Bisognava parlare piano. Mormorare, dirsi le cose a bassa voce, o mimando le lettere con le dita, alfabeto muto. Qualche volta, ci scrivevamo: su un bloc-notes, domanda e risposta, interi dialoghi, sceneggiature già pronte d’un teatro che non apriva mai il sipario, che non ci svelava e ci teneva nascoste all’ombra delle tende di velluto di casa sua. Altre volte, ci avvicinavamo così tanto – la distanza abbassa il volume – che potevo vederle le cicatrici della varicella sulla fronte, la peluria bionda che le cresceva sulle guance e un neo minuscolo sul sopracciglio destro. Muovevamo appena la bocca e quello era parlare, e quello era tutto. Sedevamo l’una accanto all’altra, studiavamo sul tavolo della cucina, giacché la sua stanza si trovava accanto alla camera da letto della madre, e la madre dormiva. Riposava, così diceva. – Mia madre sta riposando -, e le sue parole erano un soffio, ogni volta mi alitava in faccia quella notizia, ch’era già una certezza da tempo, come fosse stata una novità; io l’annusavo, il suo fiato era tiepido e sapeva di Big Babol, – Va bene -, sussurravo, e già ci veniva da ridere. A casa di Teresa, ridevamo molto; ci coprivamo la bocca con le mani e ridevamo, soffocavamo così la vertigine del divieto, dell’imposizione, casa sua come una chiesa, il corridoio come una camera mortuaria. Zitte, dovete star zitte!, sua madre sta dormendo, distesa in un letto come un corpo di una nonna nella cassa, come una vecchia pronta per il cimitero, come Nuccia, quando se n’era andata e le avevano fatto un funerale bellissimo, con la banda, sembrava la festa di paese. Avevo chiesto a mia madre di portarmi a vederla, a vedere Nuccia nella bara, e lei non aveva voluto; – Zitta, sta’ zitta: c’è una persona morta di là -, e di là era l’appartamento di fronte al nostro. Quando era viva Nuccia, riuscivamo a sentire le sigle di tutti i programmi che guardava in tv, e così sapevamo che stava per iniziare il telegiornale, la sera, e così capivamo ch’era ora di cena. – Zitta, sta’ zitta -, e col pollice e l’indice mia madre mimava il gesto di chiudermi le labbra. – Zitta, Nuccia sta riposando -, ma quella era morta, non riposava: si era spenta, esaurita, finita, e non si sarebbe comunque accorta di niente. Sta riposando: erano le stesse parole che usava Teresa per parlarmi di sua madre, sua madre ch’era viva, ch’era nella sua stanza. Dovevamo far piano, qualunque rumore avrebbe potuto disturbarla, qualunque interferenza avrebbe potuto svegliarla. Pensa cosa sarebbe successo se a svegliarsi fosse stata Nuccia, tutta vestita di nero e ficcata a forza nella bara che ho visto solo chiusa, mentre se la portavano via da casa. Pensa se avesse urlato mentre se la portavano a spalla giù per le scale, mentre usciva dal portone e la gente applaudiva, applaudiva la cassa con Nuccia dentro. Che spreco, che spreco il proprio funerale, non ci si può nemmeno godere lo spettacolo. È tutto per gli altri, è sempre tutto per gli altri.
Per la madre di Teresa stavamo zitte; non l’avevo mai vista in piedi, forse in fotografia, ma non ne ero sicura, e non riuscivo a immaginarla. Era così diversa da mia madre, mia madre ch’era verticale, mia madre ch’era rumorosa, ingombrante, mia madre che odorava di detersivo da bucato, mia madre che urlava, che insultava, che minacciava, mia madre che piangeva davanti a una telenovela e poi mi sgridava perché volevo sapere, perché ero impicciona, dimmelo, ma’, che ha fatto Taylor, che ha fatto Ridge, ma non avevano figliato? Era così diversa la casa di Teresa da casa mia, casa mia dove la tv regnava, entravi e lei già ti giudicava, gioco a premi, telegiornale, pubblicità di un bambolotto, di un lassativo, di un detergente per lavare i piatti, chi vuol essere miliardario?, e io che non sapevo rispondere, domanda da cinquecentomila e non ne avevo idea, ma mia madre insisteva – Rispondi! –, e si spazientiva. Facevo la scuola media e già mi facevo espellere da un programma ch’era appena iniziato, avevo dodici anni e la televisione mi condannava. – Alza, alza il volume, questa la so -, e litigavamo, mio fratello con la voce da maschio, mia madre che credeva di cantare come Laura Pausini e diventava rossa, sbagliava il ritornello e ci riprovava. Tanto Nuccia era morta, a chi avrebbe potuto dar fastidio? Casa di Teresa era l’esatto contrario, a casa di Teresa la tv era spenta e noi parlavamo sussurrando, ci mordevamo le mani per non ridere e una volta lei, Teresa dico, se l’è fatta addosso. Ha talmente trattenuto il riso che non ce l’ha fatta più e l’ho vista, inginocchiata sulla sedia della cucina, il quaderno di geometria aperto davanti e io che ridevo premendomi le mani sulla bocca. Eravamo silenziose, lei e io, l’affanno e poi quello scroscio leggero, innocuo, come le fontane del presepe: era lei, lei che orinava sulla sedia, che impregnava i jeans, il cuscino, l’urina che non si fermava, finiva sul pavimento, e noi che ridevamo di più. Venne il gatto, ci camminò dentro, e Teresa sembrava che piangesse e invece rideva, rideva così forte che mi fece passare la voglia.
