L’ultimo giorno della mia vita
Quel giorno, me lo ricordo benissimo, fu l’ultimo della mia vita. Non me ne accorsi subito, non lo vidi arrivare, come avrei potuto? Fu come quando i titoli di coda ti sorprendono troppo presto eppure ti danno sollievo, perché iniziavi ad annoiarti, la mano che teneva stretta la tua non allentava la presa e quel sudore famigliare t’infastidiva, avresti voluto asciugarti il palmo sui jeans ma non potevi, nemmeno il buio ti dava il permesso. Così venne l’ultimo giorno della mia vita, allo stesso modo banale, impossibile da prevedere, ma privo di colpi di scena, facile da dimenticare. Invece, non l’ho scordato, anzi ricordo tutto come se fosse appena accaduto: ciò che ci riguarda, per quanto privo di appigli, ci appare ogni volta abnorme perché ci rivela nella nostra risibile piccolezza. O forse non l’ho scordato per un motivo più semplice: perché dopo non sono morta; dopo sono rimasta viva, perciò adesso sono qui a raccontarlo. Quello fu l’ultimo giorno della mia vita, a partire da allora, niente sarebbe cambiato, niente si sarebbe mosso: non c’erano speranze. Sarebbe andata avanti così fino alla fine, un’esistenza che non sa concludere è una condanna peggiore dell’infelicità.
Accadde mentre uscivo dal lavoro. Era martedì, ero ferma al semaforo, l’insegnante delle bambine mi telefonava per la terza volta, – Sto arrivando, c’è traffico -, e la terza volta non era lei era mio marito, – Arrivando dove -, e solo allora mi ricordai anche di lui, del viaggio a Londra che lo esonerava dalle cure quotidiane, – Arrivando dove -, ripeté, senza chiedere, l’accusa nell’assenza d’interrogazione, la certezza della colpa nell’asserire senza faccia, solo voce, giudizio puro. Mi figurai allora le mie figlie, gli zaini che io stessa avevo scelto, che avevo comprato mentre loro litigavano, mentre Arianna piangeva, tendeva le braccia alla commessa per farsi consolare, per rimpiazzarmi, per farsi stringere al petto da un’estranea – guarda come ti nascono traditrici, guarda come ti abbandonano – e Teresa urlava. – Ti prego, mamma -, e si guardava nello specchio, – Oh, ti prego, almeno stavolta -, e avrei voluto sparire, no, avrei voluto farle sparire. Teresa e le sue urla, Teresa che quando piange si compiace del suo riflesso nel vetro del forno, nel retrovisore della mia auto, Teresa con quel nome odioso d’una donna che conoscevo appena, che detestavo come se l’avessi sempre avuta in casa, notti intere di sonno diviso da una parete, e invece no, e invece era la madre di mio marito. L’estranea che lo aveva messo al mondo e che avevo visto un paio di volte soltanto, una da viva e una da morta, vestita di nero e accigliata, come tutti i morti. Teresa. La commessa allora s’era presa mia figlia, l’altra, Arianna, incurante del moccio che le chiazzava il vestito, la commessa l’aveva sollevata da terra e se l’era premuta addosso, e m’erano sembrate oscene, lei e mia figlia, una bambina ingrata come un’adulta e un’adulta credulona come una creatura. T”illudi, bella mia, t’illudi se pensi che consolare la figlia di un’altra ti renderà migliore; illuditi pure, se t’aiuta, di figli non ne hai, di figli non ne avrai. Nessuno ti cederà mai il posto, nel tram, tranne quando sarai vecchia; ma adesso, adesso sei troppo giovane per la senilità e fuori tempo massimo per la gravidanza: brava, abbracciati mia figlia. Se fossi madre non lo faresti, quella che t’illudi sia bontà è la condanna definitiva della tua incapacità di figliare. – Mi senti? Arrivando dove -, insistette e misi giù il telefono, la voce di mio marito si spense nella borsa. M’immaginai le bambine davanti al portone della scuola, l’insegnante che telefonava al fidanzato per chiedergli scusa – tutta gente che scontava la pena del mio ritardo –, lui che rispondeva appena, che non s’era accorto di niente. Il telefono squillò di nuovo e lo ignorai; m’immaginai casa mia, noi tre sedute a tavola, la tv accesa per loro – la tv accesa per le bambine, i Sofficini bruciati in padella per le bambine – e il cellulare sul tavolo, appoggiato al mio bicchiere, lo schermo rivolto verso di me. Era confortante. Forse mi avrebbe scritto qualcuno; forse avrei scritto io al nuovo stagista, mi sarei inventata qualcosa: avevo quarant’anni ma gli piacevo, me n’ero accorta, me ne accorgo sempre.
