Con le dita strappava il pane. Teneva una pagnotta in grembo e vi ficcava dentro la mano, si accaniva nelle viscere di quella crosta vecchia, come un’ostetrica che ti fruga in corpo per estrarre la creatura. Mi concentrai sulla malagrazia di quel gesto per non vedere ciò che stava intorno, il corpo dove quel braccio, quel polso, quella mano stavano attaccati, perché non sta bene, perché non si fa. Non si guarda la miseria, non si guarda mai: ti attrae e ti ordina di voltarti, ti seduce con la sua voce dolciastra, ti chiama per nome – tutto conosce di te –, ma, se commetti lo sbaglio di Orfeo, è finita. Se ti volti, la miseria ti condanna. Un brandello di pane mi sfiorò la giacca e atterrò ai miei piedi: i piccioni si levarono come una nuvola bassa, a pochi metri da terra, poi si avventarono sul pane, le ali tese e scostate dal corpo, come braccia sgomitanti. Stava cominciando a piovere, l’autobus tardava e la gente s’impazientiva, non osava avvicinarsi alla pensilina della fermata, perché le mancava il coraggio di attraversare la nube di piccioni, perché non voleva, perché non poteva, la ripugnanza più forte d’un imperativo, il timore del contagio – la miseria s’attacca – più prepotente della necessità. Non voleva togliere il posto alla levatrice del pane, la gente. La donna – femmina era – lanciò di nuovo un lembo di mollica, stavolta verso di noi, e in un attimo altri piccioni arrivarono, richiamati dal suono del pane che tagliava l’umidità, richiamati dalla nostra paura, dal disgusto, e sentii la donna emettere un verso acuto, come un grido di gabbiano. Uccello chiama uccello, simile chiama simile. La logica animale s’impone su quella umana. Quando vidi l’autobus in lontananza, la luce gialla del 96 che sovrastava le auto, che dominava i semafori, le insegne dei negozi, più aggressive nelle settimane prima di Natale, quando vidi l’autobus, provai sollievo, finalmente, e per la donna dei piccioni non ebbi più pena, un odio sconosciuto mi attraversò e mi spinse a voltarmi, a guardarla, ormai libera dai condizionamenti che prima mi avevano trattenuta. Allora lei si alzò e smise d’essere mano che rovista, allora lei s’alzò e la scoprii nuda sotto quella specie di blusa chirurgica che indossava. Allora s’alzò e da mano divenne cosce sottili, divenne ginocchia puntute, divenne bacino respingente, il sesso ch’era solo un’ombra nera che non vedevo, il sesso ch’era una cavità sotto la pancia, nascosta e disgustosa. Allora s’alzò e i piccioni assieme a lei, la vecchia s’alzò di scatto – vecchia: non avrà avuto cinquant’anni – e i piccioni s’agitarono, tempesta d’ali e di piume luride, pioggia di guano e quel loro tubare, tremulo e minaccioso. Allora s’alzò, panico d’uccelli e d’auto che frenavano per non investirci come gatti di notte, allora s’alzò e non ebbi più pudore: le studiai il corpo, la pelle, indifferente alla fine di novembre, i piedi nudi e la pagnotta secca in mano. Provai a figurarmi il seno, le spalle, la depressione del ventre fra le costole. Avrebbe potuto essere mia madre, avrei voluto – in quel momento -, fortissimo avrei voluto che lo fosse. Che la signora dei piccioni fosse mia madre. Accettarlo sarebbe stato più facile. Compatirla mi sarebbe riuscito meglio che amarla.
Avevo ventott’anni, ventott’anni compiuti da poco e un marito, ventott’anni e mesi di fallimenti addosso. Ne portavo il conto con la precisione d’una devota che incalza gli ave maria per concludere il rosario, sapevo quanti ne erano, ma fingevo noncuranza, dissimulavo l’inquietudine di chi ha iniziato a comprare i test di gravidanza in farmacie diverse, per non dare nell’occhio, per non farsi scoprire. Non volevo che gli altri sapessero la mia sofferenza – la mia scorta di fallimenti –, doveva restare una questione privata. Mia soltanto, ventott’anni e l’ossessione di un figlio, ventott’anni e l’impossibilità di averne, i test negativi che si accumulavano nel cassetto del bagno, io che ne sfidavo il giudizio, nonostante il sangue sulle mutande. È un errore, mi dicevo, il mestruo è uno sbaglio, una minaccia alla vita di questo feto che, inconsapevole, mi porto in corpo. Ma il test di gravidanza era impietoso con me, con la maternità che la sorte mi negava, col getto d’urina preciso con cui, mese dopo mese, mi ostinavo a benedire quell’oracolo, confezionato con cura per responsi monouso.
