Quando urlavo, mia madre rideva. Le pizzicavo l’avambraccio per dirle che ero pronta, come un’accordatura, lei spalancava gli occhi per non perdersi la scena, le pupille che sporgevano umide in avanti. Allora mi premevo le mani sulle orecchie, prendevo fiato e vuotavo i polmoni, l’aria che mi si dilatava contro il palato e prendeva forma, la gola che bruciava e mia madre che rideva, rideva della sua risata senza suono, tutta denti e occhi che volevano vedere e restavano aperti, resistevano e alla fine cedevano, si abbandonavano al riso. Quando urlavo, mia madre rideva. Al mio urlo perforante, la gente si dileguava, tutti scappavano via come formiche, quando avvicini la fiamma dell’accendino al bordo del marciapiedi, come scarafaggi, quando sollevi la carta da parati e li scopri, eccovi, ecco dov’eravate, morirete tutti e invece sei tu che soccombi mentre loro figliano e si moltiplicano. Sei tu che perdi il sonno, la serenità, ti osservano mentre s’accoppiano senza pudore, eppure se ti avvicini scappano, si disperdono, colonizzano altre penombre di casa tua. Così facevano gli estranei quando urlavo: si disperdevano, correvano verso gli angoli, forza centrifuga del fastidio, della sorpresa, della paura. Mia madre no, lei rideva, e i suoi denti esposti mi rendevano felice. Per vedere l’eccesso di spazio tra gl’incisivi urlavo fino a restare senza voce: la portavo nel mezzo della folla, di una fila al supermercato, la portavo nel mezzo dell’assemblea, rendiamo grazie a dio, e mentre gli altri si sedevano io mi alzavo, le pizzicavo cattiva l’avambraccio e levavo la voce al cielo. Lei prima esitava, poi spalancava la bocca senza simmetria e solo allora capivo che ce l’avevo fatta. Rideva mentre gli altri erano atterriti, rideva del loro terrore; io mi godevo l’estasi del bandito che viene scoperto, eccomi, prendetemi, non potete sbagliare. Urlare mi colmava, aspettavo il momento opportuno e lo rimandavo come si rimanda il piacere, per amplificarlo, per goderne di più. Lei rideva e basta, l’urlo non la infastidiva, non la feriva, non la toccava. Niente. Mia madre era sorda: il silenzio cui era condannata le impediva di comprendere la portata della mia colpa.
Avevo dodici anni quando decisi che avrei imparato a suonare il piano; lo dissi a mia madre e lei acconsentì, non ci furono conflitti. Non mi domandai cosa fosse per lei la musica, se avesse memoria d’una voce appoggiata su un ritornello, se le restasse un fondo di vaga allegria o di turbamento, come quando sei troppo giovane per le canzoni d’amore, e provi vergogna quando qualcuno le canta senza curarsi della gravità delle parole. Volevo suonare, questo mi bastava. Il pianoforte arrivò una mattina di ottobre, altero e lucido come una bara, e io mi ci sedetti davanti, aggredii i tasti senza sapere che farne, vorace come chi s’avventa sul cibo e non ne avverte il sapore, crudele come chi ha tra le mani il corpo d’un altro e ha talmente fretta di possederlo che si scorda il piacere, e infligge soltanto dolore. Passammo l’inverno in salotto: mia madre, la maestra di musica e io; mia madre ci guardava e io sbagliavo, mia madre che non capiva niente, che non sentiva niente, mia madre estranea ai miei errori, alla voce della maestra, che le dava le spalle e mi diceva stupida, sei stupida, e che alla fine della lezione tendeva la mano per essere pagata subito, in contanti come un offertorio. Mia madre non diceva niente – avrebbe potuto? –, ma, lo sapevo, era felice. A giugno m’accompagnò al saggio di fine anno, si sedette in prima fila, vestita di nero perché intanto era morta sua madre e lei l’aveva pianta in silenzio, sollievo più che dolore; mi ascoltò suonare, batté le mani come gli altri. Non s’accorse degli errori, non li stanava mai, ma, quella volta, non mi sembrò felice: la folla di estranei, le zanzare che marinavano nell’umidità della saletta comunale, l’abito del lutto troppo accollato per quell’estate precoce le avevano tolto l’allegrezza, le avevano spento l’orgoglio per quella figlia che si esibiva in acrobazie che lei, forse, non poteva immaginare: non ho mai saputo se mia madre fosse nata sorda o se lo fosse diventata in seguito, in quel modo irreversibile in cui, se ti fai tagliare i capelli che hai lasciato crescere per anni, poi li porterai per sempre corti, spiumati ed estranei sulla tua testa orfana. Allora, dopo l’esibizione – mia madre che non s’alzò quando m’inchinai, mia madre che m’ignorò mentre mi prendevo gli applausi per l’insuccesso che avevo coltivato con diligenza –, allora, dicevo, dopo l’esibizione, invece di tornarmene dietro le quinte, avanzai verso il bordo del piccolo palco, come se volessi scavalcarlo, come se volessi scendere. A quel punto mia madre s’accorse di me, a quel punto vide sua figlia; fui rapida: inspirai, tuffatrice che sta per lanciarsi, e i suoi occhi si dilatarono, eccoti, madre, finalmente, il mio spettacolo inizia adesso. Trattenni il fiato e poi urlai, urlai forte come non avevo mai urlato, la mia voce rasposa, animale, grido di gabbiano che t’ha fatto il nido sul tetto, dolore in gola, in petto, polmoni lividi che non hanno più aria, ma non importa. Mia madre rideva; mia madre, finalmente, rideva di nuovo, e non c’era nient’altro, non c’era la cassa da morto ancora nuova che aveva appena sepolto, non c’era la musica che non capiva, non c’era il palmo sudato della maestra di piano: non c’era più niente. C’eravamo noi due, io ero una lanciatrice di coltelli e lei la donna che non dovevo colpire, fiducia e terrore, vertigine e allegria. Quando urlavo, mia madre rideva. E in quell’allegrezza riflessa c’era tutto l’amore e l’odio che ci crescevamo gelose e attente, come si cresce un cane che adotti dalla strada, come si cresce un male che ti s’ingrossa in corpo e non lo sai, e non volendo gli dai da mangiare, gli dai da bere, lo fai diventare enorme, al punto che prende il sopravvento. Quando urlavo, mia madre rideva. Per me, era tutto.
