Mia madre usciva di notte. Se ne andava di nascosto, dopo avermi messa a letto. Spegneva la luce, chiudeva la porta della mia stanza e accendeva la TV nella sua; cercava di ingannarmi, ma la sentivo. La sentivo che non si coricava e andava in bagno, la sentivo che invece di lavarsi i denti e infilarsi il pigiama, si vestiva, si applicava le lenti a contatto – il rumore del flacone appoggiato sulla porcellana del lavandino, gli scrosci brevi dell’acqua, la caldaia che prendeva la rincorsa e s’avviava, mia madre che l’arrestava bruscamente. La sentivo tornare di là, scalza, di sicuro le pantofole le portava in mano; la sentivo spegnere la TV, fingere di mettersi a dormire: la luce non passava più sotto la mia porta. Credeva di confondermi così, gettandomi agli occhi gli indizi della vita ordinaria, mettendomi bene in mostra i sintomi dell’abitudine, contando sul divieto che m’aveva imposto d’alzarmi, d’uscire dal letto, una volta spenta la luce, barricandosi dietro quella legge casalinga che lei aveva imposto e che io rispettavo come un comandamento. Perché mia madre governava, mia madre regnava, mia madre m’aveva generata e io vivevo con lei, sola. Però dimenticava mia madre ch’era stata proprio la solitudine ad arrotarmi l’udito, non come un coltello da cucina, né come uno da macellaio, ma come un bisturi, quello che aveva inciso la pancia della nostra gatta, Antonia, per guarirla, e invece ce l’aveva restituita morta, addormentata in una scatola, anche lei col divieto d’alzarsi.
Era furba mia madre: non se ne andava via subito, indugiava prima qualche minuto davanti all’ingresso, poi apriva, tornava verso il corridoio per accertarsi che stessi dormendo – non sto dormendo, mamma, non dormo, ti sento – e solo allora se ne andava. L’ascoltavo scendere le scale, chiudere il portone, poi la perdevo. Mia madre usciva di notte: se ne andava di nascosto, credendomi addormentata, e non sapeva ch’io sapevo tutto – una figlia sa molto di sua madre, così come una madre sa poco di sua figlia –, e non sospettava che le sue fughe notturne avevano smesso d’essere per me un segreto. Dove andasse, tuttavia, non riuscivo a immaginarlo, ed era questo che mi toglieva il sonno. Una sera mi alzai, dopo ch’era uscita; andai nella sua stanza al buio, aprii gli occhi solo quando, entrando, mi resi conto di ciò ch’era una certezza già da tempo: mia madre non c’era, il letto nemmeno sgualcito, gli occhiali sul comodino. Ero sola, non fu una rivelazione. Vissi l’indomani, il giorno dopo ancora e quello d’appresso pregando, la bocca sempre piena degli avemaria che mi rigiravo tra i denti, come una caramella che cerchi di farti durare a lungo, perché sai che la fame tornerà appena lei sarà sparita, corrosa dalla saliva e dalla dimenticanza, dalla distrazione che te la fa ingoiare a tradimento, quando è diventata poco più di un’ostia. Al quarto giorno, ero ancora viva; mia madre pure era viva, e seguitava a uscire di notte. Tutte le notti.