Le stagioni si esaurivano e seguitavo a cumulare disillusioni: le collezionavo assieme ai test interrogati invano, che gettavo con rabbia nell’ultimo cassetto del comò, sotto le lenzuola ancora nuove che m’ostinavo a lasciare intatte rilavando sempre le stesse, settimana dopo settimana, la speranza d’un coito vincente annidata nella trama sciupata del cotone, fede di convenienza nella forza generatrice della scaramanzia. Il giorno in cui mi trovai sotto la nube di piccioni, il giorno in cui desiderai che la donna seduta al capolinea degli autobus, davanti alla stazione, m’estraesse a forza dal suo utero di pane secco e mi riconoscesse figlia sua, quel giorno, prima di desiderarmi discendente dalla carne prosciugata d’una mendicante, di mia madre – la mia vera madre – avevo desiderato la morte. L’avevo invocata, muori, l’avevo immaginata, pianificata a posteriori; avevo ricostruito la mia vita a partire dal suo funerale, avevo visto la cassa spinta dai becchini nell’auto nera, avevo visto i fiori, avevo visto il mio cappotto, m’ero vista in prima fila, di fronte al prete, ad accertarmi che le campane suonassero a morto, a essere sicura che di quello parlasse il sermone, di vita eterna, una versione di mia madre che non doveva riguardarmi più. – Fa’ che se ne vada -, avevo pensato, mentre lei mi parlava, e immaginarla in un letto d’ospedale – no, in una camera mortuaria – m’era parsa l’unica via di salvezza, l’unico modo per farla tacere, per non dover ascoltare più la sua voce chioccia, che invece mi parlava di figli, del desiderio d’una gravidanza, d’un amore fertile come un traboccare di scarafaggi, guarda com’è facile, guardami mentre da una divento due. Guarda come m’apro, guscio di noce abitato, il talento della riproduzione mi appartiene e non ho voluto dartelo, figlia mia: serviva a me, tu che te ne fai? Perciò l’avevo voluta morta: perché mia madre a quarantasei anni il diritto di figliare non poteva rivendicarlo più. Quello d’amare nemmeno. E invece eccola a pretenderli tutti insieme, eccola diversa dalla donna dei piccioni, eccola già distesa, ma non per morire. Le sue gambe divaricate erano pronte a far passare un’altra vita: da quel nero poteva ancora levarsi un pianto di neonato. Dal mio, di nero, solo il vagito adulto d’una donna incapace di riprodursi, solo il picchiare intermittente d’un coito che non conclude.
Voleva il mio consenso, i ruoli ribaltati, come un’auto dopo un incidente, io che non potevo esser madre – che non sapevo: il mio corpo riottoso s’opponeva alla fecondazione – e mia madre che pregava d’acconsentire, che m’implorava come non avevo mai fatto, da figlia, con lei. Voleva il permesso, voleva che le dicessi va bene, d’accordo, figlia mia, d’accordo, madre mia, va’, e non capiva che avrei preferito lanciare un quattordicenne a tutta velocità su un motorino, piuttosto che accettare che mia madre si lasciasse ingravidare. Che avrei accettato con leggerezza di consegnare un adolescente alla morte – tuffi da un dirupo, guida in mezzo a una superstrada, dopo una pratica fatta sullo schermo d’un videogioco, alcool mandato giù con la cannuccia dei succhi di frutta nel tetrapack. Non capiva mia madre che l’oscenità non era saperla con un uomo, un uomo più giovane di me, i denti del giudizio che premevano sotto la gengiva e non la infrangevano, che il peggio era altro. – Perché non vuoi? -, si disperava, – Perché non vuoi che abbia un figlio? -, il volto devastato da una vecchiaia ineluttabile, – Perché non vuoi ch’io sia felice? -, e io non riuscivo a crederci, le sue lacrime m’infastidivano, insincere e fuori tempo. Non volevo ascoltarla, lei mi domandava e io non la riconoscevo, lei “ti prego”, e io altrove. Perché un figlio, perché questa cosa vuoi farla proprio a me, perché l’amore? A che ti serve, mamma, non puoi comprarti una borsa? Un cane di razza, un meticcio, una pelliccia di visone? Non puoi fare la madre?
