Le prime parole che ho imparato a leggere sono state quelle che componevano il nome di un albergo: Hotel Millefiere. Trovavo questa scritta stampata sul retro dei piatti di casa, ricamata sul taschino degli accappatoi e poi sulle penne, sui bloc-notes, sugli asciugamani bianchi che ci portavamo al mare, e che mia madre distendeva con cura sugli scogli. Imparavo a decifrare la lingua, mettevo insieme i suoni e li trattenevo tra le labbra e i denti, e intanto pronunciavo il nome di quell’edificio che non sapevo immaginare, ma che mi era diventato famigliare. Scandivo: – Hotel Jolly Fiera -, ricopiavo le lettere una a una, occupando tutta la pagina di una rubrica telefonica che ne riportava il logo in copertina, ed ero gelosa di quell’oggetto, perché come gli asciugamani, come le tazzine da caffè, come tutto il resto, era un regalo di mio padre. Tornava da un viaggio e mi chiamava, – Martina, indovina cosa ho portato! -, e a volte era tardi e stavo già dormendo, allora lui veniva a svegliarmi, accendeva la luce della mia stanza, irrompendo nel mio sonno di bambina, assoluto e privo di erosioni. – Chiudi gli occhi -, mi ordinava, e io facevo fatica a tenerli aperti, gli occhi, ma ero felice, tendevo le braccia al suo giaccone umido, che sapeva di sigarette e di fuliggine. – Chiudili, altrimenti non vale! -, ripeteva, e mi allineava sul letto le penne nuove, i flaconi di lozione da bagno, le saponette avvolte nella plastica trasparente, i quadernetti. – Questi li puoi usare a scuola -, suggeriva, e più lui era entusiasta dei suoi regali, più mi sentivo amata, considerata. Quando mi rimetteva a letto e spegneva la luce, il suo odore mi si era attaccato alle mani. Fissavo un punto nel buio e cercavo di riaddormentarmi, ma le voci dei miei genitori, in cucina, me lo impedivano; in quei momenti, desideravo soltanto alzarmi, rovistare nel borsone da viaggio di mio padre, per scovare i doni che non mi aveva mostrato e poi togliermi il pigiama, andarmene a scuola. Invece, restavo nel letto, mi lasciavo sfinire dal rimbombo del cuore e speravo che nessuno riuscisse a sentirlo, a parte me. L’indomani mattina, facevo colazione con dei biscotti ricoperti di cioccolato, mezzo sbriciolati e imballati singolarmente: anche quelli me li aveva portati lui, anche quelli recavano la stessa scritta, sulla confezione.
Mio padre faceva il rappresentante di commercio; vendeva lampadari, lumi da comodino, piantane. Ogni volta che entravamo in un supermercato, o in uno studio medico, o in casa di qualcuno, si guardava intorno, si toglieva gli occhiali e poi scuoteva la testa. – Pessima illuminazione -, commentava, – Qui non si vede niente -, e iniziava a spiegare l’importanza di una buona sorgente luminosa, ma in realtà stava già cercando di vendere qualcosa, una rimanenza o un faretto totalmente inadatto ma che, raccontato da lui, sembrava la soluzione ideale per uscire dalla penombra. Viaggiava molto: una volta al mese, e in certi periodi anche più spesso, infilava le sue cose in un borsone e prendeva un treno, poi un aereo, andava in città. Alloggiava sempre nello stesso albergo da anni, quello che ci aveva fornito gran parte dei piatti e dei bicchieri in cui mangiavamo quotidianamente, quello il cui nome, vergato su carta da lettere e matite, mi aveva iniziata alla lettura.
Un giorno, quando avevo dodici o tredici anni, mio padre se ne andò col borsone in mano e non tornò indietro; non mi spiegò nulla prima di partire, né mi salutò in modo diverso dal solito. Non ricordo di essere stata abbracciata, per esempio, non ricordo una lacrima né un’ombra di rimorso nel suo sguardo; non rammento nemmeno di averlo visto partire, a dire il vero. Che sia uscito di casa come ogni volta l’ho dedotto dopo, quando ho aperto l’armadio dei miei e l’ho trovato sgombro, dalla sua parte, vuoto e sinistro come la bocca di un vecchio, mentre il borsone non era più al suo posto nello sgabuzzino. Se ne andò in città a comprare le cose che poi rivendeva, scomparve nell’albergo sulla tangenziale e non lo rivedemmo più.
– Tanto tuo padre non viene -, mi avvertì mia madre, una mattina di settembre, vedendomi seduta sul pavimento del balcone. – Dai, muoviti, andiamo a comprare dei quaderni nuovi, o la settimana prossima non potrai andare a scuola -, aggiunse, e capii che era vero, che il babbo ci aveva lasciati, che era finita l’epoca dei furti dall’hotel, travestiti da regali.
