Andavo a cercarla e la obbligavo a guardarmi, mi intromettevo fra lei e la luce del pomeriggio. Era seduta in poltrona, lo sguardo fisso davanti a sé e un libro sulle ginocchia: china sull’asse da stiro, passava la mano sulla stoffa ancora rovente, priva di pieghe. – Quanto è grande il Purgatorio? Perché andiamo in chiesa a piedi? -, la assalivo, – Non possiamo prenderci la macchina dei Corsini?, Accendi la radio? -. Lei si toglieva gli occhiali, si voltava verso di me, puliva le lenti sul polsino della camicia e aspettava che continuassi. Sapeva che ne avevo ancora.
– Perché apri quel libro e non lo leggi mai? Ci dobbiamo andare per forza a messa? I preti ridono? -; mi fermavo, studiavo la sua reazione: non distoglieva lo sguardo dalle mie labbra, ligia a un rituale domestico che assolvevamo entrambe con slancio religioso. – È vero che Sorella Giuditta è stata sposata? Lo sai che la mamma di Maria ha la depressione, nonna? -.
La sfinivo di domande, lei le ascoltava tutte; poi deglutiva, mi congedava con un tremito del mento e tornava alle sue cure. Non diceva niente, mi lasciava nel dubbio, ma non gliene volevo per questo. Sapere non mi interessava; mi bastava interrogarmi.
Un giorno, la mandarono a chiamare da scuola. Le inviarono un telegramma, giacché a casa il telefono non lo avevamo: mia nonna non avrebbe risposto a nessuno: loro lo sapevano, quindi la convocarono per iscritto, come si invita una persona a una festa di compleanno, a un matrimonio, a un battesimo, ma non c’era niente da festeggiare, nessuno da celebrare, tutt’altro. Le suore dovevano dirle che stavo crescendo male, che ero una pianta storta e che bisognava correggermi, perché i miei genitori dovevano aver mangiato l’uva amara e io ne stavo evidentemente pagando le conseguenze. Così dicevano le Scritture e così ripetevano le suore, e a loro non importava se la realtà era un’altra, loro non chiedevano a me perché mi fossi inventata che ero figlia di una madre assassina, non volevano sapere dalla mia voce fantasiosa le ragioni che mi avevano spinta a confessare che mio padre era un terrorista, che metteva le bombe nelle stazioni, perché sapevano che avrei mentito di nuovo. Come quando avevo raccontato la storia di mia madre e di mio padre, che era falsa, come quando avevo giurato di avere avuto un fratello che mi avevano rapito, perché una madre e un padre e un fratello non li avevo, e le suore lo sapevano. Lo sapevano anche i miei compagni di scuola, ma la certezza mi atterriva, così avevo pensato di ammobiliare la noia con qualche menzogna, che poi era un altro modo per chiamare una storia. Non era colpa, la mia, era finzione: le suore avrebbero dovuto capirlo.
Mia nonna arrivò puntuale; era una mattina di aprile e lei venne a scuola avvolta in una mantella nera, lunga fino alle caviglie, il collo di pelliccia contro i capelli grigi, raccolti sulla nuca, la borsetta tra le mani come un breviario. Sembrava una suora di un altro mondo e le suore vere si spaventarono, sulle prime si intimidirono, si ritirarono nel loro vestito bigio, il mento sul petto, le labbra tremanti.
Poi, nello studio della madre superiora, presero coraggio: le spiegarono che la mia condotta era inaccettabile, le mie bugie pericolose. Accennarono alla possibilità di un’espulsione e le chiesero perché, più volte, perché io, sua nipote, avessi bisogno di mentire, di violare un comandamento per puro piacere. Mia nonna non parlava: le osservava, silenziosa, le labbra serrate e gli occhiali brillanti, la gonna senza grinze che le sfiorava le ginocchia, il collo e i polsi privi di gioielli. La sua bellezza era la negazione della divinità.
