Passai davanti allo specchio del bagno, la bambina in collo – le sue labbra appiccicose contro il mio orecchio, il pannolino tiepido e pesante contro il palmo della mia mano. Sollevai lo sguardo, vidi la schiena di Lucia, i suoi capelli neri, metà della mia faccia: una lente d’occhiali, un sopracciglio, mezza bocca. La cicatrice sulla guancia sinistra era coperta dalla sua testa. A destra ero pulita, a destra non m’era successo niente. A destra non ero io. Uscii dalla stanza, poi tornai indietro; feci per appoggiare mia figlia a terra – staccati, mollami –, lei pianse, così la sollevai di nuovo, la sedetti nel bidet vuoto, gambe rivolte verso l’alto, braccia tese verso la madre. Mi osservai: ero libera, ero io – occhiali, sopracciglia rade, lo scempio della pinzetta a quattordici, a sedici, a diciotto anni. La fessura tra lo zigomo e l’arcata inferiore dei denti, la bocca che aveva voluto, mangiato, sputato, baciato altre bocche, baciato altro, che adesso non baciava più. Da quando? Quanto tempo? Il mento, il neo asportato dal chirurgo due anni prima; adesso era una chiazza scolorita. Mi osservai, ero io, ero Betta: occhiali, sopracciglia, rattoppo, bocca, neo. Ero io, non c’ero più. Avevo smesso d’esistere. Ripresi la bambina, pesava, era una valigia, soprapprezzo per aver superato le misure previste; avvicinai le labbra alla sua testa – latte acido, biscotti, il mio deodorante all’aloe. Era diventato quello, per me, baciare. Mi osservai, di nuovo: niente. Non c’ero. Ero svanita.
Avevo iniziato a capirlo, ad accorgermi della mia scomparsa, inesistenza d’una donna, che pure ha nome, documento, indirizzo, avevo iniziato a sospettare d’essere sparita da qualche tempo, da qualche mese. Durante le vacanze di Natale ero andata dal medico – attesa sulle poltroncine verdi, una vecchia, entrata dopo di me, s’era fatta ricevere per prima, – Signora! -, avevo azzardato, e quella niente, non m’aveva dato ascolto, insetto tra l’imposta e la zanzariera, spostamento d’aria al passaggio d’un monopattino. Avevo aspettato allora il mio turno – m’era stato usurpato: dopo toccava davvero a me? Il posto mio non se l’era preso lei?, cosa restava, cosa diventavo? M’ero seduta infine di fronte al dottore. – Sto male -, gli avevo confessato, male come? male dove? mi faccia vedere: il sangue è tutto dentro, dove dev’essere. Non ci sono ferite. – Sto male -, avevo insistito, – Male davvero -, e lui aveva sorriso, denti da latte in una bocca d’adulto: tra poco ti cadranno tutti. Non è niente, signora, non è niente, e aveva guardato l’orologio, s’era tirato su le maniche del camice. – Non ha niente -, era stata l’assoluzione priva di penitenza, non un ave Maria, non un salve regina, nessuna espiazione. – Lei sta benissimo -, e poi m’aveva parlato del tempo, un male stagionale, un po’ di stanchezza; non aveva nulla per me, non avevo nulla. Esistevo? Ecco il punto: non esistevo. Quella sera mi confessai a mio marito, prima di dormire, – Sto male -, e, distesi sul letto, la bambina che russava nell’altra stanza – di nuovo ammalata, un’altra bronchite: questa figlia è nata per reclamare cure –, gli cercai la mano. – Male come? -, volle sapere, la voce già greve di sonno, forse il bicchiere di vino che io ancora non bevevo – allattamento: per mia figlia ero casa, ero dispensa, ero terreno da gioco. – Male, stanca -, risposi, – Male, mi sembra di non esistere più -, e lui voleva dormire, eravamo soltanto a marzo e il mio male non esisteva, e io non esistevo: c’era tempo per le vacanze, non potevo aspettare? Resistere fino a luglio, ad agosto, fare come tutti? Dov’è che avevo male? Nessun livido, nessuna botta? Non avevo niente, non ero niente.
