– Dunque, ricapitoliamo. Il colloquio non era andato così male; certo, lei era stata spietata -. Nella metropolitana entrò un uomo con la fisarmonica, – No, ti prego, non fermarti qui -, pensai, ma quello non si mise a suonare. Camminò barcollando verso il fondo del vagone, aggrappandosi ai sedili, costringendo alcuni passeggeri a indietreggiare, e si sedette con lo strumento tra le braccia, come una madre col suo bambino. – Il colloquio, dicevamo -. Mi sembrava fosse andato bene: avevo risposto a tutte le domande, avevo parlato della mia esperienza. Avevo esperienza, più di ogni altro candidato. – Quanti anni ha, signora? -, mi aveva chiesto lei, e il marito l’aveva lasciata affondare il colpo, aveva reclinato la testa e schiuso le labbra, l’avevo visto premere la lingua contro gli incisivi, affamato dei fatti miei. Quanti anni ho? Era un discorso difficile da affrontare, troppo lungo, non avevo potuto far altro che mentire. Mentire di poco: è davvero una menzogna quella che puoi definire un’attenuazione, una trascurabile attenuazione? – Quanti anni ha, signora? -, e subito avevo replicato: il falso si era imposto e mi era uscito di bocca più sicuro del vero. Avevo sorriso, mi ero portata una mano al petto – Brava, fingi, mostra un cuore che non hai – e avevo dichiarato d’essere un’altra, l’impostura si era sovrapposta all’identità. Errore di calcolo, voluto come un figlio.
Il tizio con la fisarmonica si alzò dopo due fermate e attaccò a suonare fuori tempo, le note di “Bella ciao” distorte dai sobbalzi del treno. Cambiai posto, ma la musica non smise di disturbarmi: scesi alla successiva, la borsa stretta tra il gomito e il busto – paura di essere derubata contro calcolo delle probabilità – e salii su un’altra carrozza. Un uomo, aggrappato alla barra centrale, dichiarava la sua povertà. – Non ho lavoro -, attaccava, – Vi chiedo qualche soldo, un buono pasto, vi chiedo quel che avete -. Sembrava giovane, non più di quarant’anni. – Vi chiedo quel che avete -, salmodiava; – Troppo facile -, pensai, e strizzai gli occhi per guardarlo meglio. Forse m’ero ingannata sull’età, doveva essere più anziano: lo detestai, avrei potuto essere io. – Quanti anni ha, signora? -. Di nuovo, la voce mi si affacciò alla memoria e la scacciai, picchiandomi sull’orecchio: no, il colloquio non era andato bene. Il mendicante seguitò a replicare la sua parte, – Vi chiedo quel che avete -, e s’interruppe quando la metropolitana si fermò: scese e lo seguii. – Aspetti -, lo chiamai, sulla banchina, e lui tese la mano: avrei potuto portarmelo a casa, prendermi cura di lui come avevo fatto con tutti i bambini, in passato. Preparargli da mangiare, lavarlo, andiamo, figlio mio, vieni con me. – Ha bisogno di aiuto? -, riuscii a domandargli, allora. – No -, mi replicò, – Di soldi. Ho bisogno di soldi -. Risalii in superficie, il freddo mi spalancò il cappotto leggero, – Quanti anni ha, signora? -. Non avevo mentito: mi ero difesa, screanzata di un’arricchita: “chiedi e ti sarà dato” è un’illusione per chi non ha bisogno di niente. – Ha figli? -, aveva insistito, mentre il marito si godeva lo spettacolo, muto, – Ha figli, vero? -, e lì avevo detto la verità. – Tanti figli -, avevo risposto, – Tanti. Tutti figli degli altri -.
Avevo iniziato a fare la balia molto tempo prima: la vocazione si era fatta sentire alla fine del matrimonio, la voce della chiamata aveva sovrastato quella di mio marito, quella del divorzista e quella del giudice che ci aveva sfilato le fedi dalle dita. Di figli non ne avevo avuti: li avevo desiderati, voluti, invocati. Avevo pregato affinché arrivassero, avevo scongiurato la madonna, poi dio, poi il primario di una clinica privata, ma non era servito a niente. Il ventre era rimasto vuoto e anche la casa mi si era svuotata: mio marito se n’era andato la vigilia di Natale, offeso dalla mia incapacità di tener fede a una promessa, la sola che ci avesse uniti. Ci eravamo sposati tre anni prima, non per amore, ma per desiderio di un figlio nostro, per la necessità di concepire un erede capace di colmare le reciproche mancanze. Non eravamo stati, l’uno per l’altra, presenza fisica, non ci facevamo compagnia, quando lui rientrava la sera o quando ci univamo nel letto, al buio, devoti alla fertilità e alle leggi del corpo, ciechi e sordi di fronte agli ostacoli che ci impedivano di coltivare una prole. Voleva essere padre e mi aveva contagiato questa sua urgenza: ci eravamo appena baciati per la prima volta e già lui mi aveva misurata: microettari di carne umana da lavorare, da dissodare, da inseminare a dovere, suolo vergine per la sua smisurata ambizione paterna. Mi aveva lasciata quando era diventato chiaro che non ero terra ma roccia, ghiaia secca, pietrisco inerte. Mi aveva lasciata e mi ero maledetta, perché i desideri espressi da giovani sono potenti, ti accompagnano per tutta la vita, e ciò che hai preteso con le preghiere più tenaci finisci per odiarlo, ciò che eri finisci per rinnegarlo.
