– Cos’hai da ridere? -, mi chiese. La voce di mia madre mi colpì dritta alla nuca, nello spazio pallido e nudo tra l’orlo della maglietta sudata e l’attaccatura dei capelli, che mi erano appena stati tagliati troppo corti. – Te li spunto soltanto -, mi aveva promesso, con le forbici da cucina in mano, e mi aveva devastato il caschetto. – Tanto dietro non si vede -, si era giustificata, aggressiva, – E poi fa caldo, e sono capelli: ricrescono -, aveva concluso, irritata dalle mie proteste. – Allora: che hai da ridere? -, insistette, e la sentii di nuovo, come il gelo del ventilatore sulla pelle sudata, così mi feci seria, serrai le labbra e i denti, – Immagina di infilarti gli indici in bocca -, ingiunsi a me stessa, – Immagina di appoggiarli sui molari e di premere forte, immagina di farti passare la voglia di ridere -, mi ripetei, e mi voltai a guardarla. – Niente -, mentii, – Non stavo ridendo -, le assicurai, annuendo, e non era vero, perché ero seduta sulla soglia del balcone e avevo appena scorto un piccione che entrava in casa degli Sforza, zampettando disinvoltamente. Mi ero immaginata lo spavento della signora, quando se ne sarebbe accorta, mi ero figurata il piccione che la scrutava dai piedi del letto e si beffava di lei, la zittiva di orrore e poi le volava addosso, smuovendo l’aria stagnante del pomeriggio.
Era il mese di luglio, quel giorno la nazionale italiana avrebbe perso contro il Brasile per un errore che sfuggiva a ogni calcolo, e mio padre era uscito di casa sbattendo la porta così forte che avevo visto volare la catenella sul pavimento, e mi ero portata una mano alla bocca. – Ah, adesso piange -, aveva commentato mia madre, ma io avevo gli occhi asciutti. – Piange e ride come Beatrice la pazza. Brava! -, mi aveva censurata, – Così diventerai, come lei, se vai avanti in questo modo -. Mi aveva preso per le spalle, mi aveva scossa come fossi stata il barattolo del sale, e finalmente avevo pianto, non ero riuscita a frenare le lacrime, che mi avevano appannato le lenti. Mi ero vista adulta, con la faccia di Beatrice e i miei occhiali da vista con la montatura verde, e mi ero disperata ancor di più; almeno, lei non era miope. Almeno dagli occhi, Beatrice ci vedeva bene.
Quella sera, dopo la partita, mia madre venne accanto a me, con un tubetto di pomata in mano. Ero seduta sulla soglia del balcone, le gambe maculate dalle punture di zanzara. – Promettimi che non riderai più senza motivo -, mi chiese. – E promettimi che non piangerai mai più senza motivo -, aggiunse, severa, e io annuii, guardando il riflesso della tv nel vetro della finestra di fronte. – Per l’Italia puoi piangere -, concesse, alla fine, – Anche se a noi del pallone non ce ne importa niente! -, e rise, mi abbracciò, mi strinse forte contro il suo grembiule umido, che sapeva di peperoni arrosto. Non trovavo nulla di divertente nelle sue parole.
Beatrice non è mai stata pazza, ma lo scoprii solo molto tempo dopo, quando stavo per sposare Giulio. Ero spesso malinconica, in quel periodo, mi sentivo sempre come se fosse l’ultimo giorno delle vacanze, quando guardarsi indietro è già doloroso e proiettarsi nel futuro difficile. – Eccola, è depressa. Tu sei proprio come Beatrice, uguale-uguale -, commentò mia madre una mattina, quando le confidai la mia inquietudine. – Ma non era pazza? -, le domandai. Lei inspirò rumorosamente, scosse la testa. – Pazza, depressa: non lo so. Piangeva a caso e poi rideva dopo un poco, ma adesso ha pure avuto un bambino: povera creatura -, aveva aggiunto, e avevo provato tristezza per quella donna, mi ero sentita in colpa. Avrei voluto andarla a cercare e chiederle scusa per aver avuto paura di lei, da piccola, per aver temuto che la sua follia fosse contagiosa, che mi potesse rimanere attaccata alle labbra o alle ciglia, per essermi educata alla serietà, alle lacrime misurate, alle risate soffocate con la mano sulle labbra. – Ti passerà col matrimonio -, aveva concluso mia madre, quando avevo azzardato qualche domanda, e poi aveva cambiato discorso.
