Emilia rubava. La sorpresi per la prima volta un mercoledì pomeriggio, di ritorno da scuola. Mia madre era in salotto, giocava a carte con le amiche del tennis; pioveva, quel giorno, pioveva dall’inizio della settimana, sicché loro s’erano trasferite dal campo sportivo a casa nostra, portandosi dietro le racchette, come scolare che avessero marinato una lezione. Le sentivo ridere, dalla mia stanza, ridere e imprecare, impostare le voci educate dai canti della messa sulle peggiori bestemmie, spalancando le vocali, come per rimarcare l’oscenità e poi battendo i pugni su mucchietti di arachidi. Imprecavano e mangiavano noccioline, se le passavano di mano in bocca – rossetto e smalto come ferite aperte di noia e d’abitudine; parlavano forte. Insultavano i mariti, il maestro di tennis, che odiavano tutte insieme per l’impossibilità di farsi amare una a una, insultavano i figli – me, insultavano me –, si accanivano contro Emilia. Emilia che aveva un marito sordomuto e che s’era fatta ingravidare da un altro; così dicevano, come se Emilia avesse assorbito la sordità del marito, come se le loro voci non arrivassero dal salotto alla cucina, dalla cucina alla camera da letto. Era là, Emilia, la prima volta che la vidi rubare: la trovai inginocchiata davanti al comodino di mia madre, le mani le erano state inghiottite dal cassetto centrale. Le vidi muoversi in fretta tra la biancheria – pesci sotto il pelo dell’acqua, che non si spaventano se t’avvicini perché sanno di poter nuotare veloci, e allora ti sfidano. Restai immobile mentre estraeva qualcosa, un fagotto di bianco e di cotone, una canottiera, forse un reggiseno, e lo faceva sparire sotto il grembiule. Non ne parlai con nessuno, ma continuai a osservarla; quello stesso pomeriggio, rubò ancora. Aprì l’armadietto del bagno, mentre puliva, e si mise in tasca un tubetto di fondotinta. Mi domandai cosa potesse farsene di quelle cose – un indumento usato, un cosmetico prossimo alla scadenza –, poi provai a figurarmi la sua borsa, e poi casa sua. Me l’immaginai tappezzata della nostra roba, vidi sua figlia – due anni meno di me, eppure più grossa, più alta, i capelli e le sopracciglia neri, il petto d’una donna, sebbene non avesse finito le elementari perché l’avevano bocciata una volta –, la vidi con la canottiera di mia madre indosso, forse pure con un reggiseno, col suo orologio da polso. Quanto tempo era che mia madre si lamentava d’aver perduto quello col cinturino rosso, di pelle? Lei, doveva avercelo lei, la figlia meticcia di Emilia, nata per metà dalla madre e per metà da un estraneo. Dicevano che fosse figlia dell’avvocato Liguori, che l’avesse preso da lui il nero dei capelli, che lui avesse offerto il suo seme in dono a Emilia, in cambio delle pulizie nel suo studio. Io non ci credevo: l’avvocato era calvo e, tuttalpiù, il suo seme Emilia doveva averlo rubato, perché era una ladra e io lo sapevo. L’avevo vista.
Dopo quella prima volta, accadde ancora: prese altra biancheria di mia madre – un paio di collant, dei fazzoletti, che se ne faceva dei fazzoletti? –, poi si servì nel baule dei vestiti dismessi, e nella dispensa, nel frigorifero e persino nell’armadio di mio padre. Prendeva piccole cose: mutande, marmellate, flaconi di sapone, penne, sughi pronti. Qualche volta la coglievo nell’atto di rubare, nel momento in cui stringeva la mano intorno a ciò che avrebbe fatto sparire; me ne accorgevo un po’ prima, perché il passo le si smorzava, i gesti le si facevano più precisi. Non si voltava mai verso la porta: rubava sicura come un chirurgo, polsi fermi e respiro regolare. Non tratteneva il fiato, mai, né si affannava. Sorprenderla allora mi benediceva d’un piacere ch’era una vertigine, ch’era gustoso e insieme ripugnante, come aprire la porta mentre qualcuno è al gabinetto. Era una coincidenza difficile; il più delle volte, andavo a controllare la sua borsa, prima che andasse via, e vi trovavo la refurtiva. Non toccavo nulla, non osavo. Quella era roba sua.