Arrivai all’incrocio che precede la scuola e la riconobbi. Frenai e la chiamai, ma la voce s’infranse sul finestrino, il suo nome fu sovrastato dai clacson, dalle bestemmie, dalla suoneria del cellulare che non taceva, che insisteva, sta’ zitta, zitta. Una donna urlò come un cane che si fa investire e io urlai di nuovo il suo nome, una, due volte, poi ancora. Non poteva sentirmi, ma lo stesso urlavo: era lei. Quella donna era mia madre; e quello fu l’ultimo giorno della mia vita.
Stava attraversando la strada, tenendo per mano una bambina – le mie figlie che mi aspettavano, le mie figlie ch’ero pronta a cancellare, rinnegare: mai avute –, camminava guardando dritto davanti a sé, le auto non esistevano, il pericolo non esisteva, io nemmeno. Non esistevo da ventisette anni, da quando ero tornata da scuola e avevo suonato il campanello a vuoto, da quando mi ero seduta sulle scale e l’avevo aspettata, ma lei non era venuta. Era venuto mio padre, ore dopo, il pomeriggio alle spalle, il motorino che non gli partiva sotto la pioggia e più nessuna moglie cui dare la colpa, cui attribuire il torto d’un incidente, il merito d’avergli aperto ancora la porta di casa. Non esistevo da quando era sparita e non avevamo saputo più niente di lei: è in galera, avevano detto, s’è sposata un altro, è andata a Roma a fare l’attrice, sta in televisione, e io la cercavo sullo schermo. Vedevo le attrici nei film della sera, dopo le notizie, – Quella è mia madre -, affermavo, – Guardala: quella femmina bionda è mia madre -, e ritagliavo le fotografie dalle riviste delle sale d’attesa, le portavo a scuola, le esibivo. – Guardate di chi son figlia -, ed eran donne sempre diverse, erano estranee rosse di capelli, forti di petto come mia madre non è stata mai; erano giovani, troppo giovani per essere lei, erano troppo vecchie per i suoi trent’anni che non sapevo dire se fossero in eccesso o in difetto. L’età di mia madre era inevitabile come l’età di tutte le madri, l’età di mia madre non esisteva, non cambiava nel tempo, e anche se l’avesse fatto, ogni anno in più avrebbe spostato di un poco l’asse della senilità, e quarant’anni, cinquanta, sessanta sarebbero stati uguali ai trenta, no, che dici: ai ventotto di quando era scomparsa. Di quando se n’era andata e di me non s’era ricordata più, e gli altri avevano iniziato a parlare: è in Brasile, s’è fatta monaca, ma non come suor Cristina, che la domenica va a messa e il mercoledì la incontri al mercato, non come suor Cristina, che mangia i gelati affacciata al balcone con le altre suore e accarezza i capelli alle bambine come se volesse strapparli, non come lei, che l’estate va al mare con la sorella, col marito della sorella, e insegna l’avemaria alla nipote sordomuta. Non come lei, dicevano: mia madre era diventata monaca di clausura, non usciva mai. Perciò era sparita, perché se l’era inghiottita il convento, perché era diventata una delinquente, mia madre rapinava le casse dei supermercati, mia madre entrava di nascosto nelle case il sabato sera, quando la gente andava al cinema. Mia madre aveva fatto un figlio, due figli, mia madre aveva perso la memoria. Tutto era stata, tutto o niente. Non l’avevo mai cercata, non m’importava davvero. Anche perché, da quando era sparita lei, mio padre aveva preso il suo posto: m’era diventato madre, il motorino non l’aveva riavviato più, se l’era portato di peso a casa sotto la pioggia e lo aveva abbandonato, come mia madre aveva abbandonato me, come aveva abbandonato noi, come aveva abbandonato il suo destino.
