Il giorno in cui decisi di avere un figlio, mi comprai una pianta. Una piccola pianta di ciclamino in un vaso di plastica; la vidi mentre aspettavo, in coda alle casse del supermercato, allora feci un passo di lato, fuori dalla fila – torno subito, rivolta alla signora dietro di me. Torno subito, signora, mi ha sentito? –, mi precipitai sulla pianta e la presi in braccio. La strinsi al petto, bambino da calmare, creatura d’altri da domare come una paura o come una bestia. La fila intanto aveva continuato a scorrere, sicché non ripresi il mio posto, ricominciai l’attesa, ma non mi lagnai; dopotutto, adesso che avevo deciso di volere una gravidanza, l’esercizio dell’attesa sarebbe diventato una pratica quotidiana, un allenamento progressivo all’amore materno. L’avrei incorporata, l’attesa, letteralmente. Ne ero sicura, e ancora non sapevo quanto quella mia intuizione si sarebbe rivelata, allo stesso tempo, precisa e ingannevole. Veritiera e traditrice. Ignoravo la percentuale d’errore che iniziavo a covare, insieme al desiderio d’un figlio. È tutta una questione di margini, nei numeri e nei rapporti: l’imprecisione s’ispessisce man mano che ci si avvicina. La lontananza mette a fuoco i contorni.
Portare la pianta a casa fu faticoso; caricai la spesa nel portabagagli e non me la sentii di abbandonare lì il vaso: cosa sarebbe accaduto se si fosse ribaltato su un lato, seminando terriccio ovunque, tra gli yogurt e il flacone di shampoo antiforfora, tra il formaggio svizzero incartato e il pane precotto, ancora caldo di forno? Non potevo pensarci; provai a sistemare la pianta sul sedile del passeggero, allacciai la cintura per bloccarla, ma capii ch’era un errore appena misi in moto – incidente mortale, una donna perde la vita, eccovi i resti in prima pagina: studiateli, mentre fate colazione al bancone del bar! Cosa vedrete: lamiere, un corpo occultato a dovere, ma non del tutto. Guardatelo!, riconoscete qualcosa, un dettaglio, segni particolari? Osservate bene: c’è un corpo, una salma pronta da consegnare alle pompe funebri e poi c’è una pianta, una pianta di ciclamino disfatta, tra il sangue e quel che rimane d’una Peugeot 106. Mi fermai, accostai, presi la pianta e me la cacciai tra le gambe, la strinsi tra le cosce. C’era lei, tra me e il volante, tra me e l’air-bag se fosse esploso: incidente mortale. La donna alla guida teneva un ciclamino sulle ginocchia. Immagina se fosse stato un neonato, un infante, un figlio.
I giorno passarono e diedi acqua alla pianta senza scordarmene mai; vennero le mestruazioni e non il figlio, il ciclamino iniziò a perdere i petali – che hai, hai sete? Ti do troppo da bere, non te ne do abbastanza? –, così comprai un’altra pianta. Presi un altri ciclamino, lo piazzai accanto al primo – compensare la solitudine vegetale, in due starete meglio, vedrete, anche se l’aria dell’uno sarà viziata dal respiro dell’altro, anche se dovrete smezzarvi la luce: in due starete meglio, almeno saprete a chi dare la colpa, almeno saprete con chi prendervela. Con mio marito non ci arrendemmo: era solo il primo insuccesso, il primo seme ficcato alla cieca nella terra senza domandarsi se fosse fertile o meno, se avesse avuto acqua abbastanza, luce, se avesse avuto concime. Se in quel seme ci fosse qualcosa o se invece fosse sterile come un osso di seppia. Secco come un guscio. Ci riprovammo: tornammo a dedicarci al rituale della semina una, due, quattro volte a settimana. Smuovemmo il terreno e lo