Sono in ritardo -, no, cancella. – Sto arrivando -, già meglio, invia. Sollevai lo sguardo, lo schermo del telefono ancora illuminato, e mi fermai. Una bara stava uscendo da un portone, una cassa da morto enorme, lucida e poderosa come un mobile nuovo – comò, armadio, tavolo da sei, buono per le cene di Natale – e già pronta a marcire sottoterra. Vidi i becchini piegarsi sulle ginocchia e spingerla nel carro funebre, – Quanto pesa -, ansimò uno, – Quanto pesa questo qua -. Erano cinque uomini e una donna, cinque uomini robusti e una donna piccola, il volto determinato di chi non ha paura di chiuderti dentro e pulirsi le mani sui pantaloni. – Stavolta abbiamo proprio rischiato di farlo cadere -, commentò, e non c’era ironia; si sedette sul bordo dell’auto, la bara alle sue spalle, dentro c’era un corpo che aveva rischiato di fracassarsi al suolo, pezzi di legno e un abito nero ancora impregnato di naftalina, mani livide saldate tra loro, niente le avrebbe divise. Non ci avevo fatto caso: ci sono due binari nel vano che accoglie la cassa. È tutto studiato. Uno degli uomini era appoggiato al portone, mandava un messaggio dal telefono. Sembravano esausti, erano solo le otto e mezza del mattino e c’eravamo solo noi in strada: cinque becchini maschi e una femmina, un morto pesantissimo e poi me, non un solo parente, nessuno affacciato ai balconi, come quando scende le scale una sposa. Solo noi: quei sei e poi io. – Ce l’hai fatta -, dissi, sottovoce, e non sapevo se mi rivolgessi a me o al morto, poi di nuovo guardai i binari di ferro e la donna seduta, come in quelle foto delle vacanze, in cui la madre è appoggiata sul bordo del portabagagli dell’auto e distribuisce ai figli panini avvolti con la stagnola, nella piazzola di sosta d’una stazione di servizio. Non ci avevo mai fatto caso a quei binari perché, in quarantatré anni di vita, dai funerali m’ero sempre tenuta lontana. Dopotutto, era per sfuggire a un funerale che mi trovavo in quella città straniera; era stato proprio per non doverlo affrontare ch’ero partita, avevo comprato un biglietto ed ero partita. La mattina c’ero, il pomeriggio sparita, ero a Parigi. Parigi, oddio: era periferia, ma chiamiamola città, chiamiamola capitale. Ha un altro nome, ma tanto chi lo conoscerebbe? Chi sa leggerlo? Io no, io ancora no.
Il telefono mi vibrò in mano, non guardai lo schermo: sapevo chi mi cercava, sapevo chi voleva rinfacciarmi il ritardo. Era l’ultimo giorno del mio periodo di prova, era il giorno del giudizio: quella mattina avrei saputo se i Martini m’avrebbero tenuta o no, se sarei diventata la balia – dicevano proprio così, la balia – delle loro figlie o s’ero condannata a tornare a valle, recuperare il masso e issarmelo sulle spalle come una bara. Ficcai il cellulare in borsa, aspettai che la chiamata si esaurisse, inghiottita dai fazzoletti duri di moccio, dalla mappa dei trasporti, il numero di telefono di una macelleria che cercava qualcuno alla cassa. Una macelleria d’italiani, italiani come i Martini che cercavano un cane da guardia per le gemelle – cane femmina, capace di obbedire agli ordini: seduta, zitta, non chiedere mai. Italiani, come me. Quando fui certa che avesse riattaccato, recuperai il telefono e cercai: Martini, trovato. Cancellai il numero: non avrei mai saputo se mi avrebbero tenuta, se erano già pronti a restituirmi al canile – diritto di ripensamento, articolo difettato –, se avessero programmato di mollarmi in autostrada alle prime vacanze di scuola. Non volli sapere come sarebbe finita, non m’importava; delle storie lasciate a metà – discorsi spezzati, film abbandonati nel mezzo del secondo tempo, abiti imbastiti che mi si disfacevano addosso, coiti interrotti prima che fosse il momento – ero la specialista, ero l’esperta. Non si trattava, però, di discorsi spezzati in due come il pane, non c’era generosità né condivisione, in me. Non dividevo per offrire: rompevo per distruggere. Collezionavo incompiute, lucertole senza coda, oca che continua a correre, innaffiando il cortile di sangue, la testa con gli occhi ancora vigili, eppure vuoti nella mano di chi l’ha uccisa – nell’altra, il coltello. Dopotutto, ormai dovreste saperlo – è per quello che continuate ad ascoltarmi, vero? È la mia vedovanza che v’interessa, la possibile orfanità, lo so. Vi conosco, vi vedo –, dopotutto è per sfuggire a un funerale che sono qui. Per sfuggire al lutto, alla sfilata dietro il carro funebre, alla messa, alla gente con la mano tesa. La morte di mio marito non era affar mio, ma questo l’ho capito mentre me ne occupavo. Perciò me ne sono andata, quel filo non l’ho reciso, però. L’ho strappato coi denti e mi ha ferito le labbra; me n’è rimasto un brandello sulla lingua e l’ho sputato, via il filo, via mio marito, via tutto. Via la lingua: il francese proprio non mi riesce d’impararlo. Ah, proprio no.