Dico che mio padre mi divenne madre e non mi sbaglio. Iniziò subito, sin dall’indomani della sua partenza, della partenza di lei, mio padre s’installò al suo posto. Migrò dal suo lato del letto a quello ch’era stato di mia madre, si prese il suo comodino, il suo posto a tavola, la sua tazza da tè. Smise di bere caffè e si accomodò nelle abitudini della donna che ci aveva lasciati, smise di usare i suoi vestiti e, uno a uno, si appropriò di quelli di mia madre, dapprima i pullover, le camicette, dapprima i cappotti – mio padre spariva nel vuoto lasciato dal corpo di lei –, poi altro, poi tutto. Le perle, l’orologio d’oro, cavandolo dal sacchetto di velluto che da anni si sbriciolava, i braccialetti, gli anelli – lo zaffiro blu del fidanzamento, che a lei ormai stava solo al mignolo. Mi veniva a prendere da scuola e riconoscevo il tweed di una giacca, tornavo a casa e le ciabatte gli stavano piccole, ma lo stesso si ostinava. Il giorno del diploma di maturità, mio padre venne a scuola con la gonna e io piansi, gli altri risero e io piansi, il professore di latino pianse anche lui, – Mi dispiace così tanto -, disse, – Come mi dispiace per tua madre -, e non capii se quando diceva madre parlava di lei, della donna scomparsa, o di lui, di mio padre che ne vestiva gli abiti.
Gliene ho sempre voluto per questo, non a mio padre, sia chiaro, mio padre l’ho soltanto voluto indietro, l’ho voluto per anni. Con mia madre ce l’avevo, con lei, così tanto che l’avevo decisa morta, stroncata da un male innominabile, finita da un infarto, da un tumore che le ha mangiato il cuore, i polmoni, investita da un autobus, in coma, il viso gonfio e le gambe assottigliate, la bocca livida e gli occhi pure, palpebre viola che s’aprono ogni tanto e che non vedono. Morta, era morta: per questo quando la rividi fu l’ultimo giorno della mia vita. Perché i morti l’incontri quando muori, perché i morti non se ne vanno in giro un martedì pomeriggio, i morti non ti attraversano la strada, mentre stai andando a prendere le tue figlie da scuola. Era lei, ne ero sicura; la mia vita, quindi, doveva essere finita. Non ero più in ritardo, non avevo più figlie, più marito. Più niente. Mia madre era tornata e io avevo smesso di vivere.
Invece non sono morta. L’ho creduto per anni, ma non è andata così, mi sono sbagliata. Ho accettato la presenza di mia madre giorno dopo giorno; prima la incontravo e mi ammutolivo, i morti non risorgono eppure eccola davanti a me. Mi parlavano di lei e negavo, vi sbagliate, non è mia madre, mia madre era mio padre e mio padre se n’è andato da tempo, a mio padre porto i fiori ogni tanto, quando mi ricordo dove sta davvero, quando non mi perdo tra i viali del camposanto – non sono tutti uguali? Non è difficile ritrovare una fotografia? Adesso no, adesso ho imparato: la chiamano per nome e la chiamo per nome, come un dio in cui non credi e che pure gli altri pregano, come un Paese che non hai mai visto, che sta sulle mappe ma non sai bene dove; annuisci e basta, pronunci quel nome e non significa niente, e significa qualcosa che ti sfugge, ma non importa.
Quel giorno, me lo ricordo benissimo, fu l’ultimo della mia vita; una vita che mia madre m’ha dato, poi m’ha tolto e alla fine m’ha restituito. Come un dio in cui non credi, e che pure ha potere, come il nulla che ci caccia a forza nel mondo e un giorno viene e ci chiude gli occhi, senza averci avvisato. Così è. Così sarà.