Mi sporsi dal finestrino dell’auto, allungai un braccio, come se volessi sradicare dal sedile il guidatore del furgoncino che mi stava davanti e affondare il piede sul suo acceleratore; – Vogliamo passare il pomeriggio qui? -, urlai, ma la mia voce venne assorbita dal gas di scarico e si spense sull’asfalto come un petardo bagnato. Inspirai, – Calma -, mormorai, – Calma -.
L’abitacolo sapeva dell’alito di chi non ha parlato molto e di sigarette umide. Accesi la radio, mi sporsi in avanti, serrai gli occhi, sentii la ruga in mezzo alla fronte che si rattrappiva, raccogliendo la rabbia e la frustrazione di quel momento nella sua scura profondità. Tornai a concentrarmi sul veicolo che mi precedeva; a sinistra della targa, notai un grosso adesivo circolare, con un volto accigliato, nel mezzo, forse il ritratto di un calciatore, che sembrava prendersi gioco della mia impazienza: solo quando il furgoncino accostò improvvisamente e fui costretta a frenare mi resi conto che si trattava di Barack Obama. Abbassai di nuovo il finestrino, questa volta dal lato del passeggero e imprecai, ma ero così poco abituata a farlo che inciampai nelle parole e balbettai; – Calma -, mi ripetei, – Devi stare calma -, e alzai il volume della radio, mi strinsi al volante. La strada era libera, adesso; stavano trasmettendo una canzone di Ornella Vanoni e mi dispiacque di non conoscerne il testo, così ne sillabai una versione stonata, pronunciando una mezza parola ogni tanto. Davanti alla pasticceria, mi fermai, parcheggiai approssimativamente e aspettai con gli occhi chiusi la fine della canzone. Erano molti anni che non guidavo da sola.
Mio marito si era ammalato sommessamente: ce ne eravamo accorti dopo Natale, quando aveva iniziato a essere stanco, così stanco che non poteva spiegarmelo, così stremato da non trovare la forza di ammetterlo. Lo portarono in ospedale i suoi colleghi e la diagnosi arrivò sicura come una pagnotta che esce dal forno; non ne avremmo avuto ancora per molto, la sua fine sarebbe arrivata entro pochi mesi a concludere il nostro matrimonio. Dopotutto, era prevedibile che finisse così: non era ciò che ci eravamo promessi trentasette anni prima di fronte a un prete sudato, che ripeteva sottovoce, insieme a noi, i voti nuziali? Non ci eravamo detti che il nostro vincolo si sarebbe esaurito con la morte? – Ecco -, avevo pensato, mentre i medici almanaccavano sulle percentuali di sopravvivenza, per non parlare di quelle di resistenza al dolore, – Ecco come si arriva, ecco come inizia la discesa -, e ancora non sapevo quanto potessero rivelarsi lunghi pochi mesi di malattia e quanto l’epilogo potesse diventare una necessità urgente e indicibile.
Gli trovammo posto in una clinica, appena fuori città; lo andavo a trovare tutti i pomeriggi, guidando la sua auto. Non mi ero mai seduta al volante da sola, nei tre decenni e mezzo in cui ero stata sua moglie; – Non sai guidare -, mi rimproverava, – Due occhi non ti bastano -, e quando mi concedeva di prendere il suo posto, i suoi occhi vedevano più dei miei, le sue mani e i suoi piedi si muovevano come se avesse potuto imprimermi i riflessi giusti, la perizia che mi mancava. – Fatti accompagnare da qualcuno -, mi suggerì, quando gli annunciai che sarei andata a fargli visita, – Prendi un taxi -, e io annuii, ma senza dargli ascolto. Subito dopo pranzo, approfittai della controra per esercitarmi; inserii le chiavi nel quadro come se stessi offrendo una monetina alla statua di un santo, chiusi forte gli occhi e poi li riaprii sulla strada. Percorsi il viale di casa lentamente, con le mani asciutte, in silenzio: potevo farcela.
