarono il saliscendi di rimostranze, di collera trattenuta e poi lasciata andare, un uomo, una donna e un cane – non un figlio, un cane, bestia che sorvegliava altre bestie. Suonai; appoggiai il dito sul campanello a lungo e sentii il suo suono acuto fendere le voci, arrivare al cane, che smise di piangere e abbaiò. Venne ad aprire lui, il marito; lei era appena dietro, occhi sbarrati dalla curiosità. Dall’insofferenza per me, estranea che osava intromettersi in quel coito fatto d’odio e di rancore. il tentativo di salutarmi, la simulazione di cordialità che mi escludeva, che mi attirava dentro col solo scopo di buttarmi fuori, intrusa e sola, sabbia nell’ingranaggio della binaria logica coniugale. – Vi dovete separare -, dissi, senza preamboli, guardandoli in faccia, prima lui e poi lei. – È inutile continuare a stare insieme: separatevi, e il cane mi venne incontro, aveva smesso di esitare fra lui e lei, la mia presenza terza l’aveva salvato e aveva pareggiato il conto. Io ero dalla sua parte; la solitudine ci univa e ci salvava. Non attesi la reazione dei due sposi, non m’importava. Me ne tornai nel mio appartamento; prima di di rimettere la musica, cercai ancora una volta le voci del terzo piano: silenzio. Avevano smesso. Ripresi ad ascoltare i Concerti Brandeburghesi da dove li avevo interrotti.
Passarono due settimane e mio marito non tornava; lo spazio senza di lui si stava adattando al mio corpo che, da quando ero rimasta sola, sembrava essersi predisposto a moltiplicarsi per due, come per compensazione, come per farmi compagnia. – Non era meglio un cane? -, m’ero chiesta, sgomenta, quando avevo iniziato a capire, ma quelle parole non le avevo pronunciate davvero, ostinandomi in un mutismo completo che a lungo avevo desiderato e che temevo destinato a finire. M’ero tenuta il dubbio, bloccata nel mio purgatorio di donna che ha perso il marito ma non l’anello, che non può dirsi vedova né nubile. Cos’ero? Perché non esiste una definizione per l’orfanità coniugale, per quell’abbandono che è liberatorio e al tempo stesso doloroso? E soprattutto, cosa pensava mio marito, dov’era, cos’era, ormai, per me, per noi? Noi: non dovevo dirlo mai più. Quel plurale mi atterriva. Io, ero io soltanto, singolare e sola; dovevo stare attenta ai pronomi, perché basta sbagliarli una volta per aprire porte che andavano tenute sigillate, piombo colato nella serratura, basta un errore di un momento per trovarsi a gestire un plurale indesiderato. In quell’epilogo del matrimonio, dovevo essere io; io, nome mio e cognome di mio padre, io che esistevo da prima e che avevo permesso a mio marito di corrompere il mio intero. A pensarci, non l’avevo mai voluto accogliere davvero; non per mancanza d’amore, ma per l’incapacità di sostenere la facilità – l’arroganza, la sfrontatezza – di chi non è abituato a misurare ciò che dice, di chi è cresciuto tra la gente e ne accetta la promiscuità delle voci, la distorsione del suono di chi ti parla da una stanza all’altra e per farsi sentire grida, e per starti vicino t’invade. Così faceva mio marito: era tutto un discorrere, raccontare, ripetere; era tutto un: ascoltami, senti, ti ricordi? E io non ascoltavo, non sentivo, non ricordavo. Mi aveva parlato di matrimonio e dovevo avere accettato senza accorgermene, perché m’ero ritrovata all’altare, ma non avrei saputo dire quando avessi acconsentito. Aveva almanaccato sulla necessità d’una casa nuova, che non potevamo permetterci, e non saprei ricostruire il suo discorso, perché ne rammento l’ombra soltanto, rumore bianco sullo sfondo dei miei pensieri. Lo stesso era stato per il desiderio d’un figlio: doveva aver difeso la sua causa ma, mentre lui mi spiegava le ragioni per cui voleva – doveva, non poteva più aspettare – essere padre, io pensavo alla foto di classe di terza elementare, la prima con suor Luisa, che aveva sostituito suor Cristina, ma perché? Era vero che suor Cristina aveva partorito un figlio? Anche lei aveva ceduto, anche lei aveva acconsentito per distrazione, per insofferenza, per non doversi più offrire al monologo indolente d’un uomo che, incapace di portarsi un feto in corpo, l’aveva implorata, scambiandola per una madonna e chiudendo gli occhi sulla sua natura terrena? Solo che io, un figlio, mi ero dimostrata incapace di depositarlo tra le braccia di mio marito: il mio corpo di donna – sano secondo il medico, integro e predisposto a esaudire la volontà maschile – sembrava refrattario alla gravidanza e respingeva il seme di mio marito col cipiglio d’una divinità capricciosa, che seguita a trascurare le suppliche d’un disperato e non esita a esaudire i futili desideri di chi ha già tutto. Non avevo dubbi: era per quello che mio marito m’aveva abbandonata, per la mia incapacità di riprodurre il miracolo della moltiplicazione, pani e pesci offerti alla sua fame impellente. Non avevo saputo saziarlo e m’aveva punita con l’abiura; non l’avevo esaudito e m’aveva inflitto la solitudine.