Dell’assenza di mio padre non parlammo quasi mai; fingemmo di scordarcene in fretta, ognuna assorta in una normalità faticosa, tutta in salita, priva di appigli e infestata di abitudini da ricostruire. Mia madre si sposò e scoprii che col babbo non lo era stata mai, ma proprio mentre quest’uomo estraneo ci entrava in casa e pagava un mutuo che l’avrebbe resa nostra, io mi preparavo a uscirne, a studiare all’università. Era l’estate dei miei vent’anni quando decisi di cercarmi un lavoro, più per riempire le fessure restanti di tempo libero che per una reale necessità; passai in rassegna ristoranti e gelaterie, tentai una settimana nel salone di una parrucchiera, poi capii che non ero fatta per le luci del palcoscenico e ripiegai sulle quinte. Forzai il caso e mi ritrovai, come apprendista stagionale, a fare le pulizie nelle camere di un albergo: l’Hotel Jolly Fiera. Prendevo un treno locale tutte le mattine, per arrivarci; scendevo alla fermata prima dell’aeroporto, percorrevo un breve tratto a piedi, rasentando il ciglio di una strada a quattro corsie, e poi seguivo la mia referente tra le stanze. Passavamo l’aspirapolvere sulla moquette stinta, cambiavamo le lenzuola, gli asciugamani, la carta igienica; tenevamo il conto delle saponette, delle penne di cortesia, delle bottiglie d’acqua nel mini bar. Durante la prima settimana, mi limitai a imitare i gesti di Olga, a parlare poco, a osservare molto. Mentre lei era di spalle, una volta, strappai un foglio dal bloc-notes e me lo misi in tasca; non rubai nient’altro, non una penna, non un asciugamani: solo un innocuo foglietto bianco, la prima pagina di un blocco degli appunti destinato a un cliente. Una volta a casa, la sera, lo guardai: il logo era leggermente cambiato, ma non abbastanza da essere irriconoscibile. Fissai quel rettangolo di carta sul frigorifero con un magnete: quella era la prova che mio padre era esistito davvero e che, da qualche parte, continuava a vivere. Mi domandai se tornasse ancora in quell’hotel, ogni tanto, se vendesse ancora lampadari, se avesse smesso di rubare penne e asciugamani da regalare a qualcuno, ma non ero sicura di voler conoscere la risposta. Volevo tornare da mia madre, volevo tornare indietro: quel posto non mi apparteneva.
Tuttavia, continuai ad andare a lavorare per tutta l’estate; giorno dopo giorno, assimilavo la logica di quell’albergo economico e senza pretese, modulavo la mia voce in funzione dello spessore delle pareti di cartongesso, imparavo a piegare federe e lenzuola, a cancellare gli aloni di vite umane dai vetri della doccia, per azzerare il disordine e preparare lo spazio al cliente successivo. Ero veloce, imparavo in fretta: Olga mi lasciava da sola e io mi prendevo la sua fiducia e ne facevo una passerella che mi portava dritta nelle vite di quegli sconosciuti che arrivavano e ripartivano, senza nemmeno vederci: eravamo meccanismi invisibili che riportavano le lancette di un orologio immaginario sempre alla posizione di partenza.
Alla seconda settimana di apprendistato, Olga e io già ci dividevamo le stanze; mi accanivo con rabbia sullo sporco, sulla polvere, aggredivo il bagno e poi, una volta finito tutto, non me ne andavo. Indugiavo soprattutto nelle camere dei clienti che si fermavano per più di un giorno; frugavo tra i vestiti, nei cassetti, aprivo le valigie per vedere cosa contenessero, quali esistenze nascondessero. Ci trovavo camicie stropicciate, perlopiù da uomo, farmaci scaduti, occhiali, biancheria sporca e giornali della settimana prima o riviste di automobili. Qualcuno lasciava i soldi, piegati in due in fondo alla borsa da viaggio, qualcun altro il biglietto da visita, bene in vista sul comodino; non prendevo niente, guardavo e basta, poi rimettevo tutto a posto e uscivo. L’indomani, ricominciavo e, più i giorni passavano, più aumentava il desiderio di passare il tempo – sempre più tempo – tra gli effetti personali di quegli sconosciuti. Annusavo i pigiami, cercavo di immaginare a chi appartenessero, e poi realizzavo che scoprirlo era facile, bastava aspettare oppure provare a guardare nel registro dei clienti, accedere ai loro documenti d’identità, poterli finalmente chiamare per nome. Iniziai a irrompere nelle camere degli ospiti senza avvertire, fingendo di essermi sbagliata e poi chiedendo scusa in fretta; sorpresi un uomo in mutande e camicia, seduto sul bordo del letto, un altro addormentato in poltrona, un altro ancora inginocchiato sul pavimento, che cercava qualcosa sotto il letto. – Oh, credevo non ci fosse nessuno -, mi giustificavo, ma non ero convincente e qualcuno dovette avermi vista ed essersi lamentato di me, perché un pomeriggio venni convocata dalla direzione dell’albergo. Immaginavo le accuse e non ero in ansia, non tentai di difendermi; ascoltai senza far caso alle parole che mi venivano rivolte, perché in realtà ero altrove, stavo studiando una strategia per non andarmene, per non farmi mandare via. – Perché l’hai fatto? -, mi chiese a un certo punto il responsabile del personale, – Cosa volevi, cosa stavi cercando, nella duecenteoventuo? Sapevi ch’era occupata -, e mi guardò con l’aria di chi non si aspetta una risposta, di chi ci ha già rinunciato. Chiusi gli occhi, cercai lo stesso punto nel buio di quando ero bambina e non dormivo. – Allora? -, incalzò. – Stavo cercando mio padre -, ammisi, – L’ultima volta che è uscito di casa, prima di sparire, era diretto qui, e volevo accertarmi che non fosse rimasto in una delle stanze -, spiegai, calma. In quel momento, uscì dall’ascensore uno degli uomini che avevo sorpreso nel sonno, il giorno prima: sembrava stanco, sembrava aver fretta. Era troppo giovane per essere mio padre.