Invece non mi era passata; Giulio era gentile, tornava ogni sera pieno di storie da raccontarmi, mi stordiva coi nomi dei suoi colleghi, con gli aneddoti dei clienti, con le notizie delle ultime pagine dei giornali, la cronaca da niente, quella che riempie gli spazi vacanti. Andavamo al cinema, a mangiare la pizza, – Uscire ti farà stare meglio -, mi assicurava, e scherzava sulla gente che incontravamo, prendeva in giro gli sconosciuti per farmi ridere. Lo accontentavo ogni tanto, fingevo di star meglio e poi ricadevo nello sconforto, ma non sapevo darmi una spiegazione. Mi sentivo priva di prospettive e mancavo di chiarezza; mi sembrava che la realtà fosse fuori fuoco, lontana e confusa come quando mi svegliavo, al mattino, ed esitavo qualche minuto prima di indossare gli occhiali, indugiavo in quella mancanza di chiarezza, in cui ogni ombra poteva essere un corvo, ogni sagoma un nemico. – Cos’hai? -, mi chiedeva Giulio, talvolta, e io non rispondevo, scrollavo le spalle e pensavo a Beatrice, a lei che guardava il vuoto e sorrideva per niente. – Perché sei triste? -, incalzava, e allora gli dicevo la verità, gli confessavo che non ne avevo idea. – Ti passerà dopo che avrai avuto il primo figlio -, predisse di nuovo mia madre, e le credetti, ma l’arrivo di Elisa non migliorò le cose; soltanto, rese le mie parole più precise, mi offrì molte ragioni plausibili per sorridere e altrettante per essere sconfortata. Nel disordine dei primi anni da madre, la mia sconsolatezza passò in secondo piano, ben nascosta nell’ombra rassicurante che generava mia figlia, soffocata dalle sue urla, cariche di una disperazione vitale, esigente, volitiva. Passavo mattine intere a studiare il suo pianto, e il fatto che bastasse così poco a spegnerlo mi riempiva di meraviglia; osservavo la facilità della transizione, la rapidità con cui il suo volto si rischiarava. – Piange perché ha fame, perché ha caldo, perché ha sonno -, mi dicevo, e quasi trovavo ingiusta l’indulgenza con cui io stessa accoglievo la sua minuta scontentezza. – Piangi, piccola -, le mormoravo, e mi promettevo che mai le avrei impedito di farlo e che quella comprensione che le riservavo allora gliel’avrei riservata sempre, anche da grande. Mia figlia, almeno lei, non avrebbe conosciuto la tristezza irrisolta. Giulio non s’era mai arreso; continuava a chiedermi cosa avessi e si contentava delle mie risposte evasive, provava a distrarmi con la sua vita e non capiva che il problema era la mia.
Quando conobbi Michele, Elisa aveva sei anni; la accompagnavo a scuola tutte le mattine e lo incontravo davanti al cancello, stretto alla mano del suo bambino. – Si vede che con me sei felice -, mi disse, la prima volta che facemmo l’amore, nel salotto di casa sua. Viveva da solo, sua moglie lo aveva lasciato l’anno prima e lui non se ne era fatto un cruccio: si era cercato un nuovo appartamento e vi si era trasferito, come i gabbiani che avevano fatto il nido sul tetto di casa di mia madre, quando ero piccola, e quando i pompieri gliel’avevano spostato loro si erano trasferiti da una parte all’altra, semplicemente, senza spaventarsi per il cambio di indirizzo. – Felice come? -, gli chiesi, e mi vergognavo di quella domanda e del mio corpo nudo, così allungai una mano per cercare il lenzuolo, ma Michele non si spostò e mi impedì di coprirmi. – Felice -, rispose, e si alzò, lo vidi camminare verso la cucina, senza pudore, privo di dubbi, ignaro del significato delle parole che lui stesso pronunciava. Non aveva torto; per la prima volta dopo molto tempo, riuscivo a distinguere la strada, quando camminavo, e non dovevo affidarmi soltanto all’alone luminoso dei lampioni, per orientarmi. Pensavo sempre più di rado a Beatrice e anche con Giulio ero più tranquilla, non dovevo più inventarmi risposte perché lui aveva smesso di pormi domande; non sospettava di me e Michele perché si godeva la calma della tregua.
Continuammo a vederci di nascosto fino a giugno, poi quel sentimento che non avevo mai chiamato per nome, e che lui definiva con noncuranza amore, finì insieme alla scuola. Ci lasciammo senza spiegazioni, senza rumore e senza asprezza: non ebbi il tempo di pensarci, perché quel giorno era il compleanno di Giulio e me n’ero ricordata soltanto tornando a casa, ancora frastornata. Quella sera, prima di dormire, mio marito mi prese per mano; – Sei ancora triste? -, mi chiese, nel buio, gli occhi rivolti al soffitto. Gli strinsi le dita, senza voltarmi verso di lui; – Sì -, gli risposi, – Ma adesso, almeno, so perché -, e gli appoggiai la testa sulla spalla. Non mi venne da piangere.