Con una mano, liberai il volto dai capelli, li spostai tutti sull’altra spalla; premetti più forte il telefono contro l’orecchio e trattenni il fiato. – Pronto -, azzardai di nuovo. – Pronto, pronto? -, e tacqui, gli occhi spalancati, come se potessero vedere dall’altro capo del filo, come se potessero attraversare i cavi e uscire dall’altra parte. La persona che mi aveva chiamato non parlò, non lo faceva mai; alle sue spalle, potevo intuire confusamente due voci che urlavano, forse la televisione accesa. Poi un fruscio, come se avesse avvicinato troppo il ricevitore alle labbra, e infine un rumore di vetro che si infrange, un grido di donna. Restai in ascolto, – Ti prego, non riattaccare -, ma la mia voce urtò contro la tonalità di libero, inascoltata.
Mia madre corse verso di me, scalza; – Vieni, vieni a vedere! -, sussurrò, concitata. – Muoviti, non ti perdere lo spettacolo -, e di nuovo si precipitò sul balcone, – Non accendere la luce! -, mi ordinò. Sembrava eccitata, come davanti ai fuochi d’artificio di Santa Maria; si portò l’indice alle labbra, gli occhi sgranati, per intimarmi di fare piano e, con un cenno del mento, mi indicò il palazzo di fronte. Al secondo piano, era in corso un litigio, avevano spaccato una finestra; – Stanno litigando di nuovo -, spiegò, sottovoce, e si sporse sulla balaustra arrugginita. In quel momento, vedemmo un uomo avvicinarsi al davanzale e buttare giù qualcosa, un fagotto che atterrò sull’asfalto quasi senza produrre suono. – Scendo a vedere cos’è -, annunciò mia madre, – Tu resta a controllare e poi dimmi se ci sono novità -. La vidi uscire dal portone, in ciabatte e camicia da notte, chinarsi a terra e poi sollevare la testa verso di me, che dominavo la scena dall’alto. – È la borsa di lei -, mi spiegò, una volta tornata a casa; – Si chiama Silvia Maria Bettini. Silvia Maria, ha due nomi: lo sapevi? -, e si sedette sul divano. Affondò le mani in ciò che non le apparteneva, avida, frugò nel portafogli e poi rivoltò le tasche interne: ne estrasse un paio di lenti da vista, un mazzo di chiavi e la fototessera di un bambino. – Gliela restituisco domani -, dichiarò, rimettendo tutto a posto e, dopo, lavandosi le mani in cucina. – Meno male che l’ho raccolta io -, riprese, più tardi. – Non le si sono rotti nemmeno gli occhiali -. Annuii e me ne andai a letto, fissando il telefono, aspettando che squillasse di nuovo. Il bambino nella fotografia lo conoscevo: era Antonio, andavamo a scuola insieme, ma non dissi niente a mia madre.
Silvia abitava nella strada di casa nostra da diversi anni, ma nessuno di noi la salutava; era figlia di immigrati, i genitori erano partiti in Germania quando non avevano vent’anni e Silvia era nata lì, in quel Paese che, per lei, era soltanto un’annotazione sulla carta d’identità. Erano tornati in Italia quando il padre di Silvia si era ammalato, sicché lei si era iscritta a scuola ma non l’aveva frequentata mai, era rimasta accanto al padre morente e alla madre che malediva la sorte in una lingua all’incrocio tra il tedesco e il dialetto locale. Si era sposata giovane, aveva avuto un figlio, Antonio, e un marito di cui ignoravamo il nome, ma di cui conoscevamo bene la voce, per tutte le volte in cui insultava sua moglie, dio e i passanti, per tutte le volte in cui le mura di casa non sapevano più contenere la sua collera e lasciavano che fluisse giù dalle finestre senza tende, come acqua in eccesso data a piante già innaffiate. La sera in cui il marito di Silvia ruppe la vetrata e lanciò giù la borsa fu l’ultima volta che lo vedemmo; Silvia chiese e ottenne il divorzio, e in quello stesso periodo morì pure sua madre, che a quel genero brutale voleva bene. Si diceva che la vecchia fosse morta di dispiacere, ferita da una figlia ingrata, che non aveva saputo tenersi un uomo; si mormorava pure che, al funerale della genitrice, Silvia non ci fosse andata, perché così aveva chiesto la donna, esiliando quella figlia che, per non aver voluto scendere a patti con la violenza, aveva preferito deludere sua madre. La sera dell’ultimo litigio fu anche l’ultima volta che ricevetti la telefonata silenziosa cui avevo iniziato a fare l’abitudine: capii, allora, che dall’altra parte del filo c’era Antonio, e che in quel messaggio senza voce risiedeva una richiesta di compagnia, se non di aiuto, mentre nell’altra stanza, suo padre testava l’estensione sonora delle sue minacce.