Il figlio di mia madre è nato il giorno in cui avevo deciso di lasciare mio marito. Avevo previsto tutto nel dettaglio: pizza per cena, pochi piatti da lavare, dirglielo un attimo prima d’avviare la lavastoviglie, ci lasciamo, e fare in modo che il pianto dell’elettrodomestico s’insinuasse tra le sue domande e mi soffocasse le risposte, e fare in modo che la sua collera, che la disperazione, che la mia indifferenza al dolore finissero risucchiati dal tubo di scarico insieme all’acqua intorbidata. Non avrei potuto, non allora, lavarli io quei piatti: quel gesto, il contatto delle mie mani con la saliva di lui, che impregnava ancora le stoviglie, sarebbe stato una speranza, un modo per dirgli guarda, siamo ancora qualcosa. Guarda, questa è un’altra forma d’amplesso, di coito che non conclude, che spreca possibilità e ci lascia vuoti. Meglio evitare, meglio lasciar fare ogni cosa a una macchina. Se fosse esistito un elettrodomestico capace di gestire da sé la separazione, l’avrei avviato, caricato, programmato; gli avrei reso grazie, divinità onnipotente, incapace di piangere, di ritrattare, di lasciarsi convincere, di ascoltare. Era quella la mia vera paura: dover ascoltare, trovarmi a lasciare mio marito e poi a dovergli parlare, a dover trascinare in forma di discorso una fine che doveva essere un monologo, un ciclo della lavastoviglie, carico completo e risparmio energetico. Tutto avevo pianificato quel giorno: rompere con mio marito, via i piatti per scongiurarne il volo – lancio contro un muro per non sfregiare un volto –; dirglielo e andarmene a dormire, rimandare all’indomani il contraccolpo, sopprimere la collera, come un coniglio da forno. Invece, mia madre telefonò, le pizze ancora sulla strada di casa, mi telefonò ed era in macchina, era con quello che avrebbe potuto essere un mio compagno di scuola e che invece le aveva invaso la casa, l’utero, tutto. Le acque s’erano rotte, elettrodomestico rotto d’una madre, le acque s’erano rotte e lei rideva, avrebbe partorito in giornata e non sapeva contenere la gioia come non aveva saputo contenere l’amore. Quello intanto guidava, – Nasce oggi -, diceva, – Nasce adesso, nasce qui -, e io ascoltavo e basta, – Fa’ che muoia -, pensai, e in quel momento suonarono alla porta: le pizze, la cena, mio marito da lasciare, il mio matrimonio da spezzare. – Fa’ che muoia adesso -, e non sapevo più se parlassi di mia madre, del bambino o di quello che l’aveva inseminata, possibilità a lei concessa e negata a me, non lo sapevo più: dopotutto, se fossero morti loro due, se un incidente avesse emendato la mia esistenza dalla loro, io mi sarei presa il bambino, giocattolo che rubi dalla tomba d’un figlio d’altri, senza timore di profanarla, perché cosa ne sa un morto? Cosa ne sa una lapide di dio? – Fa’ che muoia -, e mi figuravo il neonato estratto livido e molle dalle viscere esanimi di mia madre, – Fa’ che muoiano -, e già il neonato tra le braccia lo avevo io, era figlio mio, datelo a me. In fondo, apparteneva a mia madre: non era quasi la stessa cosa? Non potevo prendermelo io, che di figli non ne avevo? Tu non ne hai bisogno, mamma. Tu hai già me: fa’ la madre, per una volta, lèvati il cibo di bocca e ficcalo nella mia, ho quasi trent’anni e la fame cieca di chi è appena venuto al mondo. Ho quasi trent’anni e d’improvviso vorrei essere io la vecchia della stazione che strappa il pane con le mani, che si priva del cibo e l’offre alla strada, e non si vergogna per aver partorito tutti quegli uccelli, tutti quei piccioni che, al posto dei figli, ha messo al mondo per averne cura. Come ha fatto mia madre; come non riesco a fare io.
Quel giorno è nato il figlio di mia madre. Non riesco a dire “mio fratello”, l’ovvietà di quella parola mi ferisce. L’ho tenuto tra le braccia – pesava come un cuscino, come una bambola ripiena di piume –, ho guardato in faccia mia madre e ho immaginato l’infamia del suo sesso che espelleva un figlio come si pronuncia una bestemmia. Quando sono tornata a casa, era quasi mezzanotte e avevo fame. – Il supermercato della stazione è sempre aperto -, ho detto a mio marito, – Andiamo a comprarci qualcosa, una pizza surgelata, del tonno in scatola. Del pane vecchio -, e lui ha rimesso in moto, ha guidato nel buio. Sotto la pensilina degli autobus, la donna non c’era e i piccioni neppure. C’ero io, c’era mio marito, C’eravamo noi due. Ancora per un po’, ci sarebbe bastato.