Mi chiamarono una mattina, telefono che squillava in corridoio mentre leggevo i giornali del sabato. Era un lunedì, me ne ricordo bene, perché dovevo incontrare Maria, e Maria fa la parrucchiera. Non avrebbe lavorato, quel giorno, invece mio marito sì, mio marito era al lavoro. Non l’avevo sentito uscire, non ci eravamo neppure salutati; quando lui se ne andava, erano le otto: vi sembra un orario per salutarsi, le otto del mattino? Vi sembra un orario buono per vivere? Non lo è, e non lo era. Guardatemi adesso, invece, guardatemi interrompere un rapporto alle otto e mezza, guardatemi seppellire i Mancini nel cestino della memoria del telefono. Guardatemi, vi prego: vedete come sono diventata, allora ero un’altra. Mi chiamarono e stavo leggendo i giornali. Non risposi. Mi richiamarono ancora e, con la voce, sovrastai la suoneria, le parole di una canzone di Mina urlate verso il soffitto, l’oroscopo di due giorni prima sottolineato con la biro, vediamo se stavolta avete avuto ragione, vediamo se posso sbugiardarvi di nuovo, se possiamo litigare in pace, se posso bestemmiare. Dopotutto siete stelle, non madonne, non santi, non divinità da maledire per il telefono che squilla ancora, che non vuole arrendersi. Risposi col filo in mano, pronta a cavarlo dal muro, risposi e non dissi niente. Mio marito era morto. Mi dispiace, signora. Mio marito – un infarto – era morto, sono desolata, signora, mio marito – la riunione dove lo aspettavano non era nemmeno iniziata, non è iniziata mai – era morto. Mio marito era morto. Mandiamo qualcuno a prenderla? Mio marito – le pratiche funebri da risolvere come una griglia di parole crociate – era morto. Mio marito-morto.
L’agenzia di pompe funebri si trovava di fronte all’ospedale: Un momento, signora – solo allora mi chiamarono signora – mio marito era morto e loro si ricordavano di chiamarmi signora. Mi sedetti in sala d’attesa, ch’era poi come tutte le altre, come quella del ginecologo – bisogna pensare alla fecondazione assistita – come quella del dentista – il trapano che senti al di là del muro ti ottunde la ragione e porgi la carta di credito alla segretaria senza chiedere quant’è. Una sala d’attesa come quella della banca, quando vai a negoziare il mutuo, una sala d’attesa. Chissà se mio marito aveva pensato a tutte le volte in cui aveva aspettato, già seduto a tavola, che finissi di parlare al telefono, prima di morire. Chissà se aveva pensato a me. L’avevano trovato alla sua scrivania, gli occhi chiusi, il capo abbandonato sul collo. Forse, accanto a me non dormiva abbastanza. Al di là della porta, li avevo ascoltati parlare, le mani giunte strette tra le ginocchia, potevo vederli pure, la fessura era larga abbastanza da mostrarne i profili, da sovraesporne i discorsi: non c’è pudore nella morte degli altri. Parlavano di legno, d’un coperchio frigorifero, parlavano del caldo, dello stato di conservazione. Aspettavo il mio turno e immaginavo la morta – n’ero sicura: era una donna, era il cadavere d’una moglie, d’una madre: troppa facilità nel nominare il corpo, meglio esporlo o meglio di no, esponiamolo, nascondiamolo, teniamolo sottovuoto, congelato come un merluzzo, lontano dalla luce, guardiamo per l’ultima volta a cosa assomiglia una vita. Mio marito era morto, bisognava pensare al funerale, ma loro adesso parlavano di soldi, quanti soldi – migliaia: un’automobile, un viaggio in Thailandia, un vestito da sposa – poi la chiamarono per nome: Mara. Ecco, lo sapevo ch’era una donna. L’avevo detto. A quel punto, s’alzarono, sentii le sedie grattare sul pavimento, le voci si avvicinarono, allora grazie, allora va bene, nessuno diceva condoglianze, si dice ancora? Toccava a me, loro sarebbero usciti e sarebbe stato il mio turno. Cosa si risponde? Si dice grazie, anche a lei? Grazie e basta? Mentre me lo domandavo, mi alzai, ebbi paura: non volevo entrare, il rumore del trapano m’atterriva, la possibilità d’una diagnosi e l’impossibilità d’un figlio, la morte calcolata in migliaia di euro, di legno di mogano, di noce, di seta. Uscii, andai via: del funerale di mio marito si