Passarono i giorni, le settimane e non ricomparivo; mi cercavo nello specchio, nelle vetrine, mi cercavo in mio marito, nel suo corpo addormentato e ignaro accanto al mio, nel desiderio che non lo dominava più. – Sto male -, e lui non si voltava a guardarmi, a ispezionarmi, – Qui?, Fa male qui? -, lui non cercava le ferite nascoste, il morbo che ti cresce nella pancia, che t’infesta i polmoni, mette radici, poi ti spinge foglie e rami secchi fuori dalla bocca, e a quel punto risale, esce dalle orecchie e tu diventi un albero, una vite pronta alla vendemmia, perché intanto il male s’è moltiplicato, è un grappolo. – Sto male -, e lui non diceva niente, s’era abituato, gli dormivo accanto e soffrivo, ma lui non lo vedeva perché non c’ero.
Provai allora con mia madre, – Male, sto male -, e lei mi parlò del sesso, e ch’era normale, alla mia età, con una bambina di due anni, un matrimonio. Mi parlò di sesso e di muscoli, di grasso in eccesso, hai mai pensato d’iscriverti in palestra? Di correre intorno al parcheggio dell’ipermercato, mentre la bambina dorme in auto? Se ci vai di mercoledì, forse posso tenertela io; a proposito, come sta la bambina? Tu stai benissimo, forse i capelli, forse il sesso, sì: quello è un problema di tutte. Non sei sparita, che dici, anzi: secondo me hai preso qualche chilo. Li indossi ancora i pantaloni dell’anno scorso? Allora, mi dissi, allora se non mi vedete – non mi vedete, vero? Non v’accorgete di me, altrimenti capireste –, allora farò in modo che possiate farlo. Vi aiuto io: da oggi mi guarderete, ci sarò io soltanto e non potrete fare a meno di voltarvi verso di me, eccola, è lei, chiamatemi per nome, riconoscetemi. Parlate di me: sarò al centro de vostri interessi, sarò la prima pagina, avrete per me timore e rispetto. A me i vostri occhi. A me, finalmente.
Mi domandai cosa fare e come, in che modo tornare visibile, tornare viva, tornare me, passare dai titoli di giornale per avere l’attenzione di chi m’ignorava, ma non perché fossi poco – poco importante, poco donna, poco moglie, poco madre, poco Elisabetta –, bensì perché non ero, non esistevo, ero fatta di nulla e nessuno – mio marito, il medico, mia madre –, nessuno poteva voltarsi verso di me, riconoscermi, dire lei, è stata lei, parliamo di lei: che ha fatto? Mi domandai come rientrare in un corpo – mio, il mio –, come fare in modo da spostare l’aria in una stanza, al mio passaggio, come fare per risultare a fuoco, quando m’intromettevo per inavvertenza nella foto scattata da un turista al Duomo di Milano. Pensai di spogliarmi nuda in metropolitana – atti osceni: prendetela! –, qualcuno mi avrebbe filmata col telefono, il mio corpo censurato sarebbe stato pubblicato sui giornali. Due, tre giorni, una settimana di vita, guardatemi, fatemi durare di più: posso spogliarmi ancora, se volete. Non volevo, non volevo io, mi mancava il coraggio di raccattare il seno che m’era caduto insieme al resto, ch’era sparito dallo specchio insieme a me. Non volevo, non potevo; pensai di lanciarmi sulle rotaie, no, sotto le auto, no. Meglio un salto dal davanzale – guardatemi, volo, sono un uccello, un gabbiano, sono un piccione, non un cigno. Un piccione disgraziato. Pensai di morire, cura il male col male, la scomparsa con la scomparsa, come se la morte avesse potuto far somma algebrica con la mia invisibilità e rendermi la vita, restituirmi un corpo, restituirmi a me: guardatemi, vi prego, fatemi esistere. Pensai di rubare, aggredire, investire, sirene spiegate solo per me, ambulanza o polizia, o pompieri: potevo incendiare. Sirene che dichiaravano la mia presenza in un luogo, ambulanza, polizia, pompieri: cambiava qualcosa? Cambiavo io. Da non esistere a esserci. Pensai di distruggere, invadere, pensai di urlare, di cantare, ma tutto ciò che sapevo intonare erano ninne nanne disperate, tentativi pieni di collera di far tacere mia figlia, di farla dormire, sparisci per un attimo, sparisci per un poco. Dammi tregua. – La mamma non c’è più -, le dissi un pomeriggio, – La mamma è sparita, non esiste -, e Lucia rise, rise forte, – La mamma è invisibile -, e lei non la smetteva di ridermi tra le braccia, così la posai sul pavimento della cucina, chiusi la porta a chiave e lei non reagì. La sentii giocherellare da sola, poi pianse, pianse senza parole – non mamma, non il mio nome: non c’ero. Poi s’addormentò. Avrà avuto fame; della mia assenza non se ne sarà neppure accorta.