Una domenica mattina – Emilia era venuta ad aiutarci: mia madre aveva invitato gente a pranzo, ed era pronta a schermirsi per i complimenti sulle pietanze, era pronta a vantarsi umilmente della pasta al forno preparata da Emilia, dell’arrosto preparato da Emilia, ma firmato da lei, falsaria del nulla, usurpatrice della maestria altrui –, una domenica mattina rubò un cucchiaino. Aprì il cassetto, lo afferrò e se lo mise in tasca. – Ti ho vista -, le dissi, e lei non si voltò, – Ti ho vista rubare -, e me ne andai. Prima che uscisse di casa, l’abbracciai; – Non dirò niente a nessuno, né di stavolta né di tutte le altre -, promisi, – Sai: la canottiera, il braccialetto d’argento, la pomata dal bagno. Te lo prometto, te lo giuro -, ed era vero, non avrei detto niente a nessuno. Avevo ben chiaro cosa volevo, in cambio; lo avevo ben chiaro e lei avrebbe dovuto accettare. Dopotutto, era una ladra: lo sapeva dove finiscono, le ladre, quando vengono scoperte?
Glielo annunciai l’indomani, quando venne a prendermi da scuola. Mia madre era andata a giocare a tennis ed era toccato a Emilia aspettarmi davanti al portone, insieme alle altre madri – donne, tutte donne, comodini e armadi immaginari offerti alle sua mani di ladra. – Vengo con te -, m’imposi, e le porsi la cartella. – Da adesso in poi vengo sempre con te -; feci una pausa, la diffidenza nel suo sguardo, l’impossibilità di contraddire me ch’ero mia madre, ch’ero una bambina, ch’ero una signora. – A fare la spesa -, continuai. – Verrò sempre con te a fare la spesa -. Emilia non capiva, provò a obiettare, ma non volli saperne, – Vengo con te, oppure parlo con mia madre -, ed Emilia allora ci vide scisse, mia madre che le versava uno stipendio, e che lei pure derubava, ed io, io che la minacciavo. Di cosa, poi? Non mi chiese se volessi controllarla, se temessi che rubasse ancora: quel verbo, rubare, non le piaceva, la metteva in imbarazzo, come quando ti chiami da solo per nome, e per un attimo non ti riconosci, e allo stesso tempo sai di essere tu, e per questo provi vergogna. – Non m’importa se rubi -, infierii, – Non m’importa se sei una ladra: cacciami, dimmi di no, e tutti sapranno chi s’è preso i reggipetti di mia madre, l’orologio da polso, le canottiere di pizzo con cui vesti tua figlia -. Non disse niente, ma le labbra le si assottigliarono, da rosa divennero giallastre, tutt’uno coi suoi brutti incisivi da fumatrice. – Lo so che rubi pure le sigarette -, rincarai. – Ladra -.