Quell’anno, a settembre, smisi di suonare: la mia carriera da musicista era durata una stagione appena; a dicembre, dopo la messa di Natale – di nuovo avevo urlato, di nuovo m’avevano portato via, di nuovo la risata di mia madre m’aveva assolta e ripagata –, mia madre se ne andò. La valigia doveva averla preparata da tempo – giorni, settimane? Quanto tempo, mamma? Quanto tempo era che mi tradivi? – perché nel suo armadio non trovai più nulla, e così nei cassetti del comò, e nel mobile del bagno dove conservava i rossetti per quella sua bocca incapace. Quell’anno, smisi anche di ridere; senza mia madre, m’era passata la voglia.
La mia faccia triste è piaciuta a molti uomini: Michele, Libero, Antonio, uomini che ho scordato, corpi che m’hanno dato un piacere inquinato, privo di spensieratezza, come quell’acqua di mare che da lontano sembra azzurra ma che, quando t’immergi, ti s’intorbida intorno. – Cos’hai -, mi chiedevano, dopo l’amplesso, e io non avevo niente, non ero delusa, non ero nemmeno infelice, ma quella mia incapacità di mostrare allegria, anziché scoraggiarli, li riempiva d’amore sollecito, agonistico, farmi ridere era la medaglia d’oro, farmi star bene la priorità. Non stavo male; ma loro faticavano a crederlo, e dopo qualche tempo ero io a lasciarli, ad andarmene come aveva fatto mia madre, a interrompere l’esercizio sportivo prima del fischio dell’arbitro. Quella loro dedizione mi annoiava, e il sentimento che nutrivo per loro assomigliava al capriccio della musica che mia madre aveva assecondato subito, senza lasciarmi il tempo per desiderare davvero; mi applicavo nei rapporti carnali con la stessa regolarità svogliata dei martedì di lezione in salotto. Per questo mi stancavo in fretta; per questo la voglia di ridere non m’era più tornata. Con Rodolfo, invece, ho fatto un figlio; non voglio dire che sia accaduto per sbaglio, ma è successo che un giorno m’ha raccontato di suo padre, suo padre che da quando era finito in un ospizio non aveva più parlato, s’era rifiutato. Un pomeriggio erano andati a trovarlo e lui non aveva detto nulla, era diventato muto; – Muto come? -, gli avevo domandato, e lui m’aveva spiegato che dalla sua bocca non usciva più nessun suono, perché così aveva deciso, o forse perché così aveva voluto la demenza. Non si dava pace Rodolfo, andava da suo padre tutte le sere; lo sfiniva di domande, di recriminazioni, lo sgridava come un genitore e poi piangeva come un figlio. Quando ci vedevamo, spesso aveva ancora gli occhi arrossati e i fazzoletti umidi nella tasca dei jeans; fu per quello che andammo a vivere insieme. Fu per quello che, quando rimasi incinta, decisi che non avrei abortito, che quel figlio l’avrei tenuto: perché riconoscevo l’ostinazione del padre, perché in quei suoi tentativi quotidiani di ridar voce a un vecchio, mi sembrava di ritrovare l’origine della mia fine, ma non gli dissi mai nulla. Nulla del mutismo di mia madre, nulla di come rideva, della soddisfazione di essere stata io – io l’avevo fatta ridere, io ero l’autrice della sua allegria: ammirate l’opera. Nulla; mi limitai a stargli accanto, a lasciarmi ingravidare. La mia incapacità d’essere felice non sembrava turbarlo molto; forse la sua era più grande, perciò non ci ha fatto caso.
Mia figlia è nata un ventiquattro di dicembre; quando è venuta al mondo, non me ne sono accorta perché mi ha attraversato il sesso in silenzio, muta come mia madre, muta come il padre di suo padre, e quando l’ho vista ho avuto paura, ho rivisto mia madre, il terrore negli occhi dell’uomo che quella bambina me l’aveva data, e ho pianto. Prima con calma, come registri la morte d’un estraneo, poi disperata, poi ho urlato, ho urlato forte come quando volevo farla ridere – mia madre, volevo far ridere mia madre –, ho urlato forte come quel giorno dopo il saggio di pianoforte, ho urlato per tutte le volte in cui avrei voluto rivedere quella contentezza che avevo perduto, almeno per ricordarmi come fosse, almeno per sentirmi di nuovo autrice, di nuovo capace, di nuovo in vita. Ho urlato, e intanto mia figlia taceva, ho urlato e allora ha urlato anche lei, ha pianto la disperazione d’essere al mondo, ha pianto l’odio istintivo per una madre che l’aveva espulsa dal nero del suo corpo e le aveva inflitto gli altri, e le aveva inflitto la condanna d’esistere, ha urlato la collera di chi nasce, e io l’ho amata. Ho riso, e ho amato quella figlia che non sapevo di desiderare, l’ho amata come si ama ciò che non conosci e che pure hai tra le mani.