Tornai a spiarla. Aspettai lo scatto lieve della serratura – attenta, stava attenta a non scalfirmi il sonno, ma non sospettava, non immaginava, l’urgenza di abbandonarmi vinceva sulla logica di madre. Contai fino a dieci, dodici, quindici, poi andai alla finestra, mi sporsi per vederla. Eccola, mia madre, eccoti, avanzi verso la luce dei lampioni, scendi dal marciapiedi, attraversi la strada in diagonale e non t’importa, non hai paura, sei una donna che ha lasciato sua figlia e se n’è andata. Niente ti trattiene, la prudenza l’hai dimenticata sulla sedia della camera da letto, insieme alla vestaglia, al pigiama, quello che hai finto d’indossare e che domani mattina infilerai in fretta, prima di venirmi a svegliare, le mani e la bocca ancora freddi di fuori, della strada che ti prende la sera e ti restituisce prima del suono della sveglia. Notte dopo notte, infrangere il divieto e alzarmi dal letto – spiarla da dietro i vetri, ispezionare le stanze vuote, cercando l’inganno – divenne un’abitudine e me la feci bastare. Poi, all’inizio di maggio, l’insofferenza mi prese come un morbo, la sentii invadermi il corpo e intorpidirmi la padronanza, la riconobbi che s’insinuava tra il dovere e la volontà, avvelenandomi la condotta. Peccare non m’importava più, chiedere perdono neppure, sicché una volta non seppi contentarmi di vederla, l’evidenza dell’abbandono mi deluse: aprii la porta dopo che lei l’aveva chiusa, il portone sbatté, tre piani sotto, e prima che lei potesse sparire nel buio oleoso che saturava la strada, scesi le scale, le andai dietro. Non avevo le chiavi di casa né il tempo per allacciarmi le scarpe: uscii in pantofole, l’uscio accostato soltanto, il portone pure, pregando dio, pregando una santa qualunque di ritrovarli aperti, ma senza speranza, non ne avevo bisogno. L’audacia mi aveva esaltato i riflessi: non temevo più niente, tutto era possibile, esistevo io soltanto, e io dovevo seguire mia madre, scoprire dove andasse. La tenni d’occhio da lontano: tirava dritto e io con lei: attraversava, attraversavo; svoltava, svoltavo, finché non la vidi sparire in un palazzo e mi venne da piangere, tornai indietro, percorsi a ritroso la via dell’abbandono. Ritrovai il portone accostato, lo spinsi, salii le scale, le pantofole sporche d’asfalto, il moccio sulla manica del pigiama; arrivai al nostro terzo piano e lì trovai l’uscio serrato dal vento o dalla mia negligenza, dal caso o dalla mia arroganza di fuggitiva in funzione materna, dalla mia boria incontenibile: che volevo da mia madre? Perché volevo sapere? Potevo davvero rivendicarne il diritto? Non potevo rispondere e mi pentii d’essere uscita, d’essermi alzata, d’aver disobbedito, così piansi più forte, piansi finché la mia vicina non uscì a vedere, a maledirmi, ad ascoltare la mia storia e quindi a benedirmi, pagnotta sfornata di notte e offerta senza merito, dono del cielo recapitato a un miscredente per ricompensarlo di non aver ceduto alla superstizione. M’accolse in casa sua, figlia d’un dio travestita da viandante, ma il dio non era mia madre, il dio era il suo segreto, il dio era la porta che le si apriva di notte e la inghiottiva in un appartamento che pure lui era una divinità, e la mia vicina era l’eletta, la prescelta, l’unica testimone d’una teofania, d’un miracolo. Un miracolo ch’era un abbandono, ch’era un tradimento, ch’era un atto impuro, giacché i portoni, gli usci, gli appartamenti non s’aprono da soli. Chi c’era dentro, pronto a prendersi mia madre? Un uomo, era ovvio, ed era quello – mistero, prodigio, apparizione divina –, quello soltanto che importava alla mia vicina. Quella verità – quella storia – le apparteneva di diritto, perciò mi teneva con sé, perciò mi preparò il letto nella vecchia stanza di suo figlio, perciò suo marito, il mattino dopo, uscì a comprare le paste, al bar della stazione: mi avevano trovata, ero cosa loro. Ero la chiave che avrebbe aperto un lucchetto prezioso: la curiosità si paga cara e a loro stava costando una notte d’ospitalità offerta a una figlia sconosciuta. Gli dei del pettegolezzo ne avrebbero tenuto conto.