arammo, il sesso era poco più che questo. Scavare buche, piantare, ricoprire in fretta, pregare molto, pregare spesso. Passò il secondo mese e il mio orto continuava a tacere – orto, pianta in vaso, che differenza fa? –; mi ritrovai i jeans impregnati di rosso e di muco, mi comprai un’altra pianta, era un ficus: riproduciti, moltiplicati, figlia. Lo posai in cucina, invidia delle altre due, due mesi appena e già calve, già sdentate, belle e pronte per la vecchiaia: avevo guardato i loro petali cadere, seccarsi sul davanzale, creature ingrate, perché non proliferate, perché già iniziate a morire? Il ficus obbedì e figliò, prepotente come una gatta, raddoppiò di volume e presto fu rinvasato, fu spostato dalla cucina al soggiorno, dal soggiorno alla camera da letto. Monito, minaccia, cane da guardia: noi ci accoppiavamo e lui partoriva, noi ci misuravamo temperature, giorni fertili, l’angolo formato dai nostri corpi – acuto, inferiore a novanta gradi per favorire la presa del seme – e lui si espandeva sfacciato, offensivo. Una mattina, all’ennesima mestruazione – quanto seme sprecato –, dovetti trattenere l’impulso di sopprimerlo. Sradicarlo, strapparlo, lasciarlo morire. Come me. Come la mia speranza d’esser madre.
Nei mesi che seguirono, comprai una pilea, un’ortensia, bulbi di tulipano – per questi dovrà aspettare il momento buono, signora, altrimenti me li uccide. Chi li piangerà questi fiori mai nati? Comprai una monstera, il ficus figliò di nuovo, la mia camera da letto era diventata una sala parto e io non la puerpera, ma l’ostetrica, spinga, signora, respiri, foglie nuove del ficus, ci vuole un nuovo vaso, taglia, taglia qui, il cordone, taglia le foglie, i rami: quel ch’è di troppo lo buttiamo via. Di troppa vita si muore.
Quando rimasi incinta, casa mia era un giardino, una serra, un ricovero di piante da supermercato, piante affamate di luce che si arrampicavano verso il neon della cappa aspirante, che allungavano gli steli verso la finestra del bagno e che ingiallivano nelle parti esposte al muro, esposte al nostro letto, esposte a noi, Orinai sulla linguetta del test di gravidanza, accovacciata sul gabinetto, le orchidee turgide e sode sul bordo della vasca da bagno, le orchidee solide come non erano mai state le mie cosce. D’istinto, mi coprii, mi tirai su i pantaloni del pigiama, abbassai il coperchio e mi sedetti ad aspettare. Una linea – quanto tempo è che non do loro da bere? Staranno bene? Le foglie più basse mi sembravano sofferenti – due linee, incinta. Non mi faccio la doccia, loro hanno più bisogno di me, venite, bambine, vi porto nella vasca da bagno, e aprii il rubinetto, venite. Due linee, incinta, due linee: ero incinta! I bulbi del tulipano avevano attecchito, ci avevano messo un po’ e avevo temuto il peggio – non me li uccida! A chi? A me. Questi bulbi, questo seme, sono miei soltanto, non tuoi, questo seme non è tuo, nemmeno di mio marito è. Due linee, incinta; il fondo della vasca da bagno adesso era colmo d’acqua. Venite, mettete le vostre belle radici a mollo, crescete, non fate come me, come le mie cosce, come il mio ventre avvizzito. Chissà se resisterà abbastanza da accogliere un figlio intero, è facile seminare. Vedremo poi se nascerà qualcosa. Ero un vaso umido di terriccio nero, solo quello. Guarda le orchidee, guardale, che belle; mio figlio non sarà mai come loro. Mio figlio voglio che sia come loro, che prenda da loro. Non dal padre, non da me – oh, ti prego – non da me.