Stavo per compiere quattordici anni quando avevo chiesto alla sorte di non darmi figli; la fertilità mi si era appena dichiarata, tingendomi di sangue le mutande di cotone, che avrei sbiancato con la candeggina. Quando lo avevo annunciato a mia madre, lei era in cucina: era china sul lavello, un pollo nudo in mano, ed ero andata verso di lei con le mutande macchiate ancora indosso. – Sono venute -, le avevo detto, e lei aveva riso; – Divertiti figlia mia -, aveva risposto, e dal pollo aveva estratto le interiora, le aveva gettate sul fondo del lavandino. Non avevo distolto lo sguardo, avevo continuato a osservarla: avevo studiato il movimento delle mani, il modo in cui le dita si contraevano per strappare, per lavare – l’acqua che riempiva lo spazio che era stato degli organi e veniva fuori nera, sporca della vita che c’era e che mia madre aveva rimosso. Eseguiva sul pollo ciò che immaginavo facesse alle donne, tutte quelle donne che venivano a casa nostra per abortirci in cucina. Era mia madre che le aiutava, era lei, eroina o fuorilegge, che ripuliva i loro corpi fecondati per sbaglio, che li svuotava come fossero stati la carcassa di un animale, frugandoci dentro con le dita sporche, disinfettate col detergente dei piatti. Era stato allora che avevo invocato di non avere figli – di non rimanere incinta, giacché non era di figli che si parlava nella nostra cucina ma di feti, di settimane, di infezioni da scongiurare, di bocche da cucirsi col filo di sutura. – Fa’ che non resti piena -, imploravo, quando rientravo da scuola, e dall’odore che mi assaliva appena varcata la soglia – interiora di animale, sangue e detersivo – capivo che un altro aborto era in corso, che un sacrificio veniva offerto sull’altare di piastrelle bianche di casa mia. Quattordici anni avevo, – Quanti anni ha signora? -, e già pregavo di non avere figli, disperata e sicura: incastravo la mia supplica fra i molari e la guancia e lì la abbandonavo per ore, per giornate intere, come un cioccolatino che lasci fondere lentamente, che vuoi preservare a lungo. Poi mi ero innamorata e la supplica si era ribaltata, – Fa’ che rimanga incinta -, ma la forza con cui prima avevo chiesto il contrario era stata definitiva e mi aveva resa sterile, si era presa tutto ciò che avevo, bruciando i resti del mio matrimonio. Perciò ero diventata una balia, per quella voglia di maternità insoddisfatta, per l’eccesso d’amore che non sapevo più a chi dare, per la solitudine, tutta quella solitudine, che all’improvviso era diventata garanzia di affidabilità.
Dal colloquio era passata una settimana e nessuno mi aveva telefonato; ogni mattina uscivo di casa, andavo al mercato, prendevo la metropolitana e guardavo le famiglie giovani, provavo a immaginare se potessero pagarmi, se avessero soldi abbastanza, se avessero bisogno di me, ma mi sembravano già risolte. Non servivo più. Ripensai allora a mio marito, ai figli che non gli avevo dato, al corpo che era stato sordo alle sue richieste ed era invecchiato vuoto, si era afflosciato sul nocciolo, incapace di dare la vita. Cercai il suo nome sull’elenco telefonico: faceva il medico. Annotai l’indirizzo sull’agenda e andai a trovarlo. Nella sala d’attesa c’era una donna; le domandai del dottor Ferranti, lei spalancò gli occhi: – È mancato tre mesi fa -, rispose, e nella sua voce intuii dispiacere e sofferenza per la perdita di quell’uomo, dispiacere e sofferenza che non ero sicura di aver provato, quando era uscito dalla mia vita. – Adesso al suo posto c’è Claudia, sua figlia -, riprese la donna; – Meno male che è rimasta lei a prendersi cura di noi -. Mi raccontò del dottore, – mio marito, era stato mio marito! -, che aveva curato lei, e prima di lei sua madre, e sua sorella. – È stato un vero medico di famiglia -, concluse, e io riuscii a pensare solo alla famiglia sua, a quella di lui, che era nata dopo di me e che mi aveva estratta viva come un aborto dal mio destino.
Quando fu il mio turno, entrai. La dottoressa era alta, le spalle larghe, il camice stretto: la riconobbi subito. – È una nostra paziente? -, mi chiese, e rividi la scena del colloquio, – Quanti anni ha, signora? -. Era lei, era la madre che non mi aveva voluta, era quella che mi doveva richiamare e non l’aveva fatto. Non sapeva, – ah, non sapeva -, che era merito mio se lei esisteva, che era solo merito mio: era per me che non avevo avuto figli e avevo permesso a suo padre di averne di suoi. – Ha figli, signora? -, aveva insistito, ignara del fatto che mi doveva tutto, perché avevo rinunciato a suo padre e avevo stretto tra le braccia i figli degli altri, neonati che erano soltanto nomi e che presto mi avrebbero dimenticata. – È una nostra paziente? -, ripeté. – No -, risposi, – Non lo sono: sono una balia. Ho sessant’anni, nessun figlio -, spiegai. Feci una pausa, mi avvicinai: aveva gli occhi di suo padre. – Ma è a me, a me soltanto, che lei deve la vita -.