Sentimmo il portone che s’apriva prima delle sette: era lei. Il marito della vicina l’aveva scorta dal balcone, – Viene -, aveva annunciato, – Viene, viene -, senza soggetto, e noi c’eravamo addossate alla porta, avevamo riconosciuto la fiacchezza del passo ascendente, avevamo provato a indovinarne le ragioni, l’origine: non aveva dormito? Era per quello ch’era spossata o era stanchezza d’altro? Quanto le era costato lasciarmi sola, quanto t’è costato, mamma? Quando fu vicina abbastanza, uscimmo; ci facemmo trovare in piedi sul pianerottolo, zitte, gli occhi puntati sul segreto, il giubilo dell’attesa finita, la solennità di chi sta per ricevere un comandamento. Lei ci vide e fece per voltarsi, per sfuggirci, per abbandonarmi di nuovo, ma io lasciai la mano della vicina come se volessi andarle dietro, quindi lei si arrese e ci raccontò tutto. Non pianse, posso dire con certezza che non ne aveva voglia. Non era addolorata, non era nemmeno in collera: era esausta, solo quello. Si sedette sul gradino più alto, la schiena appoggiata alla balaustra, e sgranò a uno a uno i suoi segreti, meticolosa e assente, come chi recita un rosario. Ci disse dell’avvocato Antinori, che per lei aveva dismesso la toga per accoglierla in pigiama, e la sola immagine ci parve blasfema, come se avessimo scoperto che, sotto la tonaca, un prete era uguale a noi, uguale a Michele, che a scuola si abbassava i calzoni per mostrarci le vene azzurre tese sul suo sesso deforme e minaccioso, uguale a mio padre, che non ricordavo più bene, uguale a quell’uomo che avevo sorpreso di spalle nel bagno del cinema, e che quando mi aveva vista aveva orinato sulle piastrelle del pavimento. Ci parlò di tutto senza pronunciare una volta la parola avvocato: Diego, diceva, vado a casa di Diego, e quel nome proprio lo spogliava ancora di più, eccolo in mutande, come un esibizionista al parco, eccolo in canottiera bianca, seduto al tavolo della cucina, mia madre seduta accanto a lui e io da sola nel mio letto. Ci disse del letto di Diego, dell’umidità che gli mangiava la stanza, del cane che non sapeva accettare la presenza estranea di un’altra donna e guaiva senza darsi pace.
Mia madre usciva di notte. Quel giorno capimmo che non faceva la guardiana della stazione, che non aveva un amante, né illuminava le strade nere con un bagliore ronzante di lucciola. Non era una prostituta e non era neppure un’assassina. Mia madre usciva di notte: faceva la badante.
Aveva iniziato da poco. Vedevamo affiorare, sullo strato di vergogna della sua voce, la condensa del piacere di chi ancora non ha fatto l’abitudine, di chi ancora si lascia sedurre da un gesto nuovo perché sta imparando e sperimenta i piaceri dell’inesperto. Sono i piaceri degli esordi, quelli falsati dall’estraneità, che amplifica la percezione per via della distanza: era l’estasi dell’innamorata, quella che colava senza ritegno dalle sue parole, soprattutto quando diceva “Diego”, soprattutto quando faceva una pausa, come a pesare la possibilità di descriverci o meno la luce dell’alba nella sua camera da letto, la toilette del mattino, la più lieve, così diversa da quella tormentata e dolorosa della sera, quando dormire sembrava impossibile, quando il letto vuoto da una parte diventava una piazza dissanguata dal coprifuoco, una piazza immensa, piazza San Marco, piazza Duomo, piazza Satta, le ombre dei monumenti deformi e sinistre proiettate sul lastricato lucente. Mia madre parlava e godeva, rievocava e soffriva, e mentre ce lo descriveva – e lui non c’era – teneva quell’uomo tra le braccia, come un cane raccattato davanti a un cassonetto, come un gatto appena nato, rubato a una vicina di casa, come un bambino, una creatura covata a lungo tra gli organi vitali e le costole, tra l’intestino e la colonna vertebrale. E così era stato, a guardar bene, e mia madre non ci aveva detto niente, s’era tenuta il fatto tutto per sé, come la parte migliore del pane, solo che a nasconderlo – a serbarlo per disporne da soli, a custodirlo per puro ed egoistico onanismo alimentare – il pane s’era seccato, la mollica s’era indurita, la crosta era diventata amara.
