In quei giorni, la pandemia era soltanto una voce in televisione, alla radio; raccontavano della Cina, dei polmoni infestati, della gente che moriva, che se ne andava senza poter salutare. Mi sintonizzavo su un’altra stazione per non sentirne più parlare, mentre andavo al lavoro e Delia, seduta accanto a me, sbuffava, abbassava i finestrini, inveiva contro il traffico. Poi arrivarono i divieti, il mondo esterno rappreso sui balconi, il lavoro dal salotto di casa.
Facevo l’appello chiamando gli studenti per nome, mi accorgevo che eravamo già a marzo e ancora non li conoscevo tutti; – Che spreco! -, pensavo, – Abbiamo creduto di avere così tanto tempo davanti da poterci concedere il privilegio dell’incuria -, e invece restavamo estranei, costretti a una imbarazzante prossimità inopinata. Lo schermo del computer, allora, mi sembrava una finestra illuminata di sera, senza tende: vedevo le facce di quegli adolescenti, accostate e smarrite, e facevo fatica ad accettare la contraddizione tra il fastidio e l’empatia, tra l’intenzione di proteggerli da ciò che accadeva nel mondo e quello di braccarli con la realtà, affinché imparassero ad affrontarla da soli. Non sapevo granché di loro, eppure ci invadevamo l’un l’altro la cucina, il salotto, la camera da letto, ed era tutto normale perché la scuola era diventata quello e, in qualche modo, dovevamo accettarlo.
Delia lavorava dal soggiorno. Era stata lei a scegliersi quel posto, così come aveva scelto la casa, il divano, i mobili della cucina e quelli del bagno. Aveva scelto anche me, quando mi ero appena laureato in una facoltà cui quasi non ricordavo di essermi iscritto, pochi anni prima: mi ero innamorato della sua determinazione risoluta, della prontezza impaziente e vitale con cui portava a termine qualunque impresa decidesse di tentare. Il matrimonio, il lavoro da avvocato invece che quello da dentista, come avrebbe voluto suo padre, il veto assoluto sull’ipotesi di avere un figlio. – Parlane con qualcun altro! -, mi rispondeva, quando provavo a sfiorare l’argomento, e poi mi abbracciava, – Un bambino mi mangerebbe il poco tempo che passo con te -, mi spiegava, prima di rabbuiarsi per un’assenza di luce che percepiva lei soltanto.
Una mattina, all’inizio di aprile, andò al supermercato: uscì di casa alle undici e mezza e io scossi la testa, guardandola di lato, mentre parlavo alla mia classe, che era soltanto un mosaico di rettangoli nebulosi. Tornò che era quasi l’ora di pranzo, stravolta, le mani che le tremavano; aveva dovuto far la fila, litigare per alcune priorità non rispettate. – Dovresti andare al mattino presto, se non ti piace la folla -, le suggerii, ma a lei la folla non era sgradita, gli orari di punta la mettevano di buonumore, il disordine nelle strade, nei negozi, sulla metropolitana, per lei erano fonti di energia. – Non sono andata a fare la spesa -, ammise, e solo in quel momento mi accorsi che non aveva portato nessuna borsa con sé, ma che guardava il pavimento, seguiva le fughe tra le piastrelle cercando la parola che meglio potesse compilare la griglia dei suoi pensieri. – Me ne vado. Non posso passare tutto questo tempo qui con te, lontano da lui -, mormorò. – E di questa malattia non riesco a vedere la fine -, concluse, e mi sembrò di vederla piangere, lei che aveva conservato gli occhi asciutti e vigili persino al funerale di sua madre, che ci aveva lasciati dopo un’oscura accelerata della sua utilitaria.
Abbandonò casa nostra quel giorno stesso. C’era un altro uomo, da qualche parte, un uomo che le mancava e che non poteva accettare di immaginare in solitudine, intrappolato senza di lei nello spazio tra il televisore e il terrazzo. Non mi chiese cosa avrei fatto, neppure si scusò; chiuse la porta dietro di lei e basta: scomparve dai pochi metri quadri di casa in una mezzora scarsa, lasciandomi solo a gestire la televisione, le facce sul computer e una solitudine inattesa come l’epidemia.