sarebbe occupato qualcun altro – la madre, la sorella, i colleghi. Qualcuno, non io. In fondo, noi due non eravamo nemmeno sposati. E quella era un’altra storia senza fine, iniziata, portata verso la conclusione e poi spezzata in punta, lasciata monca. Senza fine, come il funerale necessario, e pure mai realizzato. In passato ce n’era stato un altro, di funerale disatteso. Senza fine, come il matrimonio progettato e da me stessa declinato il giorno prima delle nozze. – Non posso -, avevo detto a mio marito, avevo detto all’uomo che mio marito non sarebbe mai diventato, – Non posso sposarti, ma, ti prego, non ci lasciamo -, e il prete non ci aveva uniti più, l’abito bianco odorava ancora di nuovo, chiuso nell’armadio. Chissà chi l’aveva mangiato tutto il cibo ch’era previsto per il banchetto?Chissà se i fiori della chiesa erano poi stati riadattati a un funerale, quel pomeriggio? Non lo seppi mai: mi limitai a non concludere, ad arrivare vicina alla linea del traguardo e a franare, mettendomi a correre in senso contrario. Senza fine era la mia regola: era un gene ereditato, ma ancora non ne ero consapevole. Si può rifiutare un patrimonio? Ci si può strappare di dosso un lascito imposto come le mani d’un guaritore malefico? Non lo sapevo, né volevo accettare l’evidenza, ch’era un neo in mezzo alla faccia, ma seguitavo a evitare gli specchi.
Quel giorno – l’incompiuta del funerale di mio marito – partii; comprai un biglietto per Parigi e andai da mio padre, fuggitiva che insegue un altro fuggitivo. Anche la nostra storia era monca – acefala, priva di gambe, amputata con la ferocia del beccaio che mozza le zampe del capretto prima di avvolgerlo nella carta –, come il mio matrimonio, come la morte di mio marito, come quella di mia madre, che se n’era andata mentre aveva ancora tutto da fare: appuntamenti fissati, acconti versati, un uomo che vedeva di mercoledì e di cui non sapevo granché, un pacco che sarebbe arrivato di lì a una settimana, e che avrei aperto io. Se n’era andata in mia assenza mia madre, mi aveva spedita in Germania a finire l’ultimo anno di scuola, ed era morta. E io che avevo fatto, allora? Cosa? Avevo cercato di rientrare, di piangerla alla camera mortuaria, di piangerla distesa in una cassa troppo grossa per il suo corpo nervoso eppure frangile, e invece l’avevo pianta in un aeroporto, in una stazione ferroviaria, in un autobus a lunga percorrenza, i fumi d’un vulcano sconosciuto che intorbidavano il cielo, l’incapacità di spiegare alla famiglia tedesca che mi ospitava – scambio studentesco accettato per noia, per esasperazione, per odio giovanile e vorace per mia madre, mia madre quando non era ancora morta –, l’urgenza del lutto, il dolore e il sollievo di sfuggire al primo funerale nella mia vita. Non avrei mai pensato che sarei riuscita a sfuggire a un altro, di funerale, quello di mio marito, che poi mio marito non era. Non avrei mai pensato che avrei cercato rifugio in casa di mio padre, che poi mio padre non era, perché ero stata io a cancellarlo – diseredarlo, destituirlo, spaternizzarlo – quando aveva lasciato mia madre, quando se n’era andato in Francia, con un’altra donna che non avrebbe sposato – iniziare le cose e non finirle: ecco da chi ho preso, vedete. Sposato con mia madre e vedovo per sempre sarebbe rimasto, accanto a una donna nuova con cui aveva un figlio – un fratello avevo, non sapevo accettarlo e non l’ho mai chiamato fratello, ma l’estraneo, l’altro, quello. Un figlio senza il cognome suo, una moglie che non chiamava moglie, una casa in una Paese che un giorno avrebbe lasciato, diceva, come aveva fatto con mia madre e con me, con casa nostra. Eppure mi aveva accolta, quando ero andata da lui, alle spalle un funerale che avevo disertato, e adesso so perché l’ha fatto, adesso che ho chiuso il telefono ai Martini e ho mozzato anche quest’altra possibilità, quest’altra storia, adesso so perché mio padre mi ha presa in casa sua. È stato perché m’ha riconosciuta, perché siamo uguali. Si può rifiutare un’eredità, ma quella t’insegue, ti bracca, ti prende. Ti prende sempre.