All’inizio, decisi di godermi il segreto: non dissi nulla della gravidanza; in compenso, andai a comprare un albero di limoni, lo installai nel mezzo del salotto. Era eccessivo, lo vedevo che soffriva nel vaso, come un piede che cresce in una scarpa dell’altr’anno, e averlo sotto gli occhi mi dava sollievo, siamo in due, siamo io e te, e l’altro era l’albero che non sopportava il peso dei limoni, oh, non li sopportava, gonfi e pesanti di vita sui rami magri. No, non lo sopportava, e anche io faticavo a sopportare quel peso nuovo in fondo alle viscere, quel peso che non volevo vedere – ancora non mi ero decisa a telefonare a un dottore, lo sente, signora? Questo è il cuore di suo figlio. Non volevo sentirlo, preferivo il silenzio delle piante, guardarle vivere, appassire, piegarsi verso la luce, guardarle riprodursi, figliare, foglie nuove ingrossate dal piacere, foglie vecchie e bruciate che strappavo senza pietà. Il giorno in cui mi decisi ad annunciarlo a mio marito – lui era seduto sul divano, si sporgeva per seguire le immagini in TV, filtrate dalle foglie e dai rami: ancora non ti sei arreso? Ancora ci provi? –, ne fu così felice che uscì di casa dopo cena, andò al chiosco della stazione a comprarmi un bouquet di fiori. Erano rose, erano peonie e orchidee, erano d’una bellezza ostentata e invadente; pensai all’albero di limoni, gravido di frutti che non avremmo potuto mangiare, pensai al suo dolore – portare un peso per dovere, averlo desiderato senza valutarne le conseguenze. Pensavo a lui, così gli andai accanto e, rapida, chirurgica, asportai ogni singolo frutto; – Cerca di star bene -, gli mormorai, via la sofferenza, via ciò che grava: eccolo il significato vero di sgravare. Ecco che ti libero, parto cesareo non programmato, eccoti spoglio; nudo ma vivo. Sei così bello adesso.
Attraversai i nove mesi senza pensare a mio figlio; fu un arachide, un’albicocca, fu una mela, un’arancia, fu una piccola zucca, poi una più grossa. Fu una femmina, ascolti il cuore, signora, guardi le mani, i piedi, la spina dorsale. Fu una zucca che non si rivoltava, non si metteva nella posizione per voler nascere, le radici bene affondate dentro al mio corpo; non voleva saperne di farsi estrarre, una zucca che non voleva essere colta, che voleva restare pianta, e soltanto allora mi accorsi di lei. Una zucca. M’immaginai le foglie, quant’acqua al giorno, quanta luce; andavo dal dottore, mancavano poche settimane e la mia bambina – il mio vegetale, ancorato in fondo alle budella – era seduta sulla via d’uscita, immobile, creatura da giardino, prodotto dell’orto. Mi prestai alle manovre dell’ostetrica, mi offrivo agli occhi neri delle ecografie e intanto compravo una kenzia, un potos, spostavo il ficus dalla camera da letto al bagno, dal bagno all’ingresso. Compravo un banano, un’agave – attenta alle spine! L’amore ti si conficca nei polpastrelli e poi, per liberarti, devi succhiare e sputare, trattenere e spingere lontano: ce l’hai la forza per farlo? Ce l’hai, adesso che ti porti una zucca in corpo? Comprai una begonia, una mammillaria, un’altra begonia; comprai una sanseviera. Casa mia era affollata, era satura di anidride carbonica, di notte: non potevamo più dormire, ma non m’importava. Loro dovevano vivere, attaccate ai vasi, aggrappate alla terra, guai a estrarle, guai a estirparle. E mia figlia pure, doveva vivere: sta così bene dentro di me – serra sono, vivaio, ho tutto ciò che serve: il sole e il cielo sono sopravvalutati. Perché me la volete togliere? Chi v’ha detto ch’è meglio rinvasarla? Ci sono piante che stanno bene laddove nascono, i vegetali sono stanziali. Mica come noi, mica come mio marito, che già ha un’altra.