– Perché? -, le chiesero ancora le suore, e lei con un cenno impercettibile degli occhi mi ordinò di alzarmi, di prepararmi ad andar via; quindi aprì la borsa, ne estrasse due banconote da cinquanta e le piegò in due, una nell’altra. Me le porse, affinché le depositassi ai piedi della madonna, e le suore la ringraziarono, sorella Anna mi baciò sulla fronte, – Non farlo più -, mormorò, e si riferiva alle bugie, ma io guardai i soldi, li immaginai arsi dal fuoco magro della candele e trattenni un grido di giubilo.
Facemmo per andarcene ma loro ripresero a parlare, ancora una volta ponendo a mia nonna domande destinate a me; mia nonna allora si sporse sulla scrivania, prese una penna, aprì un’agenda – grappoli di appunti scritti da un’altra, appuntamenti, numeri di telefono sconosciuti – e cercò una pagina vuota. In grande, con la sua bella grafia elegante, scrisse una bestemmia. Sorella Anna la lesse per prima, la mostrò a sorella Beatrice, che si coprì la bocca con le mani, senza staccare gli occhi da quella oscenità, e tutte le altre iniziarono a mormorare, a gemere, a torcersi le mani. Guardarono mia nonna, poi me, ma non chiesero più niente, giacché sapevano che non avrebbero ottenuto risposta.
Mia nonna era muta.
Vivevo con lei da quando ero nata; avevo imparato a parlare dalla radio, dalla televisione accesa nelle case degli altri, dai figli dei vicini di casa. Andavamo a messa ogni domenica: ci sedevamo di lato, in un posto vicino all’uscita e mia nonna restava sempre seduta. Non si alzava con gli altri, ferma e distinta, le mani giunte in grembo, lo sguardo basso; l’assenza di voce la esonerava dal coro dei gesti e io ne godevo di riflesso, immobile al suo fianco. La imitavo in tutto tranne che nel silenzio: durante la funzione cantavo, urlavo sulla voce degli altri, gli amen liberatori come un improperio, gli alleluia domande nuove che non trovavano risposta.
Non sapevo niente dei miei genitori; solo una volta, verso i dodici anni, mi ostinai sulle mie origini, per capriccio più che per reale interesse, e rinunciai agli altri interrogativi, mi concentrai solo su quelli. Volevo sapere di mia madre, figlia della donna che mi teneva in casa, e solo di lei; di mio padre non m’importava, mio padre non esisteva. Non riuscivo a vedermi come conseguenza di un atto maschile, non potevo discendere da un uomo, da una terza persona: la mia vita era declinata al femminile singolare, giacché mia nonna non mi aveva insegnato a dire noi, e mi vivevo come un io vagante, solitario, nudo d’inquietudine. Le domande su mia madre furono accolte come le altre: con uno sguardo neutro, calmo, indifferente; durarono una stagione, forse meno. Tuttavia, non si esaurirono per stanchezza: una mattina, mia nonna mi porse una collanina da battesimo; sul retro della medaglia, erano incisi una data e un nome: Assunta. Il nome di mia madre.
Mia nonna era muta, ma mi parlava, si rivolgeva a me con lo sguardo, con gli occhi ordinava e vietava, con le sopracciglia accoglieva, rideva, con le palpebre assentiva. Le nostre conversazioni erano precise, prive di fraintendimenti: nulla era taciuto, tutto poteva essere detto.
Il primo giorno di liceo – il primo giorno di scuola lontana dalle suore –, sorella Anna venne a trovarmi: mi aspettò davanti al portone, mi tese le mani e non gliele baciai. – So tutto di tua madre -, mi annunciò, a bassa voce. Le risposi come mi aveva insegnato mia nonna, come lei sapeva fare meglio di chiunque altro: tacqui. La guardai nel riflesso degli occhiali e andai via.
Una voce automatica annunciò le fermate della metropolitana in tedesco, ma avevo bisogno di leggere per capire dove fossi, la lingua non mi aiutava perché non la conoscevo.