Non feci nulla: non ero capace di morire, saltare nel vuoto, e mi mancava la generosità di chi si spoglia. Il mio corpo non lo vedevo più ma mi apparteneva, non l’avrei ceduto a nessun offertorio, insieme alle monete di rame che dai via perché ti pesano in tasca, insieme ai barattoli di pelati in scadenza di cui ti liberi, prima di partire per le vacanze. Una mattina, lasciai mia figlia al nido e poi, invece di andare in ufficio – di nuovo non m’ero lanciata sui binari, di nuovo m’ero tenuta i vestiti addosso – non ci andai. Tirai dritto, salii su un autobus, scesi molte fermate più in là, senza guardare dov’ero. Entrai in un salone di bellezza e porsi le mani a un’estetista asiatica, andai a comprarmi un rossetto, un paio di jeans – esistevo sull’estratto conto della carta di mio marito –, andai a comprarmi un cappotto, via i soldi e avanti me, un paio di sandali, un regalo per la bambina, ma inadatto alla sua età. Andai a pranzo fuori – quant’era che non accadeva? –, andai al ristorante e dissi grazie, mi sedetti a un tavolo e non era la mensa aziendale; pagai il conto – lo pagò mio marito – e ne calcolai il valore in percentuale sul mio salario, quanti giorni, quante ore. Non mi cercò nessuno: non s’erano accorti della mia assenza, ero una rotella saltata che non aveva bloccato l’ingranaggio, che non aveva fermato la macchina. Passò il pomeriggio e mio marito mi chiamò: le sei. Non risposi, vidi il telefono illuminarsi nella borsa ed entrai in un cinema; ci riprovò due, tre, cinque volte. Mi scrisse un messaggio, – La bambina! -, solo quello, punto esclamativo. Mi scrisse di nuovo, – Non l’hai presa dal nido sei impazzita -, senza punteggiatura, senza rabbia, poi riprovò a chiamarmi, ero lì e non c’ero. Dal nido, avevano avvertito il padre e non me: c’ero solo quando mi vedevano, c’ero solo quando ero utile, quando mi portavo via la bambina, quando facevo spazio. Eppure, quella bambina l’avevo fatta io: perché volete consegnarla al padre, non lo sapete che esisto? Ah, no? Sono davvero invisibile? E allora chi è quella che non dorme, che intona canzoni disperate, in piena notte, con la voce che resta? Di chi è questo odore deformato dagli ormoni, dal latte rancido, dalla semola gelatinosa che caccio a forza nella bocca di mia figlia? Smise di telefonarmi mio marito, attaccò mia madre; di nuovo, non risposi. Sullo schermo, avevano finito di proiettare i trailer, adesso iniziava il film; quando uscii dal cinema, mi arresi al cellulare. Mia madre: – È a casa mia -, e il respirò restò regolare, il cuore non accelerò; – Tientela -, pronunciai ad alta voce, – Tientela tu -, ed entrai in una pensione; – Sola? -, mi accolsero, e non risposi, pagai in contanti. Sola; mi cercai nello specchio dell’ascensore: ero lì. Non moglie, né madre, né figlia, ma Betta. Elisabetta: bello spettacolo.