Ci misi un po’ a realizzare che s’era ingannato, che aveva sbagliato il calcolo e non aveva considerato tutte le cifre, nella sottrazione che aveva eseguito: mi aveva privata della sua presenza credendo di lasciarmi dispari, ma s’era scordato il resto e il meccanismo del conto s’era inceppato, sicché da dispari m’ero trovata pari, da una m’ero scoperta doppia. Mio marito se n’era andato da tre settimane quando scoprii di essere incinta. Non gli dissi nulla; quel figlio, era stato lui a desiderarlo – chiederlo, supplicarlo, pretenderlo come un diritto –, eppure, adesso ch’era arrivato, come una lettera andata smarrita e recapitata anni dopo a un indirizzo che non accoglie più il legittimo destinatario, adesso ch’era arrivato era cosa mia. Quella gravidanza m’apparteneva e non aveva bisogno di parole, di definizioni, di discorsi. Il silenzio che me l’aveva portata mi bastava, tanto che iniziai a considerare quel bambino, quel feto ancora informe, collegato alle mie viscere da un cavo di sangue e di tessuti vivi, non come suo, non come conseguenza di mio marito, di un momento – notti, pomeriggi, risvegli alle cinque del mattino – in cui mi aveva invaso il corpo col suo corpo, in un atto bellicoso di comando, – Concepisci! -, ma come inevitabile implicazione logica della sua assenza. Quella creatura veniva da un vuoto apposta per colmarlo, quella creatura mi era destinata: grazie a lei, avrei occupato lo spazio che una volta era stato abitato dal matrimonio.
Dopo il primo litigio, al terzo piano ce ne furono altri; le voci perdevano il controllo la sera, mentre io mi chiedevo se fosse giunta l’ora di cena o se quel buco nello stomaco me lo avesse spalancato il bambino, in uno slancio d’amore o di cannibalismo che lo portava a dilaniarmi le carni per garantirsi la sopravvivenza. Forse non lo nutrivo abbastanza e allora lui si nutriva di me, sarebbe nato alla fine dei nove mesi e di me non sarebbe rimasto più nulla perché si sarebbe preso tutto lui, avrebbe mangiato ciò che ero, la vita che gli avevo dato da sola, mentre mio marito viveva altrove e io godevo del silenzio. Non guardavo più la TV, non ascoltavo la musica, non telefonavo a mia sorella, a Marisa, al professor Bonelli, che alla fine del dottorato mi aveva chiesto di restare e io non avevo voluto, perché con quella tesi avevo già detto tutto, e a nessuno interessa una donna che non ha più nulla da dire, a nessuno, perché se ha smesso di parlare allora vuole agire, ed è un rischio da non correre. Non chiamai nessuno, non parlai con nessuno; in compenso, però, resi il mio silenzio più profondo per accogliere i litigi del piano di sotto, le urla che una volta avevo provato a zittire, – Separatevi! -, e che adesso mi tenevano in vita, la rabbia che una volta mi aveva ferita e che adesso era la mia, la mia in bocca a quei due, lui o lei non importava, purché fossero così violenti da togliermi il dubbio sulla loro esistenza. Erano vivi, erano in collera, erano il grembo artificiale che mi nutriva e io ero il parassita – il fungo, la colonia di formiche – che s’installava sui loro nervi, ero il feto cavato prima del tempo e messo a maturare in incubatrice. La loro discordia mi manteneva in vita. Li ascoltavo litigare tutte le sere, insultarsi, augurarsi il peggio, maledirsi e poi piangere, infine fare l’amore, lui senza emettere suono, lei dolendosi, lamentandosi. Iniziai a lasciare la porta di casa aperta per poterli sentire meglio – Entrate, prego, odiatevi pure nel mio salotto! –, poi quella prossimità non mi bastò più; iniziai a scendere sul loro pianerottolo. Senza indossare il cappotto, senza scarpe: uscivo in ciabatte, gli occhiali sporchi e le chiavi strette nella mano, mi sedevo sulle scale e mi lasciavo attraversare dalla lotta. Il mio bambino, compresso da qualche parte tra l’intestino e la vescica, doveva imparare presto le logiche della sopravvivenza: quella collera presa in prestito da due estranei era l’educazione sentimentale che gli trasmettevo. Una sera, mentre ero seduta sul pavimento, gli occhi chiusi e una mano sul ventre ancora piatto, le grida si zittirono all’improvviso. La porta si aprì, l’uomo comparve sulla soglia; – Si sente bene? -, e mi guardò, circospetto. Doveva aver capito ch’ero lì per invadere e forse voleva difendersi, obbligarmi a indietreggiare. – Sono incinta -, gli risposi, – Mio marito se n’è andato e voglio impedire che lei faccia lo stesso -. Lo vidi serrare la mandibola, di sicuro stava trattenendo un’imprecazione. Forse voleva colpirmi. – Ho cambiato idea su voi due -, aggiunsi, – Non dovete separarvi. Il vostro risentimento è una forma d’amore -.