Andammo a fare la spesa l’indomani, ci tornavamo ogni martedì e ogni venerdì, Emilia e io, tenendoci per mano, e non tardò a capire il mio piano. La mia piccola, tagliente vendetta, polvere da sparo che mi cospargeva il capo insieme alle ceneri che spingono in avanti la Quaresima, arma bianca dissimulata nel vello dell’agnello di dio. Il mio fu un esordio precoce: mi esibii in un virtuoso numero d’improvvisazione sin dal giorno successivo. Rubai una scatoletta di cibo per gatti, sebbene di gatti non ne avessimo in casa. Fu un azzardo di bravura, lo spessore di quella latta piena di polpette mi si agitava in mano come un cuore estratto da un corpo vivo, ma la fortuna del principiante venne in mio soccorso e uscimmo dal supermercato senza che lo sguardo infallibile delle telecamere si accorgesse di noi. Ero stata più lesta di loro, dita di bambina che sfidano l’occhio di una macchina, destrezza d’una ladra che ruba per piacere – non come un fumatore, non come chi si abbrutisce su una slot-machine, ma come un diabetico che addenta una sacher e non teme il rischio. Il rischio, beninteso, c’era: dopo quella prima volta, ci portammo a casa saponette, cioccolatini di San Valentino, salmone affumicato e persino un piccolo cactus. Lo afferrai con voluttà e lo cacciai nella borsa di Emilia: il rischio c’era, e lo sapevo. Ma se, all’uscita del supermercato, ci avessero fermate, se ci avessero vuotato le tasche, mani in alto e corpo offerto alle guardie di sicurezza, alle telecamere, agli altri clienti, affamati della nostra vergogna, di chi sarebbe stata la colpa? Chi sarebbe stata chiamata ladra, di noi due, Emilia o io? Io? Ne sei sicura, Emilia? Allora perché hai paura? La ladra sei tu: ti ho vista. Avanti, corri il rischio e non parlare, lasciami fare e lasciati condannare. Eccola, la mia vendetta, gioco da bambina con le armi degli adulti. Eccola, ed Emilia non poté farci nulla; vedevo le banconote di mia madre tremarle nella mano, mentre pagava, vedevo le sue tempie umide, nonostante fosse inverno, il balbettio nella voce mentre diceva grazie, mentre diceva arrivederci, mentre diceva andiamo, torniamo a casa, e io le rispondevo, stizzita: – Dovete darmi del voi! -, ma la cassiera ci ignorava e anche Emilia non mi dava più ascolto. Non era quella mia superbia a farle paura, era il pacchetto di biscotti che le avevo ficcato in borsa era il flacone di shampoo da pochi soldi, che avrebbe potuto costarci caro. Costarle caro, a lei, non a me.
Un giorno, fummo scoperte. Avevo rubato una barretta di cioccolato al latte e una confezione di formaggini. – Vi abbiamo viste -, ci ammonì l’addetto alla sicurezza, sorriso solo a sinistra, mentre la metà destra della bocca restava paralizzata, – Non si vergogna d’insegnare queste cose a sua figlia? -, ed Emilia restituì i formaggini e il cioccolato, ma l’uomo scosse la testa, batté il dito sulla borsa di lei, poi sulla cassa, ed Emilia pagò senza fiatare, rossa in viso, la fede nuziale che le scivolava giù dal dito, gli occhi fissi davanti a sé. – Ci scusi -, disse, alla fine, e mi prese per mano. – Non sei mia madre! -, gridai, e lei mi strinse più forte, – Andiamo -, ma quello non ci guardava più: voleva i soldi, li aveva avuti. Non esistevamo.
Smise allora di parlarmi. Camminammo insieme fino alla sua auto, io trionfante ma delusa, perché ce l’eravamo cavata con poco, lei zitta, chiusa e indecifrabile. Mise in moto, accese la radio; stavano dando una canzone di Renato Zero, che non sopportavo, per la felicità sfacciata che sembrava contraddirmi. Vidi Emilia tamburellare le dita a tempo sul volante, muovere le labbra come se volesse cantare, frenare violentemente a un semaforo e poi ripartire nonostante il rosso. Non tornammo a casa; l’incrocio che portava verso il mio quartiere s’affacciò a destra e poi sparì, e dopo di lui scomparvero gli alberi del viale del cimitero, poi l’insegna gialla del discount. Mi chiesi se Emilia avesse smesso di fare la spesa lì, da quando rubava in casa nostra, e se la sua refurtiva miserabile bastasse a sfamare la bocca spalancata di quella sua figlia impura, del marito che se n’era andato e che ogni tanto tornava, mangiava, e di nuovo si dileguava. Si fermò quando arrivammo davanti a una palazzina