Fino all’età di otto anni, ero esistita. Me lo ricordo chiaramente, mi ricordo la sensazione d’esistere; m’è rimasta la memoria precisa della mia presenza in un posto, nella casa, nel mondo. Me lo ricordo, ne sono sicura: esistevo. Poi è arrivata mia sorella. Poi è nata lei e ho iniziato a sparire, non più figlia ma sorella, non più Betta ma apprendista madre d’una neonata che mi ficcavano tra le braccia, non più sola davanti alle mie torte di compleanno, non più, mai più. C’era lei e poi c’ero io, c’era il suo sonno da sorvegliare, c’erano i suoi biscotti da finire, da ricomprare; nel vassoio di dolci della domenica, la mia pasta non c’era più: c’erano altre paste, tutte diverse. Potevo scegliere tra quelle: avevo smesso di essere un pensiero prioritario, ero diventata una tra tanti, una di loro. Mia sorella che cresceva era l’essenziale, aveva usurpato ciò ch’era stato mio; io che sparivo lenta, invece, ero il contorno. Ebbi dieci anni, ne ebbi quattordici, sedici, mi espansi e ruppi le dighe dei miei abiti da figlia. Ebbi diciotto, vent’anni e a mia sorella non ci pensavo più; mi sforzavo di rendermi visibile in mezzo ai ciechi, guardatemi, vi prego; ebbi ventun anni, poi, ventidue, e mi parve di percepire in me una densità diversa, come il vapore che solleva il coperchio nell’attimo che precede l’ebollizione. Fu allora che mia sorella morì, un incidente in motorino e la consegnammo al cimitero, una parabola dalla sella alle strisce pedonali e il suo corpo finì a terra, finì mentre il semaforo dal rosso si decideva a passare al verde. Avevo ventidue anni quando la piansi, quattordici anni d’una vita con la luce puntata addosso conclusi in una chiazza scura in mezzo alla strada, avevo ventidue anni e tutto – università, amori, sesso che la pillola aveva iniziato a liberare –, tutto fu messo tra parentesi da una fine non mia. Non c’ero più, gli studi non c’erano, Antonio non voleva fare più l’amore; povera creatura, mormoravano, quando m’accoglievano. Non mi chiedevano come stessi, non mi chiedevano di me, se fossi sicura della laurea in lettere. Non: sei innamorata davvero?, come va l’emicrania da progestinico? Niente, mi vedevano e già sospiravano, povera creatura, un’esistenza appena iniziata, quattordici anni soltanto aveva, quattordici, e non vedevano i miei ventidue, non vedevano me. L’ho detto: non c’ero. Volevo far l’amore, passare da lettere a giurisprudenza, volevo smettere la pillola e far figli, ma a chi potevo dirlo? Chi m’avrebbe dato ascolto? Esistevo, lo giuro, ma mi vedevano? Lo sapevano? No, posso affermarlo con certezza; eppure non ero morta io. Mia sorella era morta, non io, io ero viva.