Aveva iniziato da poco perché la malattia dell’avvocato Antinori – Diego: non mi riusciva di chiamarlo così – era recente, se di malattia si poteva parlare, se la parola malattia non era eccessiva e non lasciava piuttosto spazio a sinonimi più liquidi, più diluiti, ma non per questo più innocui. Non era infermo Diego, era abitato da un malessere che l’aveva posseduto come una iattura, che l’aveva colonizzato come fanno le formiche, che da una diventano dieci, diventano cento, diventano migliaia, impossibili da disperdere perché permeano ogni fessura, con la rapidità e la precisione casuale di un veleno. Da quando, sei mesi prima, sua moglie lo aveva lasciato – era uscita di casa una mattina e le ginocchia non l’avevano più sorretta: s’era distesa sull’asfalto per riposare e non s’era alzata più – da quando sua moglie lo aveva lasciato, anche lui aveva allentato la presa su se stesso. S’era infeltrito nella toga fino a scomparire, fino a sfuggirle, e s’era rifugiato dentro a un pigiama che non si toglieva mai, perché notte e giorno avevano smesso di alternarsi, perché il prima non s’accordava più col dopo e la vita era diventata un nastro di presente che deraglia e si srotola sul pavimento. Così Diego aveva smesso d’essere l’avvocato Antinori ed era diventato un vecchio, ed era diventato un corpo disteso su un letto, un corpo da lavare, da vestire, un corpo da tergere e da riempire d’aria soffiando nell’imboccatura, alitandogli tra le labbra, le dita aggrappate alla chiostra dei denti per impedirgli di mordere. Bisognava pregarlo, supplicarlo, bisognava urlargli di non fare come sua moglie, di non fare come chi muore; e questo – pregare, supplicare, urlare – lo faceva mia madre. Mia madre che s’era trovata in clinica mentre alla moglie dell’avvocato rimboccavano il lenzuolo fino a coprirle la faccia, sigillandola sotto il bianco del cotone prima di stagnarla nella cassa, mia madre che, quel giorno, aveva perso altro, aveva perso un figlio – sangue misto a un abbozzo di carne, forse di vita –, dodici settimane di cova inghiottite dal vortice dello scarico del gabinetto. Non sapevamo di chi fosse quel figlio, non ce lo disse, e nemmeno la mia vicina fu veloce abbastanza, nemmeno lei seppe assecondare il riflesso di aprire le braccia al corpo estraneo – quella notizia repentina, piombata nella nostra metà di campo senza preavviso, contro le regole del gioco che noi stesse avevamo inventato. Sentimmo quel fatto inatteso sfuggire alla trama del segreto di mia madre, lo vedemmo scivolare giù, caderci addosso, e anziché prenderlo al volo e smezzarcelo, sommandolo al resto del bottino, corremmo via, corremmo altrove, lo scansammo come per paura di restarne schiacciate. Un non detto era già troppo; due, non avremmo saputo come addomesticarli, e temevamo che avrebbero finito per aggredirci, sbranarci, divorarci, come fossero stati due cani da combattimento, riluttanti a sopportare un guinzaglio. Aveva perso un figlio mia madre, una creatura che non avrei visto mai, e l’aveva perso nel giorno in cui l’avvocato Antinori s’era ritrovato senza moglie, senza la ragione e privo della consapevolezza del vuoto, incapace di misurarlo. Era stata mia madre a calcolarne la superficie, una notte dopo l’altra, il ventre svuotato e le mani buone a stimare le assenze a spanne: via il bambino, avanti il vecchio. La maternità, in fondo, era una questione di peso. E quello di Diego, tra le sue braccia, a chiudere gli occhi era uguale a quello di un neonato: di notte piangeva, non dormiva, invocava sua madre. Sua madre, non la moglie perduta. Sua madre, la mia.
