Quando l’auto svoltò l’angolo della strada e investì, con la luce dei fanali la piccola folla che eravamo, si udì una voce gridare dai balconi, – Eccoli! -, e la gente si affrettò a schierarsi sul bordo del marciapiedi, come al passaggio della madonna, durante la processione di Pasqua. Invece, era il mese di luglio, erano passate le dieci di sera, e ce ne stavamo fuori dai portoni, in ciabatte, con i vestiti da casa, le mani sugli occhi per proteggerci dal bagliore, irregolare, ma sicuro, dei led. – Eccoli, sono arrivati! -, fece eco un’altra vedetta, da un piano più basso, e mia madre si staccò dal capannello di donne che stava intrattenendo con la sua parlantina frenetica e andò incontro a quella luce. Ero seduta sulle scale, con la fronte appoggiata alla ringhiera; notai prima la coccarda bianca, incollata sul parabrezza dell’auto, come il fiocco di un pacco di Natale, poi vidi il veicolo fermarsi, e Mario, quello dei Mancini, farsi largo, con una macchina fotografica in mano. La sposa, la figlia degli Esposito, uscì per ultima, a fatica, il velo che si interponeva fra le scarpe e l’asfalto, l’acconciatura sfatta, il viso sbiancato dai lampioni. Il marito era vestito di nero, pallido e sinistro; salutarono sorridendo, lei si tolse le scarpe, noi battemmo le mani: era una di noi e quel matrimonio ci riempiva gli occhi di lacrime e di orgoglio. Poi, lui si voltò a baciarla, con le braccia inerti lungo il busto, senza sfiorarla; qualcuno iniziò a urlare: – Auguri! -, qualcun altro piangeva, Mario era inginocchiato a terra e si faceva scudo con l’obiettivo. Nella confusione, una mano mi afferrò il braccio sudato, mi voltò il viso e mi tenne ferma premendo sulle orecchie; poi la bocca umida di Michele si scontrò con la mia faccia e, soltanto dopo, con le mie labbra. Sentii la sua lingua tiepida e ruvida contro il palato. – Ti è piaciuto? -, mi chiese alla fine, soddisfatto, non aspettò la risposta, e si precipitò verso gli sposi. Feci in tempo a notare che aveva il mento lucido e i capelli lunghi, incollati alle tempie; passai una mano tra i miei: erano corti, ispidi, tagliati apposta per resistere all’estate. Era la prima volta che qualcuno mi baciava.
Il primo bacio della mia vita non l’ho dato, ma l’ho ricevuto. Avevo dodici anni, Michele veniva in classe con me, ma di anni ne aveva due o tre in più, perché a scuola non ci veniva e allora seguitavano a rimandarlo, di giugno in settembre. Di stagione in stagione, invece di avanzare veniva rispedito indietro, alla casella di partenza, sempre più alto e sempre più rabbioso ,sempre più vinto. Pensai a lungo al contatto viscido della sua bocca con la mia, all’urto appiccicoso tra le nostre labbra; lo raccontai alle amiche come una rivelazione, inspirai il fumo di una tappa bruciata precocemente e simulai compiacimento, finsi il compiacimento del fumatore aggrappato alla sua sigaretta. Passò molto tempo tra la prima e la seconda volta, perché dopo quell’aggressione imprevista, Michele scomparve nell’indifferenza che mi aveva sempre riservato. Avevo quindici anni quando altre labbra si schiacciarono senza grazia sulle mie, baciandomi con la ricrescita di una fastidiosa barba adolescenziale. In quella circostanza, però, cercai di essere più attenta, di imparare la lezione e di non sprecare nulla, tenni gli occhi sbarrati, poi li chiusi per l’imbarazzo. Per la seconda volta, ero stata spettatrice passiva della mia esperienza amorosa.
A sedici anni, considerai di avere assimilato a sufficienza la meccanica dei baci e dell’amore; i capelli mi erano cresciuti, e non avevo più permesso a mia madre di devastarli con le forbici da cucina. Me li tagliavo io stessa, in piedi davanti allo specchio del bagno, il giorno della fine della scuola; guardavo quei centimetri ramati, da cui emendavo la mia giovinezza, giacere sul pavimento: li raccoglievo con la scopa e li buttavo. Iniziai a incollare le mie labbra su quelle degli altri per prima, strappando ai destinatari dei miei innamoramenti, effimeri e febbrili, la possibilità di prendere l’iniziativa. Mi applicavo meticolosa, come se stessi affrancando una lettera; spiavo gli attori dei film trasmessi di controra, sullo schermo della televisione di famiglia. Raccoglievo dati, informazioni, metodo; mettevo insieme gli insuccessi e poi partivo all’attacco, pronta a dimostrare affetto e devozione effimeri a persone sempre diverse, il cui odore non aveva il tempo di diventarmi famigliare.