Invece si lasciarono. Fu lei ad andarsene. La vidi uscire di casa una mattina, la valigia in una mano e il guinzaglio del cane nell’altra; si allontanò a passi sgraziati, animale selvatico che ha perso l’olfatto e non sa più orientarsi. Non tornò più e lui rimase solo, come me; eravamo due frutti spaccati e mangiati dai vermi, lui al terzo piano e io al quarto, solo che io mi portavo in corpo un figlio, un figlio che prima era stato un sospetto, poi era diventato una cena digerita male, finché non aveva iniziato a reclamare attenzione, a spingere verso l’esterno, minacciando di strapparmi la pelle, di uscirmi dalla bocca: se non l’avessi trattenuto, l’avrebbe fatto. Sarebbe venuto fuori come un conato di vomito mattutino, riottoso come gli avevo insegnato a essere sin dal primo momento.
Passarono i mesi; osservavo il mio corpo trasformarsi nello specchio e non era la sproporzione del ventre a impressionarmi, quanto i cambiamenti nei tratti del volto: era come se le labbra fossero scese verso il mento, come se il naso si fosse staccato dagli zigomi. Le mani rifiutavano gli anelli e anche la fede nuziale era stata rigettata, sputata lontano come un nocciolo di ciliegia. Quando il silenzio mi diventava insopportabile, uscivo e mi offrivo alla collera altrui. Prendevo il tram, mi sedevo nei caffè, seguivo le coppie, nei supermercati, e mi lasciavo possedere dalle loro dispute, la violenza che esplodeva e colava giù, mossa da dettagli invisibili eppure enormi, che per me erano diventati necessari. Mi nutrivo del loro risentimento, ne raccoglievo i resti con le dita e poi le ripulivo con la lingua, attenta a non sprecare niente. Origliavo le liti altrui per solitudine, per mancanza d’amore, per siccità affettiva; mi esponevo alla loro luce riflessa, come un prigioniero che avvicina le mani alle sbarre, s’accontenta di quello spiraglio di bianco e s’ostina a chiamarlo giorno. Poi tornavo a casa, salivo le scale a piedi, trasportavo il mio corpo e quello della bambina – bagaglio fuori misura, oggetto vietato a bordo, femmina anche lei. Mi fermavo al terzo piano, e dall’appartamento dei due sposi non veniva fuori più niente; il frutto spaccato era marcito.
Mio marito tornò una domenica mattina. Avevo appena segnato sul calendario l’inizio del nono mese: otto mesi erano passati, otto mesi di silenzio assoluto, di gorgoglii del corpo e di risate televisive, di radio accesa a tamponare l’emorragia coniugale – mio marito, non un braccio: mi hanno amputato mio marito! –, e di telefonate respinte. Lo sentii entrare e non gli andai incontro; restai seduta in cucina, il caffellatte ancora troppo caldo, il pane bruciato. Mi prese le mani e iniziò a parlarmi della gravidanza, come se spettasse a lui annunciarmi un’evidenza mia; lo sentii dire che quella mia natura gli apparteneva, che la voleva, e poi non so cos’altro, perché mi misi a pensare alla moglie del terzo piano, che se n’era andata col cane, che ci aveva lasciati soli – l’uomo che aveva abbandonato e io: perché l’hai fatto, donna? Dimmelo. Mio marito monologava e io ero di nuovo assente, altrove come quella sconosciuta. Sentii solo che mi accarezzava il ventre – non me, la bambina –, che ipotizzava di tornare insieme e intanto già aveva aperto le valigie. – Va bene -, acconsentii, dopo un poco, rispondendo a una domanda che non mi aveva posto, – Va bene, resta -. Lo guardai, sembrava non capire, ma non m’importava: ero felice di riaverlo lì, di riavere il suo brusio, la sua presenza altra. – Però, ti prego: non dirmi niente, non parlare più. Resta, ma non dire niente -.
L’indomani, Agata venne al mondo. Non pianse subito, ma era viva.