Mia madre esce ancora di notte. Credevo non lo facesse più, soprattutto negli ultimi anni, soprattutto da quando l’avvocato Antinori era morto e l’aveva lasciata sola, ingrato e umano come tutto, egoista e incapace d’immortalità come un uomo qualunque e non come mia madre avrebbe voluto o meritato. Mia madre esce ancora di notte: ho iniziato a sospettarlo da qualche settimana e non ci ho fatto caso, ho allontanato il pensiero e me ne sono andata a letto. Ho aperto gli occhi sul soffitto – nel buio, potevo immaginarlo soltanto: la certezza ch’era lì bastava a rassicurarmi –, poi ho allungato la mano a cercare mio marito. Non c’era, era sparito, dove sei?, ho acceso la luce e lui s’è portato una mano sul viso, la bocca contratta come il corpo di un’ostrica. – Dov’eri -, gli ho chiesto, e non era lui che interrogavo, era mia madre, non era lui che in sogno avevo visto altrove, era lei, era mia madre che usciva di notte, mia madre che aveva smesso alla morte di Diego, ma davvero aveva smesso? Hai smesso, mamma? Mi abbandoni ancora? mi lasci ancora per andare a stringere tra le braccia qualcun altro? Ho sentito mia figlia gemere, dalla culla, mio marito s’è sporto verso di me, il dito proteso verso l’interruttore, l’alito dolciastro di sonno. – Dormi -, m’ha detto, e non ho dormito, ho seguito mia madre che usciva di notte, ho seguito la sua immagine proiettata sul soffitto, che non potevo distinguere: l’ho fatto allora, e l’indomani, e poi ancora, perché non dormivo e piano piano m’acquietavo. Seguivo mia madre.
La notte scorsa figurarmela non m’è bastato più, così ho aspettato finché il respiro di mio marito non s’è intorbidato, e da trasparente è diventato opaco, scosso da vibrazioni intermittenti e animali. Mi sono alzata, mi sono chinata sulla bambina – viva, era viva –. sono uscita e ho camminato verso casa di mia madre. Verso casa mia. Volevo accertarmi che ci fosse, volevo sorprenderla addormentata in quel letto che lasciava intatto, in quegli anni lontani, e più le andavo incontro e più mi rischiaravo, più il mio corpo si scaldava, lubrificato dall’inquietudine e dal movimento, più le mie paure passate si dissipavano, tornavano a combaciare con la loro dimensione naturale, come ombre proiettate contro un muro, che diventano nette e minute man mano che avvicini la sorgente luminosa. Mia madre di notte non esce più, ho pensato, e l’avrei giurato, mani giunte e ginocchia a terra. Non è così: l’ho trovata in strada, seduta sul gradino del portone, il mio vecchio giubbotto di jeans sulle spalle e il mento appoggiato sul pugno. – Mamma -, le ho detto, e la mia voce era più un rimprovero che un saluto, più biasimo che sollievo di ritrovarla. – Mamma -. Lei mi ha guardata dal basso, senza alzarsi e l’ho vista che sorrideva, sorrideva come chi t’inganna o come chi ti conosce troppo bene e sa come mentirti, come chi non può fare altro che dirti il vero e offrire il collo alla lama del tuo giudizio. – Mamma, che fai qui? -, e mi è sembrata calma, ha risposto pronta: – Ti aspettavo. Non hai fatto troppo tardi, per fortuna -. Mi aspettava: mia madre esce ancora di notte e mi aspetta, aspetta me, il mio arrivo, la venuta di sua figlia, e dietro le spalle ho sentito il muro. Non avevo nulla da dire, ero indignata per la mia lentezza. – Ti aspettavo e finalmente sei venuta. Perché di notte si esce per due motivi: se si ha un appuntamento, o se non si vuole più tornare.
Si è spostata di lato, mi ha fatto spazio, e mi sono seduta accanto a lei.