Le cose che iniziano ad accadere e poi esplodono, spargono intorno il loro fluido vitale, e coi loro fumi avvolgono, condizionano, impediscono. Le cose che subiscono la spinta iniziale e si mettono a correre -la violenza dell’eccitazione per l’ignoto – a smuoverle, ad animarle, a imprimerne l’accelerazione: quello m’interessa. Addentare la pasta al cioccolato, sentire la crema esplodermi tra le arcate e il palato, poi abbandonarlo nel piattino, l’impronta dei denti e lo strappo rabbioso – mollica di burro, scia di saliva. Quello. Mordere, provare il piacere che sta nel cuore delle cose – un amore che rimane, un avremmo potuto, un sarebbe stato bello. Un corso di studi spezzato prima ancora di potersene annoiare: eccolo il nodo, il problema. Eccola la paura: stanata. Era tutto lì: iniziavo e non concludevo, atterrita all’idea di arrivare a destinazione e non riconoscermi più, chi è questa donna che assomiglia a suo madre, chi è questa, che s’è salvata dall’essere moglie, laureata, orfana di madre dietro a un carro funebre? Chi è? A questa domanda volevo s rispondere. Almeno su questo, non dovevo avere dubbi.
È la seconda volta che prego seduta sul gabinetto, le gambe divaricate e gli occhi fissi su una crepa nelle piastrelle del bagno. Non me la ricordavo così lunga, così nera e sottile. Assomiglia al capello d’una donna che si è spogliata per entrare nella doccia, ma quella donna non sono io. Mi passo una mano sulla testa – due centimetri di capelli al massimo, come accarezzare la moquette –; con l’altra mano, reggo il test di gravidanza, ma non lo guardo. Non lo guardo, fisso la fenditura nello smalto bianco e quella sono io, incrinata, e quella sono io, all’apparenza è solo una lesione di superficie, ma osserva meglio, e cosa vedi? La prima volta era stato facile: il test non aveva mentito, incinta, aveva detto, ed era vero, nonostante le mie preghiere, o forse grazie alle mie preghiere, ero incinta. Qualcosa aveva iniziato ad accadere dentro di me, ma era stato facile, non avevo dovuto far nulla: m’era bastato aspettare, aspettare poco e il medico m’aveva detto che non ero più incinta, che ciò che aveva iniziato a crescere era finito o non avrebbe mai avuto fine, secondo i punti di vista. Era stato un aborto spontaneo, e non ho mai saputo, né capito, se la mia preghiera è stata accolta o respinta, non l’ho mai saputo perché non so se ho voluto l’una o l’altra possibilità: fine e inizio si confondono. Ho desiderato senza saper cosa. Aborto spontaneo, m’aveva detto il medico in una lingua che non era la mia, e le cose s’erano interrotte da sole – non come il matrimonio che avevo reciso quand’era ancora germoglio, non come il funerale di mio marito, non come il lavoro dai Martini. Quando m’è successo di nuovo, come la prima volta, ho battezzato un pezzo di plastica e le mie dita con l’urina del mattino, ho pregato fino a perdere il senso delle parole, che sei nei cieli, e mi veniva in mente mia madre, sia fatta la tua volontà, e pensavo a mio padre, che prima non avevo voluto vedere e poi ero andata a cercare, come in cielo così in terra, e davanti ai miei occhi decine di amplessi con uomini che conoscevo appena, amplessi e preghiere, fa’ che rimanga incinta, fa’ che prenda. Fa’ che abbia un bambino.
La data del parto è prevista per la fine di maggio; ci vuole tempo, lo so, ma ogni giorno mi domando cosa succederebbe se maggio non finisse, se arrivasse alla metà e s’interrompesse per punirmi di tutto ciò che ho interrotto io, che le mie mani hanno interrotto, spezzato, strappato. Distrutto. Me lo domando, e il sollievo accucciato in fondo ai miei pensieri mi fa paura, ma cerco di non voltarmi a guardarlo: chiudo gli occhi e vado avanti. In fondo, avere un figlio – metterlo al mondo, cacciarlo fuori da sé – è un inizio senza fine. Non sai mai come andrà: è qualcosa che vedi nascere, che vivi mentre accade e che non conclude, che non concludi, come l’amore con l’uomo che non ho voluto più sposare. Come questa vita che voglio, che furiosamente desidero, e che finirà, mentre crederò di averne ancora.