Ero a Berlino da tre settimane; ero partita il giorno dopo il funerale di mia nonna: la sua morte era stata così dolorosa che avevo sentito il bisogno di riaverla accanto nel momento stesso in cui le avevano chiuso il coperchio addosso, avvitando per sempre il suo corpo in una cassa di legno. Ci avevo pensato a lungo, mentre il prete benediceva i fiori bianchi: avevo capito che l’unico modo per ridarle la vita era diventare lei. Perciò avevo scelto la Germania: volevo vivere in un posto dove fossi muta, dove gli altri non potessero capirmi, dove comunicare senza parlare si imponesse come un obbligo. Le prime notti le avevo trascorse in una pensione; non c’erano asciugamani, nella mia stanza, ma lo avevo scoperto solo dopo essermi fatta la doccia, così mi ero tamponata la pelle con la camicia sporca, mi ero rivestita ed ero scesa a parlare con la portinaia, i capelli grondanti d’acqua e le labbra viola. Mi ero indicata la testa, avevo strizzato i capelli sul suo bancone e la donna aveva sogghignato, aveva scandito troppe consonanti e poi mi aveva porto una pezza, aveva fatto il gesto di volermi asciugare lei e non avevo capito se quello fosse uno scherzo o una minaccia, non so dirlo tuttora.
Mi piaceva vivere a Berlino, indicare col dito il pane che volevo comprare, scuotere la testa, esercitare le sopracciglia a dire di no. Mia nonna camminava accanto a me, tacita e signorile, stretta nel collo di pelliccia io provavo a starle dietro. Ogni giorno prendevo la metropolitana; mi piaceva andare da un estremo all’altro della linea. Qualche volta mi addormento, lungo il percorso.
Una mattina, la metropolitana si fermò e una voce diversa da quella che annunciava le fermate spiegò qualcos’altro; i passeggeri scesero, qualcuno aspettava sulla banchina, parlando al telefono, altri se ne andavano, sbuffando. Mi avvicinai a una donna, le sfiorai una spalla con la mano, per chiederle con gli occhi cosa fosse accaduto, e lei urlò, prima una parola sola, poi due, tre parole, poi scrosci di domande sgorgarono dalla sua bocca. Le si avvicinò un’altra, si dissero qualcosa, quindi ripresero a gridare, insieme: ce l’avevano con me, si inerpicavano sul tono interrogativo. Volevano sapere qualcosa da me, che per prima mi ero rivolta a loro, e io non sapevo cosa dire, le ascoltavo e basta, incapace di far altro. Vivevo la solitudine di chi non ha risposta, di fronte a troppe domande, e cercavo di dominare la vertigine dell’eccesso di frasi con un silenzio obbligato, indipendente da me, che pure ne ero la sola responsabile.
Guardai le due donne che si affannavano e mi venne in mente mia nonna, quel giorno in cui le suore pretendevano che le tornasse la voce apposta per parlare con loro, quel giorno in cui, lei anziché inginocchiarsi e chiedere scusa o pregare per un miracolo, prese un foglio e lo ferì con una bestemmia geniale, che mise tutti a tacere ma le restituì la possibilità di chiudere un discorso, di essere lei, per una volta, quella che aveva l’ultima parola in mano. L’ultima parola di una donna che non può parlare: oscena come una bestemmia, più violenta ancora del mutismo cui la vita l’aveva condannata.
Andai incontro alle due donne, loro gridarono più forte, poi indietreggiarono, le labbra contratte, le parole che esplodevano tra i denti, contro il palato, e io che non potevo replicare, l’incomprensione mi toglieva la voce. Ero forestiera, priva della lingua, ero come mia nonna. Allora risi, risi senza coprirmi la bocca, guardandole in faccia e loro tacquero, come le suore col peccato in mano. Mormorarono, confuse, le guance ora flosce, lama di coltello nella carne di uno pneumatico. Le superai, salii le scale verso l’uscita, le donne riaprirono il fuoco alle mie spalle, raccattarono i bossoli inesplosi delle loro domande e li lanciarono verso di me con le mani.
Non mi voltai: avevo perso il vizio di interrogarmi. Adesso, ero pronta a sapere.