Nei primi giorni, guidavo mordendomi le guance e trattenendo il respiro; poi, man mano che il tempo passava e che la morte di Stelio mi sembrava talvolta lontana, talvolta imminente, iniziai a farci l’abitudine. Alla morte, intendo, ma anche alla guida. Dopo un paio di settimane, accesi la radio, abbassai i finestrini, e mi accorsi che riuscivo monologare ad alta voce, senza uscire dalle linee tracciate sull’asfalto. Mi piaceva quel tempo che trascorrevo in solitudine, protetta da pochi fogli di lamiera e di vetro infrangibile, ma cercavo di non ammetterlo, facevo in modo da goderne e basta, senza parlarne. Prima di uscire di casa, ero felice come se mi stessi preparando a un appuntamento, ma non era l’idea di vedere mio marito a rallegrarmi, sebbene fosse questa la versione della realtà cui mi attenevo. In clinica, mi sedevo accanto a lui o parlavo coi medici, guardavamo le notizie alla televisione e gli riferivo delle telefonate che ricevevo da parte dei suoi colleghi, qualche volta inventandole o esagerandone il tono di premura. Poi, lo salutavo, lo baciavo in fretta, come se temessi di risucchiarmi in corpo la malattia, e guidavo verso casa. Una sera di marzo, mi fermai a metà del percorso e ordinai una pizza in una tavola calda sulla Statale; mi sentii in colpa nel momento stesso in cui presi posto da sola a un tavolo laterale, pensai di alzarmi e di andarmene, ma non lo feci: ringraziai invece la cameriera che mi rispose con un sorriso metallico, la bocca sconquassata dall’ortodonzia. Quando rientrai, mi sedetti al buio sul bordo del divano e mi ripromisi di farlo più spesso; mio marito, di sicuro, a quell’ora già dormiva, stordito dai farmaci e dal ronzio intermittente dei macchinari ospedalieri. In fondo, stavo soltanto vivendo; non mi sembrava sbagliato, non gli stavo certo togliendo qualcosa. O, forse, sì? Mi addormentai nel dubbio, con la mente proiettata verso l’autoassoluzione. Mi svegliai verso le tre, mi alzai per cercare un bicchiere d’acqua. Da quando Stelio era in clinica, avevo iniziato a tenerla in fresco, dopo anni passati a bere acqua tiepida e brodosa, perché così piaceva a lui, perché così era meglio per la salute, diceva. – Hai visto che t’è successo a pensare di vivere più a lungo? -, borbottai, nel cono di luce del frigorifero, – Hai visto, stupido uomo? -, e improvvisamente mi venne da piangere, lo immaginai triste, nel suo letto bianco, con le braccia livide di aghi spinti dentro a forza, e provai rimorso per la pizza, per la radio in macchina, per la gioia della solitudine, inconfessabile , adombrata appena dalla sua malattia.
Al mattino, l’inquietudine della notte precedente sembrava dissipata: feci qualche prova, come per testare i miei limiti, come per vedere fino a che punto ero capace di spingermi, nella ricerca di quei piaceri solitari e segreti. Andai a fare colazione fuori, in piedi davanti al bancone di un bar distante da casa, per sottrarmi agli occhi dei vicini, per scongiurare la possibilità di incontrare un suo collega, un amico cui avrei dovuto dare spiegazioni per il torto che stavo infliggendo a mio marito poco prima che morisse, che tardava ad andarsene. Andai dal parrucchiere, poi tornai a casa e accesi la radio; alzai il volume, non piaceva a Stelio ma piaceva a me, ascoltai la musica da niente che lui non sopportava, avendo preferito da sempre i punti fermi della sinfonia a quelli interrogativi delle canzoni, che ti scordi dopo mezzora, ma che torni a cantare appena ne intercetti un accenno, in coda alle casse del supermercato. Iniziai a coltivare le menzogne, giorno dopo giorno, e se all’inizio erano solo piccole piante sul davanzale, col passare del tempo divennero orti interi, si trasformarono in campi di benessere quotidiano, fulmineo e lancinante, possente nella sua capacità di farmi del bene e fraudolento per il modo subdolo di risvegliare in me il dolore. Me ne vergognavo, certo, e per questo mentivo ancor di più a mio marito; gli raccontavo di giornate intere trascorse in casa, a pensare al momento in cui l’avrei incontrato la sera, a bere acqua tiepida e a starmene in silenzio, giacché di musica, non mi ero mai interessata.