Dopo il messaggio di mia madre – non risposi, volevo che stavolta s’accorgesse della mia assenza, volevo che si voltasse verso il buco che avevo lasciato – non mi cercò più nessuno. Restai sola a fare il conto degli anni, del tempo – sottrazioni, addizioni, moltiplicazioni che facevo con le dita, per paura di restare con le mani che si toccavano perché non avevano più nulla da prendere – e finalmente mi fu chiaro: non dalla morte di mia sorella avevo iniziato a sparire, ma dalla sua nascita. Poi, anno dopo anno, m’ero assottigliata, ero diventata trasparente mentre organizzavamo le sue esequie, ero il vetro appoggiato sulla cassa che conteneva i suoi resti, vetro termico, frigorifero per ritardarne la decomposizione, la scomparsa definitiva. La sua. Ero diventata trasparente allora, non più Betta, ma sorella, non figlia, ma sopravvissuta, potevi essere tu e invece è toccato a lei, poteva capitare a te e invece eccoti che cammini nel corteo funebre, eccoti sana, memoria vivente d’un’assenza che mai avremmo voluto dover considerare. Troppo poco per occupare due posti, troppo simile e troppo diversa da lei per compensarne la mancanza. La maternità – concepire Lucia, accettarne la presenza, accoglierla e portarla in processione come una santa – guardatela, è figlia mia, vedete che ho fatto! –, m’aveva dato l’illusione del riscatto. In quel momento avevo creduto di tornare a esistere, ma, di nuovo, non Betta ma madre; non io, ma mia figlia. Lei c’era – come sta la bambina? Cresce? Dorme? Oh, cammina! –, io no. Ci si era preoccupati di me durante la gravidanza, ma non ero io, era il mio ventre, non il corpo mio, ma quello della creatura: ero un funzione, un involucro. Nient’altro. Sarei esistita per nove mesi soltanto, non di più: ecco il mio destino.
Restai lontana da casa per un giorno intero; l’indomani mattina, tornai. Andai a riprendermi la bambina per la stessa ragione per cui l’avevo abbandonata: se non l’avessi fatto, le sarebbe toccato ciò ch’era toccato a me, e non più Lucia sarebbe stata, ma orfana d’una fuggitiva, non più figlia, non più lei, ma disgraziata, ma povera bambina, povera donna. Per questo tornai, suonai alla porta di mia madre e lei non sembrò stupita, né in collera. Era tranquilla; mi fece entrare, la bambina dormiva: la mia mancanza non l’aveva turbata. Non c’ero stata, non c’ero: nulla di nuovo. Mi sedetti al tavolo della cucina, al posto che sempre era stato mio e mia madre no, lei si mise al posto di mia sorella, di mia sorella morta, se lo prese aggressiva, se lo prese prepotente: era un posto, era una sedia, era spazio di casa sua. – Perché sei scomparsa? -, chiese, e io le dissi che avevo fatto il contrario di scomparire, che avevo voluto farmi vedere, tornare a esistere nella mancanza. Che avevo preteso d’essere cercata, guardata, non c’è, quindi c’è stata, non c’è, allora è stata qui. Le dissi della tragedia di essere niente, di essere nessuno. Le dissi del male che faceva sentire dolore quando nessuno ti sapeva spiegare come curarti, perché si cura un corpo, si ricuce una ferita ma non il nulla. E io ero il nulla; andandomene, avevo voluto essere il pianista che abbandona il palco e richiami con gli applausi per il bis. Andandomene, avevo implorato applausi. Ma il teatro aveva taciuto. Vidi il volto di mia madre corrugarsi, gli occhi diventarle piccoli e le labbra scontornate; la vidi uscire dalla faccia di madre, la vidi abbandonarla – fuori dalla maschera era orribile -, la vidi più vicina a me. – T’inganni. Quella è finzione. Il pianista suona e poi se ne va. Una madre no, una madre suona sempre, suona tutti i giorni, non smette mai, e la sua musica diventa sottofondo, al punto che ti scordi ch’è lei a produrla. T’inganni, se pensi che sparire ti renderà visibile. Chi scompare lascia un vuoto -, fece una pausa e riuscii a guardarla negli occhi, più respingente di prima. – E un vuoto, prima o poi, lo riempi d’altro. E di te non resta niente -. – Ma sto male -, provai a replicare, – Soffro, ma nessuno sa aiutarmi, nessuno sa curarmi. Soffro e non si vede -, e mia madre si spazientì. – Soffri? Allora esisti -, e in quel momento mia figlia pianse, nell’altra stanza, la sua voce insopportabile sovrastò le parole di mia madre. – Soffre, quindi esiste. Va’ a farla tacere, così c’è più spazio per noi -.