L’ascensore era quasi arrivato al piano terra quando sentii qualcuno entrare nel portone, parlando al telefono. Mio padre salutò, disse: – Buongiorno – dalla guardiola, ma non ricevette risposta. L’avvocato del secondo piano lo ignorò e continuò a ripetere: – Sì, certo, assolutamente -, premendo il cellulare contro l’orecchio e, intanto, fermandosi a cercare qualcosa nella cartella, sostenendola con un ginocchio. Avrei potuto approfittare di quel momento, infilarmi nella cabina spalancata e pigiare il tasto numero otto, ma quello, per mio padre, sarebbe stato una specie di furto: avrei rubato il diritto di precedenza a un inquilino dello stabile. Mi sporsi a guardarlo, come per chiedergli tacitamente un permesso che non avrei ottenuto e lui mi restituì un cenno che non lasciava spazio a dubbi ed era l’anticipo su un’appropriata ramanzina, che non avrebbe tardato ad arrivare quella sera. Sospirai e mi avviai a piedi; giunto a metà della seconda rampa, qualcuno chiamò l’ascensore e l’avvocato rimase giù ad aspettare. Chissà se stava imprecando.
Ero la figlia del portiere di un condominio di otto piani, nel centro della città. Ai miei occhi, il palazzo di casa era un edificio sontuoso, dall’ingresso ampio, che gli specchi rendevano immenso e luminoso, mentre mio padre svolgeva un lavoro nobile e importante. Noi abitavamo al nono piano, in un minuscolo appartamento di servizio, in realtà, un volume tecnico costruito sul tetto. Mio fratello e io dormivamo insieme, su un divano-letto installato in cucina e il bagno era così stretto che mio padre riusciva a toccare le pareti opposte allargando le braccia. – Guardate cosa riesco a fare! -, si vantava, e col palmo di entrambe le mani spingeva contro le piastrelle, – Così ho allargato di un poco la stanza -, mormorava, e noi ridevamo, mio fratello gli credeva e misurava col centimetro lo spazio che avevamo guadagnato.
I condomini conoscevano mio padre e lo chiamavano per nome, anche se non lo salutavano sempre, ma a lui non importava, non se la prendeva; – Un bravo portiere -, mi spiegava, – dev’essere invisibile quando tutto va bene e reperibile, come un campanile, quando c’è un problema -. Annuivo, senza essere sicura di capire bene le sue convinzioni. – Un vero portiere -, continuava, – sa ogni cosa di ogni persona che entra e che esce, ma lo ammette soltanto se insistono, o se è davvero indispensabile -. Poi a casa raccontava a mia madre i dettagli della crisi coniugale che si consumava al quarto piano, delle vacanze domestiche del signore del quinto, che in verità erano arresti domiciliari e del nuovo proprietario del settimo, un regista televisivo, o del cinema, o forse solo un presentatore. – Ma insomma, cosa fa di preciso? Questi sono tre mestieri diversi! -, aveva protestato mia madre, e lui aveva sbuffato, – Sono un portiere, io, non l’ufficio di collocamento! E poi questo è un segreto professionale -, aveva concluso. Aveva indossato la divisa se n’era tornato al suo seggio, in guardiola. Prendeva sempre le scale lui e pure noi, anche se, a dire il vero, qualche volta chiamavo di nascosto l’ascensore, scendevo dall’ottavo al secondo e poi continuavo a piedi fin giù. Sono sicura che lui se ne accorgesse, perché allora trovava un pretesto per rimproverarmi.
Un giorno, quando avevo tredici anni, mio padre ebbe un attacco di cuore mentre era in guardiola e morì sul marmo dell’androne, prima ancora che arrivasse l’ambulanza. A lungo mi sono chiesta se fosse riuscito a scorgere il suo ultimo riflesso in uno degli specchi che rinviavano la sua immagine.
Con mia madre, ci trasferimmo in un altro quartiere, in un alloggio popolare dalle tapparelle di plastica grigia, in un palazzo senza portiere e senza ascensore, con le cassette delle lettere che qualcuno aveva sfondato per ubriachezza o per puro vandalismo. Non campavamo male: mio fratello e io avevamo un letto per ciascuno e una stanza tutta per noi e mia madre ogni tanto invitava qualche amica a cena, il venerdì sera, perché in cucina c’era spazio per un tavolo da sei e per un frigorifero. Quando compii diciott’anni, comprammo anche una macchina per fare il caffè.