grigia, abbassò il finestrino e sporse la testa, per controllare il parcheggio, poi si rivolse a me. – Muoviti -, e uscì in strada, aprì il portabagagli, mi spinse una borsa tra le braccia. – Sesto piano -, e mi precedette, spinse un portone senza serratura e quello si aprì; Emilia salì in fretta su per una scala di ferro, imprecando contro un gatto che non aveva visto, e che gemette di stizza e di sorpresa al suo passaggio. Casa sua era un salotto con un televisore acceso, un divano-letto aperto nel mezzo e una donna – sua figlia, undici anni e un petto da femmina, undici anni e i bigodini stretti sul cranio, la camicia da notte di mia madre indosso e un paio di calze da bambina tirate su a coprire le gambe, velate di un nero ancora risparmiato dal rasoio. – Che hai fatto in testa? -, l’aggredì Emilia, poi dovette ricordarsi di me e si riscosse, sua figlia si mise a sedere e mi guardò impaurita, occhi da animale selvatico e corpo di donna, fronte infiammata dal una pubertà precoce e bocca da prima comunione. Le stavano rispuntando i premolari, me ne accorsi quando rivolse alla madre un ghigno dolente e pieno di vergogna, mentre si alzava per indossare una vestaglia, che in realtà era un cardigan marrone, appartenuto a mia madre. Mi domandai quando Emilia l’avesse rubato, come avesse fatto a portarsi via quello, e i bicchieri della Nuella che vedevo sul tavolo e nel lavandino, e la ciotola in vetro di Murano, che mio padre detestava da quando ci era stata regalata da Vittorio, il suo collega dell’ospedale, perché diceva che Vittorio, in cambio dei suoi regali, voleva mia madre. – Dobbiamo mettere il latte in frigo e le cose a posto, muoviti -, ed era a me che si rivolgeva, così obbedii, riposi il latte accanto alla confettura inglese che ci aveva preso dalla dispensa, e che nessuno di noi si decideva mai ad aprire. Notai il nostro vecchio frullatore, sul ripiano della cucina, la zuccheriera con su scritto “Olanda”, che non rivedevo da tempo, la tovaglietta su cui mia zia Lucia aveva ricamato un coniglio, che usavamo tutti i giorni a colazione, prima che mia madre e zia Lucia litigassero e smettessero di salutarsi. Poi mi sedetti accanto alla figlia di Emilia; stava guardando una soap-opera argentina, adesso: mi fece spazio sul letto. Sapeva del profumo di mia madre; passò un’ora, poi di più. La soap-opera finì, guardammo il telegiornale senza parlare, mentre Emilia preparava la cena e il suo telefono squillava senza sosta. – È mia madre? -, le domandai, e lei non rispose, non c’ero, ero un’altra, cosa senza importanza rubata dagli armadi dei miei genitori, ero una canottiera, un reggipetto, un pacchetto di biscotti al burro della cui sparizione nessuno si sarebbe accorto mai. Ero l’orologio col cinturino rosso di pelle, che mia madre aveva perduto, ma che non s’era presa la briga di cercare. Finì il telegiornale e io piansi, Ciampi era il nuovo Presidente della Repubblica e io mi disperavo, Raffaella Carrà ballava e rideva, rovesciando indietro la sua testa bionda, mentre la figlia di Emilia mi si era addormentata accanto, capelli umidi stretti nei bigodini, profumo da signora e sopracciglia nere da bambina. Nessuna di noi aveva mangiato nulla, il telefono squillava ed Emilia aspettava, due piatti rovesciati sul tavolo, gli occhi nella TV. Erano passate le dieci di sera quando mia madre suonò alla porta; – Non ti muovere -, mi bloccò Emilia, che aveva intuito il mio istinto di fuga, la paura e l’eccitazione di essere dove non avrei dovuto. – Entra -, l’accolse, quando mia madre fu sull’uscio, e ci mise poco ad accorgersi di ciò ch’era stato, ci mise niente a riconoscere la zuccheriera, il centrotavola, la ciotola di Murano, l’orologio, sua figlia. – La bambina l’ho presa io -, confessò Emilia, e sollevò le mani, come a volersi consegnare, come a farsi arrestare. – Ma tutto il resto -, tutto il resto: bicchieri della Nutella, biancheria, tovaglie, ninnoli dimenticati, – Tutto il resto me l’ha dato lei -, e mi puntò contro l’unghia sporca dell’indice. Chinai il capo e fui Emilia, fui la ladra, fui quella che dio non ha ascoltato e per rabbia ha dato fuoco alla cattedrale, che ha perso dio, e ha perso tutto. Ed Emilia è passata a raccattarlo, ed Emilia è passata a raccoglierlo.