Mi impegnai a non reagire; continuai a far lezione alle pareti del salotto, a far ginnastica sul tappetino, ai piedi del letto, a leggere libri che non finivo. Andavo a fare la spesa di controra, quando la gente finalmente era impegnata davvero, perché era a tavola. In quei ritagli di tempo compravo poche cose in fretta, parlavo con le cassiere, soprattutto con una, Francesca. L’avevo riconosciuta per via della cicatrice sul sopracciglio, che le segnava la fronte e spariva sotto i capelli; spesso la trovavo che fumava, in quei momenti di pausa, in piedi sul marciapiedi, la mascherina che le penzolava da un orecchio. Allora le dicevo che potevo aspettare, che poteva finire la sua sigaretta. Ci raccontavamo pezzi di giornate senza sorprese, alzando la voce per poterci sentire, tenendoci a distanza. Dopo alcune settimane, potevamo descrivere l’uno la giornata dell’altra pur vivendo separati: eravamo prevedibili e noiosi, eppure mi piaceva ascoltarla. – Grazie -, le dissi un pomeriggio, prima di lasciarla, e lei non capì che la stavo ringraziando solo perché era fatta di carne e non di pixel, e rise, alzò le spalle, – A domani -, replicò, e tornò alla merce sugli scaffali.
– Non posso chiederti di uscire -, esordì una volta, – Però possiamo vederci a casa mia -, mi propose, incurante del rischio, delle raccomandazioni della televisione, del panico che ancora svuotava le strade e sbarrava i commerci. Accettai, andai da lei una sera di fine aprile, pensando a Delia che non c’era, che stava da qualche parte e che, in tutto quel tempo, mi aveva mandato un solo messaggio. Ascoltai Francesca parlarmi dei suoi studi, dei genitori, che non vedeva da Natale, da prima dell’inizio di tutto quel disastro; iniziavo ad abituarmi al ritmo della sua voce, all’accento del sud che le velava le frasi, che le stemperava di un’ombra che non conoscevo, ma che mi piaceva. Bevemmo una birra, poi un’altra, e finsi di addormentarmi sul divano per non dover tornare a casa, per non dover affrontare, di nuovo, il copriletto rosa che aveva scelto mia moglie.
Poco alla volta, il piccolo appartamento di Francesca mi divenne familiare; facevo lezione seduto di fronte alla finestra della sua stanza, cucinavo per lei, andavo a trovarla al supermercato, sempre di controra, solo che lei adesso si abbassava la mascherina per la mia bocca, oltre che per la sigaretta.
Arrivò giugno, ricevetti poche parole da parte di Delia, imparai a risponderle a monosillabi. Non lo facevo per rabbia, né per rancore, ma per indolenza; tutto ciò che mi accadeva, in quelle giornate, lo tenevo in serbo per Francesca, come per una sorta di compenso per avermi riempito il vuoto, per aver cambiato lo scenario sbiadito della mia vita e per avermi accordato la possibilità di una svolta, proprio quando nulla si muoveva né poteva cambiare posizione.
– Dove andiamo in vacanza? -, mi chiese, una mattina, al risveglio. Le sorrisi e non risposi, l’estate mi sembrava lontanissima e il mio matrimonio anche. – C’è tempo -, sospirai, alla fine, e Francesca si mise a sedere sul letto, – Tanto quella non torna -, e rise. – Possiamo andare al mare, possiamo andare giù sulla costa: quella non torna lo stesso -, e io le credetti. Mi piaceva quella sua leggerezza, mi piaceva e mi atterriva allo stesso tempo: luglio era ormai vicino e quasi pregavo che fosse la televisione a suggerirmi una scelta.
Invece Delia tornò; mi telefonò un sabato mattina, alle undici. – Vieni a casa nostra -, mi disse, – Ti aspetto qui -, e io andai a raggiungerla, credevo di essere così felice da sentirmi disperato. Non ricordo più cosa mi disse, però si lamentò della dispensa vuota, del frigorifero deserto. – Andiamo a fare la spesa -, propose, ed era quasi mezzogiorno. Pensai al supermercato affollato, a Francesca sudata, sotto la mascherina, a Francesca che sarebbe tornata, quella sera, e mi avrebbe descritto la sua città, avrebbe ironizzato sulla stanchezza, mi avrebbe puntato il ventilatore in faccia soltanto per spettinarmi i capelli. – No -, le dissi, – Non ci vengo. Faccio la spesa di controra, adesso -, aggiunsi, e me ne andai.
Era l’inizio dell’estate e nessuno ancora sapeva quanto sarebbe durata; eppure avevo fiducia e, per una volta, non mi ero sbagliato.