L’anno in cui conobbi Renzo, fu quello in cui persi il coraggio: la sua presenza mi intimidiva, mi strappava dalle mani il manuale della seduzione che avevo faticosamente compilato, da quella volta ingloriosa, la sera del matrimonio della figlia degli Esposito. Attesi di essere baciata per settimane, a più riprese persi la speranza, poi la vidi riaccendersi, e alla fine fui esaudita quando iniziavo a non crederci più, mentre stavo rimpiangendo l’ardire che mi ero conquistata, dopo il primo bacio sgraziato di Michele. Il nostro rapporto, all’inizio, era fatto di quello soltanto: del sudore che passava dalle mani di lui alle mie, di passeggiate intorno alla piazza alberata del paese e di baci – scagliati ogni tanto, come palloni in porta, durante una partita di calcio – desiderati, talvolta malriusciti, recuperati all’ultimo minuto e salutati con tacite ovazioni. Tuttavia, il tempo ci diede la possibilità di segnare più punti, di imparare che il virtuosismo è frutto di una serie di coincidenze fortunate e che si diventa sicuri quando non ci si fa più caso, quando si sa che l’altro non se ne andrà, quando si ha una promessa in mano. Ci sposammo d’inverno, gli dissi di sì piangendo, e l’incredulità e la gioia mi portarono via il trucco e la ragione, al punto che dimenticai di baciarlo, prima di uscire dalla chiesa, e fu lui a chiedermi, esitante, – Non ci diamo nemmeno un bacetto? -, mentre il prete ci guardava dall’altare.
Poco prima del matrimonio e nei primi mesi delle nozze scoprimmo il sesso; i nostri figli arrivarono presto, prima Antonia e poi Marianna, e i baci li trasferimmo da noi a loro, dalle nostre labbra alle loro teste che sapevano di latte e biscotti. Ci baciavamo sempre meno: a Natale, ai compleanni, la sera prima di dormire e al mattino, quando lui usciva di casa. Ero guarita dalla febbre della giovinezza, la mia temperatura sentimentale si era per così dire stabilizzata precariamente, come una palazzina messa in sicurezza dalla protezione civile dopo un terremoto. Eravamo felici, non c’era bisogno di dimostrarlo: la nostra presenza si bastava da sola.
Renzo se ne andò che aveva appena compiuto sessant’anni; lo guardai a lungo, composto e ben vestito, nella cassa da morto, adornata di fiori già appassiti. Mi sembrava così calmo, così bello che avrei voluto tirarlo fuori e portarmelo via, invece rimasi immobile accanto a lui, vedova discreta e compunta. Nel pomeriggio, in un momento in cui rimasi sola col suo corpo, mi chinai su di lui e gli baciai le labbra di pietra, ruvide come non erano state mai. Non piansi allora, piansi il giorno dopo il funerale, quando, al mattino, mi svegliai nelle lenzuola della settimana prima, le stesse in cui avevo dormito con Renzo mentre il cuore gli si fermava. In paese, mi chiamano “la vedova”; li sento, quando entro in un negozio, quando salgo le scale a piedi e le mie vicine di casa si stanno scambiando le cronache del palazzo senza curarsi di abbassare la voce. Sono passati cinque anni da quando Renzo se n’è andato, ogni mattina appoggio le labbra sulla fotografia che ho fatto incorniciare, e che ho sistemato sul comodino; la guardo in controluce, cancello la mia impronta con la manica della camicia da notte, e inizio la giornata.
Da qualche mese, mi vedo con Giacomo; ci siamo conosciuti al circolo degli scacchi. Non ho ancora imparato a giocare, mi sono iscritta quest’anno, perché Renzo aveva la tessera e io l’avevo preso in giro per questa sua passione, fuori dalle abitudini degli uomini di qui. È gentile, Giacomo; ci incontriamo al bar, la mattina. Si siede allo stesso tavolo e si alza in piedi, quando gli vado incontro, mi saluta e mi bacia sulle guance. Mi chiede come sto, si interessa ai miei progressi con la scacchiera, mi spiega le insidie nascoste nel movimento degli alfieri, e io fingo di capire, perché mi dà l’aria intelligente. L’altro giorno, invece che sulle guance, mi ha baciata sulla bocca; è stato un gesto rapido e garbato, privo di malizia. – Che fai? -, gli ho chiesto, e non provavo lo sconcerto del mio esordio con Michele e nemmeno il sollievo trionfante della prima volta con mio marito. Non mi è dispiaciuto. È stato come tornare a casa, ma da una strada diversa.