Della nostra vecchia vita non parlavamo mai; nessuno menzionava i pochi metri quadri in cui avevamo festeggiato i nostri primi compleanni e sembrava che la nostalgia per quel palazzo magnifico, in cui avevamo imparato a vivere senza esistere e a osservare tutti di soppiatto, fingendo un educato disinteresse, riguardasse me soltanto. In segreto, ogni tanto continuavo a fingere di abitare ancora lì, omettendo di essere stata la figlia del portiere, soprattutto con gente che incontravo e che sapevo per certo non avrei rivisto mai più. Pronunciavo quell’indirizzo per vedere il rispetto e l’invidia accendersi negli occhi di chi mi stava di fronte e me la prendevo con la cattiva sorte, che mi aveva portato via, con un solo strappo, mio padre e una poltrona in platea per assistere allo spettacolo del mondo. Certo, era pur sempre una poltrona da condividere con altre tre persone, ma questo era un dettaglio che non mi sembrava poi così rilevante. Non lo avrei mai ammesso con nessuno ma, dentro di me, speravo di poter tornare a vivere lì, un giorno; ne coltivavo silenziosamente la possibilità, come un passante che porta da mangiare alla cucciolata di una gatta randagia, al riparo di un’aiuola secca.
Una sera, poco prima di laurearmi, mi ritrovai a parlare con Paolo; si era trasferito in città da poco, lavorava nella filiale di una banca e scandiva ogni parola con lentezza esasperante. Eravamo a una festa e lo ascoltavo a metà, mentre cercavo una via di fuga in un volto familiare intorno a me, ma la flemma vischiosa del suo discorso mi riafferrava. A un certo punto, mi disse che abitava in centro, in un quartiere che non aveva ancora addomesticato e poi aggiunse il nome della via. Lo interruppi, gli chiesi di ripetere, esagerai nel dimostrargli interesse: abitava in quel palazzo, quello in cui mio fratello e io eravamo nati, lo stesso in cui mio padre era morto.
Ci rivedemmo dopo qualche giorno, andammo a cena; mi raccontò del suo impiego e lo riportai sulla sua nuova casa: cercai di sapere a che piano abitasse, se dal lato del viale o da quello del cortile, se al quinto ci fossero gli stessi inquilini di un tempo o se fosse arrivata un’altra famiglia. Gli completavo le parole quando mi sembravano stentate, gli suggerivo un aggettivo quando vedevo che indugiava: avevo già divorato la mia pizza e lui non era arrivato neppure a metà della sua. Eppure Paolo iniziava a piacermi, in qualche modo: la sua indolenza assumeva contorni eleganti, la sua voce bassa era rassicurante. Quando, una volta usciti dal locale, mi invitò a casa sua, lo presi per mano prima ancora che potesse terminare la frase. – Sì, eccome! -, affermai, e poi tacqui per tutto il tragitto in auto, guardando fuori dal finestrino, cercando di rintracciare antichi punti di riferimento.
L’androne dello stabile non era cambiato; mi sembrava tuttavia più spazioso e capii subito il perché: la guardiola era stata sgombrata e, al suo posto, c’erano una grossa pianta dalle foglie spioventi e un monitor diviso in sei rettangoli. Il portiere era stato rimpiazzato dagli occhi artificiali e instancabili delle telecamere. Cercai di trattenere la delusione, non far trasparire alcun sentimento. Mentre aspettavamo l’ascensore, Paolo mi strinse le spalle e fece per baciarmi. Mi sottrassi, nel panico, mi voltai verso lo spazio nudo della guardiola. – Non posso -, mormorai, – C’è mio padre che ci guarda -.
Lui abbozzò un sorriso d’incomprensione, si guardò intorno: non c’era nessuno, soltanto noi due, ritratti uno di fronte all’altra nel rettangolo in basso a sinistra dello schermo, laddove prima c’era un uomo in divisa, che salutava e non sempre riceveva risposta.