Entrai in sala parto un martedì mattina. Tutto era stato programmato e mia figlia nacque nel giorno e nell’ora che stabilirono i medici – come ti scombino un oroscopo: segno zodiacale, ascendente, posizione della luna. Non il cielo l’ha voluta, non le stelle, non dio, ma un medico, un’ostetrica, spazio bianco nella tabella delle prenotazioni del blocco operatorio. Nella mia stanza d’ospedale, prima d’essere portata via – aperta in due come un uovo di cioccolato, all’interno una neonata, una zucca, mia figlia – notai una pianta. Cos’era? Sembrava un origano, foglie piccole, tonde, nei immaginai il velluto: aspettami, pensai, già sulla barella, pronta a consegnarmi, a consegnare la creatura, aspettami. Torno più tardi, torno svuotata, torno sdoppiata. Quando riaprii gli occhi – mia figlia era nata, estratta dalla carne, e io avevo avuto sonno, non avevo saputo accoglierla –, quando riaprii gli occhi, pensai alla pianta. Mi alzai – l’addome ancora gonfio: non me l’avevano asportata? –, mi alzai – dolore, sonno –, allungai la mano per toccarla. Era finta. Dura e fredda e asciutta come un morto e ne ebbi paura.
Tornammo a casa, e solo allora iniziai a guardare Elvira. La osservavo mentre dormiva, mentre urlava e non cercavo di pacificarla, la osservavo mentre si contorceva nella culla, i piedi incapaci di toccare terra, i piedi ignari – radici aeree, pianta recisa e immersa in acqua: non sai mai se germoglierà. Se morirà. La studiai, attenta, distante; la esaminai, ponderai, sorvegliai, la tenni d’occhio di lato perché non m’ingannasse – la vista frontale imbroglia, induce in errore e schiaccia la prospettiva. La vista frontale tradisce. La analizzai e capii: non una figlia, non una zucca, non un vegetale era, ma un fungo, un invasore, un parassita. Elvira – t’ho dato acqua, luce e concime per settimane intere, per mesi: sono stata terra, vivaio, cielo – era una pianta infestante, era un’erbaccia, era una malattia. Mese dopo mese, le mie piante morirono; piansi i ciclamini, piansi il ficus e la sua progenie, piansi la monstera, la pilea, la strelizia. Piansi il banano. Una a una le piante si accartocciarono, persero foglie con la disperazione impotente con cui si perdono i denti, si arresero alla fine con l’inconsapevolezza di chi si consegna alla demenza, all’oblio, alla solitudine. Loro perivano ed Elvira cresceva, Elvira mi pesava tra le braccia, mi devastava il seno, loro perivano ed Elvira assomigliava sempre di più a quella che sarebbe diventata. Azzardava un passo, azzardava mamma e mi stupivo: non sono io, mia figlia è un parassita, un fungo, mia figlia distrugge. Potevo accettarlo. Potevo assistere alle sue invasioni, stare a misurarne la portata: prendimi, figlia, occupa, divora, distruggi. Prendimi, non devi domandare, sono tua madre, ospite buono per essere colonizzato, mangiato poco a poco. Non resterà niente di me, resterai tu. Oppure, potevo prenderla in braccio come avevo fatto col primo ciclamino, quel giorno in cui avevo deciso che mi sarei riprodotta. Prenderla, cacciarla in un vaso di plastica, compratela! Prenderla, ficcarla nel terriccio, abbandonarla tra le altre piante, di fronte alle casse del supermercato, è in offerta, portatevela a casa! Io non posso più tenerla, non posso più: mia figlia mi usurpa, mia figlia mi espropria. Dilaga. Mettetela nei vostri carrelli della spesa, sventurato desiderio dell’ultimo momento, tra le confezioni di cioccolatini al caffè e le barrette di cioccolato, tra i preservativi e le chewing-gum alla clorofilla. Pagatela, ultimo articolo battuto sullo scontrino. Io mi prendo un vaso di basilico. Ricomincio di qua, lo sistemo sul davanzale e lo innaffio, mal che vada, saprò che fare delle foglie.