Il carro funebre lo accompagnò al cimitero nel primo giorno d’estate; quel pomeriggio, alla fine di tutto, fu sua sorella a ricondurmi a casa; le assicurai che non avevo bisogno di nulla, ci lasciammo sulla soglia, davanti al campanello che riportava il solo cognome di mio marito. C’era una luce violenta e giovane, la luce di giugno, così fitta di aspettative da spezzare il coraggio che avevo raccolto nei mesi precedenti. – Adesso esco -, mi ripromisi, – Adesso mi cambio ed esco, adesso sono libera -, ed ero eccitata e smarrita allo stesso tempo, impaziente di andare incontro al mio tempo solitario, eppure come rallentata da una spossatezza mai provata prima. Stavo per entrare nella doccia, quando squillò il telefono: indossai l’accappatoio di Stelio per andare a rispondere; era la lavanderia, mi spiegavano che c’erano due giacche di mio marito, in attesa di essere ritirate, da più di sei mesi. Mormorai che sarei passata l’indomani, chiesi scusa, non accennai alla sua morte; mi feci la doccia, indossai il pigiama, e mi misi a letto. Fuori era ancora pieno giorno.
Mio marito se n’era andato e si era portato con sé i miei piaceri invisibili e segreti; non uscii di casa per tutta la settimana, come se temessi che lui, adesso, potesse vedermi, potesse scoprire che ero insincera, che gli avevo mentito e che ero tornata dal suo funerale col preciso obiettivo di continuare la nuova vita. Ricevetti altre telefonate simili a quella della lavanderia, in quel periodo: una compagnia di energia elettrica che cercava di vendere un contratto a mio marito, un cliente che non aveva mai saputo della sua malattia e che voleva parlare con lui, il gommista che voleva ricordargli di non essere ancora passato per la revisione stagionale degli pneumatici. – Mi controlla -, pensavo, tutte le volte, – Stelio è là a guardarmi, a impedirmi di uscire da sola, a vietarmi di star bene -, e mi accorgevo dell’assurdità della mia convinzione, ma non riuscivo a tagliare il filo che mi teneva bloccata in casa, chiusa nell’immobilità di un senso di colpa fuori tempo massimo.
Era l’inizio di luglio quando venne a trovarmi una donna; rimase sull’uscio, al di là dello zerbino, come se temesse di sporcarlo con le suole dei sandali. Era piccola, coi capelli corti e gli occhi di chi ha avuto paura; mi confessò di essere stata l’amante di Stelio per molti anni; disse proprio così, “amante”, e io m’immaginai un amore in divenire, un amore attivo e reale, mentre lei mi parlava e si vedeva che tratteneva il pianto, ma non feci nulla per rassicurarla, per farle capire che ormai era finita e che non aveva senso soffrire per ciò che era stato. Mi porse un sacchetto di carta, – Qui c’è il suo orologio -, mormorò, – L’aveva lasciato a casa mia e mi sembra giusto che sia lei a tenerlo -, spiegò, col mento tremante. Annuii, calma, lo sguardo fisso su quella estranea con cui, senza saperlo, avevo condiviso una porzione della mia vita.
– Potevate dirmelo prima -, commentai, dopo un po’, e la vidi che si mordeva il labbro, forse temeva la mia collera o stava cercando parole di scusa. – Potevate dirmelo e vi avrei alleggeriti dal peso di nascondervi -, aggiunsi, e presi il sacchetto che mi tendeva, ne svuotai il contenuto sul palmo della mano destra. L’orologio mi sembrò pesantissimo e freddo, inerte, per non essere stato caricato per tutti quei mesi; – Quanto tempo sprecato -, pensai, salutando la donna e tornando in casa.
Era quasi ora di pranzo: con un po’ di fortuna, avrei trovato ancora un tavolo libero al ristorante sul mare, quello preferito d Stelio. Chissà quante volte ci era andato senza di me.