Scesi dal treno per primo, andai incontro alla banchina vuota e al capostazione, che indietreggiò, istintivamente, come se avesse intuito un pericolo o come un piccione, quando gli cammini troppo vicino. Era passato molto tempo dall’ultima volta, eppure nulla era cambiato: i mattoni rossi sotto il cartello blu, che riportava il nome del paese, i cespugli senza fiori, la sala d’attesa angusta, con le porte spalancate, la fontanella sempre aperta, con quello zampillo d’acqua inutile che non smetteva mai di lacrimare e che, in inverno, diventava un moccolo di ghiaccio.
Era aprile, era una di quelle giornate di sole e vento gelido; attraversai velocemente la piazza, il viale alberato con le auto parcheggiate sui bordi, come fossero la doppia spina dorsale di una creatura mostruosa. Guardai i palazzi, che erano rimasti dov’erano, la banca che aveva preso il posto di un negozio di casalinghi, il negozio di sigarette elettroniche che aveva soppiantato una gelateria. La tela degli ombrelloni, che riparavano i tavolini dei caffè, vibrava sotto la forza del maestrale, con un rumore sinistro d’ali d’uccello; mi fermai, ero sudato. – Un ristretto -, chiesi al cameriere, senza guardarlo in volto. – E un cornetto alla marmellata da portare via -.
Erano anni che non tornavo al paese. Avevo vissuto altrove, in città di cui non avevo imparato nemmeno il prefisso del telefono, in sobborghi tutti uguali, dove le case di ringhiera si assomigliavano così tanto che avevo tracciato una croce con la vernice, davanti al portone della mia. Il numero civico non ce l’avevano, lo avevamo coperto noi di nero, per non farci trovare mai al nostro indirizzo; quando dico “noi”, non vuol dire che sia stato io: mi riferisco alla gente cui appartengo, e che non mi chiama per nome, non sa nemmeno che esisto, ma mi protegge. Tra di noi, ci sosteniamo senza aprire gli occhi; quelli come me, è meglio che non si guardino in faccia, è meglio che non si salutino. In ogni caso, non serve, sappiamo riconoscerci, ci basta poco per capirci, e per portarci in salvo a vicenda, senza un grazie, senza salutare. Il paese mi era mancato: i suoni del dialetto, l’odore dell’ufficio postale, il pallone degli adolescenti che sbatte contro l’asfalto, contro le finestre, contro le serrande dei garage. Ci avevo pensato spesso, mentre cercavo di fare il nido lontano, e quando iniziavo ad abituarmi, quando il paese iniziava a diventare un ricordo sempre più sfocato, dovevo trasferirmi, raccogliere le mie cose e imparare una nuova topografia.
Non avevo mai fatto una rapina; avevo rubato qualche motorino, qualche utilitaria. Avevo rivenduto televisori, videoregistratori, più recentemente telefoni, computer e poi altro, cose più piccole, più pericolose. Ma una rapina, io stesso, mai: né da solo, né coi cugini. Non è che mi manchi il coraggio, di quello credo di averne abbastanza, è che non ho la dialettica, la parlantina. Una rapina non puoi farla in silenzio, devi dire qualcosa. Ecco, io non saprei che dire, e forse mi si incepperebbe la lingua, confonderei le parole, le lettere, come quando debbo mettere la firma, Antonio Moretti, e inverto la n e la t di Antonio, mi chiamo con un nome impronunciabile e so che quello non sono io, e mi viene da ridere perché è un errore, ma è anche un modo di mentire sul mio nome. Non avevo mai fatto una rapina, eppure, quella mattina, al paese, tornai proprio per quello: dovevo andare in un piccolo supermercato di quartiere, puntare una pistola addosso alla cassiera e inventarmi qualcosa, togliere di mezzo la gente, magari legarla, o forse no, non era una buona idea. Avrei perso troppo tempo; all’inizio avevo pensato di far uscire tutti, ma poi avrebbero chiamato subito la polizia e io avrei avuto solo pochi minuti. Non potevo, così non andava: avevo bisogno di fare le cose con calma, di dire tutto per bene. Mi ero preparato un discorso scritto, per essere sicuro di non sbagliare.