Non mi piaceva andare a casa sua, eppure non sapevo sottrarmi, lo prendevo come un esercizio, come una punizione. Nemmeno Teresa mi piaceva, odorava d’aceto, sapeva di piscio di gatto e di Big Babol. Suo padre andava a caccia e in cucina tenevano teste d’animali attaccate alle pareti, e gufi, e corvi impagliati, le ali nere scostate dal corpo, gli occhi piccoli e crudeli, come gli occhi di tutti gli uccelli. E poi, era sempre buio, le tende di velluto impregnate di fumo di sigaretta, i tappeti, il pavimento scuro, opaco. Non mi piaceva, no. La verità è che ci andavo per sua madre, per quella donna distesa che non vedevo mai e che comandava, che imponeva silenzio, ci andavo perché la invidiavo, perché volevo sapere, sapere perché fosse sempre a letto, cos’avesse tanto da dormire, cos’è che la stancava tanto. Volevo vedere la sua faccia, la faccia di quella femmina orizzontale, volevo entrare in camera da letto e scoprirne il corpo, e guardarlo, come avrei fatto con Nuccia nella bara, come mia madre mi aveva impedito di fare. Volevo guardare e capire, volevo prendere ciò che non avevo: il silenzio, il segreto, la dominazione. Quella donna regnava senza farsi vedere. Quella donna era dio.
Ogni tanto glielo chiedevo, domandavo: – Teresa, ma tua madre che fa, che ha? È ammalata? Perché dorme sempre? -, e Teresa s’irritava, – Zitta -, e di nuovo mi spiegava ch’era a letto, e mi veniva vicinissima, mi prendeva il viso in mano, mi alitava in faccia il suo rifiuto, l’ingenerosità d’una figlia che nulla ti dice, che tiene tutto per sé, l’avarizia di chi ha tutto e non si libera di niente. Anche a mia madre lo chiedevo, la tormentavo, – Ma’, perché la madre di Teresa dorme sempre? -, e lei s’arrabbiava, urlava, era stanca e la stanchezza vera fa rumore, il corpo che duole, geme, implora, vuole farsi sentire. La sofferenza piange, diceva, e per farmelo capire meglio mi pizzicava sotto la coscia e io protestavo, e io piangevo, ma lei stava pensando già a qualcos’altro, lei aveva già acceso la tv, ricalcava con la voce la musica di uno spot pubblicitario.
Un giorno, era il compleanno di Teresa e stavamo sul balcone della sua stanza: c’eravamo lei, un’altra – Sonia, Monica, chi se lo ricorda più – e il gatto, il gatto che quella volta aveva camminato nell’urina. Sapevo che la stanza di sua madre era lì accanto, lo sapevo e per questo abbassavo ancora di più la voce, mi spingevo vicina a Teresa, la bocca sul suo orecchio, il sudore all’attaccatura dei capelli. Era pomeriggio, era estate. Me ne accorsi subito quando la maniglia della porta scattò, me ne accorsi e m’alzai, entrai in casa: la vidi, – Eccola! -, gridai, con la voce di mia madre che assomigliava a quella di Laura Pausini, – Eccola! -, e pure Sonia, o Monica, s’alzò, e Teresa appresso. Sua madre era lì, verticale, più alta della mia, molto più alta; indossava una vestaglia bordeaux, lucida, a maniche lunghe, – Eccola! -, e lei si voltò, si voltò verso di noi. Aveva il petto nudo e un paio di pantaloni, aveva i capelli grigi, gli occhiali, il naso grande come quello di Teresa e i piedi pure, scalzi, lunghi. Brutti. Era oscena, era orribile. Era un uomo. La madre di Teresa era un padre, e quando la vedemmo – quando lo vedemmo – ammutolimmo. Tacemmo. Come facevamo sempre, come avevamo sempre fatto. Come, da quel giorno, non avremmo fatto più.