La cassiera si chiamava Anita; un cugino me l’aveva detto al telefono, mi aveva informato sugli orari dei turni, mi aveva detto che Anita arrivava in bicicletta, ogni mattina alle sette e mezza, e che l’avrei trovata fino alle tre di pomeriggio. – È bionda -, mi aveva spiegato, – Si fa la coda di cavallo, o la treccia, quando lavora -, e io avevo esitato, – Sei sicuro che sia lei? -, gli avevo chiesto, perché i capelli di Anita me li ricordavo castani, scuri come i miei. – E ha gli occhi verdi, e un neo sotto la bocca -, e allora non avevo posto altre domande, l’avevo riconosciuta. Era lei, era Anita, col neo sotto la bocca e quegli occhi che non avevo dimenticato. Tu li avresti scordati? Avresti potuto? Dimmelo tu, allora, come si fa a non pensarci più. Dimmelo tu perché io non ho mai imparato. Eppure, sono uno che fa in fretta: poche domande, dritto al punto. Così con la rapina: era un esordio, ma non c’era tempo per le prove. Dovevo agire, la prima è quella buona, l’esercitazione è la messa in scena vera e propria. Avanti, applaudite.
Mi ci volle concentrazione, mi ci volle una volontà che non pensavo di possedere. Arrivai davanti al supermercato verso le undici, entrai a volto scoperto, aggrappato alla pistola con tutte e due le mani; era scarica, ma nessuno lo sapeva, nessuno immaginava, perché ero là per una rapina, ero là per rubare, per uccidere, se avessi voluto. Dovevate aver paura; e così fu: la gente ebbe paura. Una donna si mise a urlare, un’altra iniziò a piangere, – Via -, dissi, senza alzare la voce, – Adesso venite tutti con me e vi sedete sul pavimento, qui, uno accanto all’altro -. Erano pochi, non più di cinque o sei persone. Si sedettero in fretta, zitti, appoggiandosi l’uno all’altro: quando hanno paura, quando sentono il pericolo e vedono la sorte vacillare, gli esseri umani diventano bambini docili e bene educati, – Forza, tutti vicini, non voglio sentirvi fiatare -, aggiunsi, e loro mi guardarono. Puntai la pistola contro un uomo, poi contro quello che gli sedeva accanto; – Non vi muovete da qui -. Non avevo ancora guardato la cassiera, ma sapevo che era alle mie spalle; le avevo ordinato di chiudere la porta, ma senza prepotenza, e lei aveva obbedito. Anita. Chissà se mi aveva riconosciuto.
Mi voltai verso di lei, appoggiai la pistola sul tappetino della cassa, e la vidi sussultare, mordersi le labbra e il neo che stava proprio sotto, al centro. Era lei, non mi ero sbagliato. Cercai il foglietto piegato in quattro, nella tasca dei jeans: avevo scritto quello che avevo da dire e scandii ogni parola con calma, anche se mi tremava appena la voce, come quando, da piccolo, a messa, mi toccava la lettura della preghiera dei fedeli, in piedi accanto al prete, e temevo che da un momento all’altro l’avrei fatta, non avrei saputo controllarla, e l’urina m’avrebbe impregnato i pantaloni, poi sarebbe colata giù dalle scale dell’altare, a benedire la gente genuflessa, bloccata dall’artrosi. Lessi tutto, lessi fino in fondo. Tutto, anche la firma: non sbagliai a pronunciare il nome, non quella volta.
Quando ebbi finito, arrivò la polizia; vidi arrivare la prima auto attraverso la vetrata dell’ingresso, ma tanto ormai era finita, non avevo altro da dire, potevano pure venire a prendermi. – Apri -, ordinai gentilmente alla cassiera, e vidi che anche lei stava piangendo, come la signora, pochi minuti prima, e sperai di non averle fatto paura, con la mia brutta faccia da rapinatore incapace. Camminai verso l’uomo in divisa col foglietto in una mano, mostrando il palmo nudo dell’altra; – La pistola è scarica -, dissi subito. – Non volevo i soldi, non ho toccato niente. Volevo soltanto rivedere mia figlia -, e l’agente mi tolse la lettera di mano, mi agganciò le manette sul polso destro. – Sono passati vent’anni anni, e non sopportavo più la sua mancanza -.