– Sta’ lontana da quel ragazzo -, mi ordinò mia madre, quando scoprì che Antonio era figlio di Silvia; – E non ti avvicinare troppo a quella donna, ché ci attacca la malasorte -, si raccomandava, severa. Era seria, non scherzava su questo argomento: dopo aver frugato nei suoi pochi effetti personali, restituì subito la borsa e tornò a casa, per paura che le sfortune di Silvia, i dolori che aveva vissuto e che le deviavano lo sguardo verso il suolo e mai verso chi le parlava, potessero venirci contagiati. Temeva una contaminazione per contatto, un’infezione per prossimità, e provava un misto contraddittorio di attrazione e repulsione nei suoi confronti. La nominava spesso, la citava, a tavola, per ripeterci le disgrazie che aveva subito, per sottolineare la differenza tra noi e lei, ma anche per minacciarmi, per spaventarmi: bastava poco per cambiare strada e trovarsi nel solco distruttivo scavato da Silvia. Quando ne parlava, le si incendiavano gli occhi di euforia e di terrore; mia madre era affamata delle sciagure altrui, perché quelle erano la garanzia della sua fortuna, del suo successo, della sua condizione che, paragonata a quella di Silvia, appariva indiscutibilmente superiore. Era quella donna la pianta che non cresce in un balcone pieno di gerani, il serpente velenoso che scambi per una biscia.
Quell’anno, alla fine di settembre, mio padre ci lasciò; andò via di casa una mattina, mentre mi preparavo ad andare a scuola, e non tornò più. Avvertì mia madre per telefono e non diede troppe spiegazioni, né lei ebbe il tempo di chiederne, perché, proprio in quel periodo, stava facendo i conti con la malattia di mia nonna e poi con mio nonno, che finì schiacciato contro un albero, tra l’airbag e le lamiere, mentre guidava verso l’ospedale.
Ci ritrovammo sole prima di Natale, nella cucina di casa, che affacciava sulla finestra senza tende di Silvia; – Sono diventata come lei -, si autocommiserò mia madre, – L’ho criticata tanto che sono diventata come lei -. Poi ebbe un moto di collera, la sentii borbottare bestemmie; – Te l’avevo detto di non avvicinarti troppo a quel ragazzo! -, mi rinfacciò, – Hai visto che hai fatto? -, e se la prese con me: piangendo, mi accusò di essere responsabile della svolta tragica della sua vita, come se quella solitudine nuova non mi toccasse, come se non ne fossi vittima, insieme a lei. – Sei stata tu, invece -, ripresi, dopo un poco; – È colpa tua: la sua borsa, potevi lasciarla in mezzo alla strada, quella sera -, e ce ne andammo a dormire senza aver fatto pace.
Era appena iniziato gennaio, quando mia madre andò a suonare a casa di Silvia, una domenica mattina. La vidi attraversare la strada e attendere davanti al citofono che qualcuno le rispondesse; poi, dalla finestra, distinsi il suo profilo, nel salotto del palazzo di fronte. Erano sedute insieme e forse stavano parlando di sventure, di mio padre, del marito violento che ogni tanto vedevamo ancora riapparire, nonostante il divorzio, come uno spirito evocato per sbaglio da un chiaroveggente inesperto, come une previsione meteorologica fallace. Di domenica in domenica, mia madre e Silvia divennero amiche; si vedevano spesso, prendevano il caffè dall’una o dall’altra, e ogni tanto Silvia la portava con sé a lavorare, pulivano insieme capannoni della zona industriale e palestre, magazzini e studi di commercialisti. Eppure, mia madre non aveva smesso di considerarla portatrice di sciagure contagiose e così terribili che le nostre, in confronto, apparivano trascurabili come un ginocchio sbucciato.
Passò l’estate, Antonio e io tornammo a scuola, stavolta divisi da una scelta che ci aveva allontanati e sottolineava la distanza che non avevamo più saputo colmare, dopo l’ultima telefonata, e che nemmeno l’amicizia tra le nostre madri era riuscita a risanare. Fu in quel periodo che Silvia si innamorò; aveva conosciuto un uomo, vedovo e senza figli, e se l’era portato in casa; mia madre ci rimase male, si sentì tradita, abbandonata di nuovo. Iniziò a evitarla. La spiava dalla finestra e fingeva impegni che non aveva, per non incontrarla; la loro amicizia ancora giovane iniziò ad afflosciarsi, come un fiore reciso in un vaso senz’acqua. Silvia la chiamava spesso, la invitava a pranzo, mi fermava per strada e mi chiedeva di lei, – Salutami tua madre -, mi diceva, guardandomi le scarpe, – Non te ne scordare -, e non lasciava il braccio di quell’uomo estraneo che le si era avvitato accanto. – Molte grazie -, mi faceva il verso mia madre, quando glielo riferivo, e poi spegneva le luci, cercava di rubare l’intimità di Silvia dalla finestra, ma durò poco: nel giro di poche settimane, Silvia fece installare le tende, privandoci dello spettacolo del suo salotto disadorno.
Poco alla volta, iniziammo a scordarci di lei, evocandola solo quando parlavamo di iatture, come la scala di valutazione dell’intensità di un sisma, metro assoluto dei drammi altrui e della conseguente pochezza dei nostri. Anche mia madre si innamorò, qualche volta, ma non portò mai nessuno a casa, gelosa dell’immagine di solitudine restituita dalle nostre finestre, timorosa di mostrare agli altri le carcasse degli eventuali e inevitabili fallimenti sentimentali, cui era preparata ad andare incontro.
È passato molto tempo, da allora: adesso, mia madre vive in un ospizio per anziani. Non ha coltivato altri rapporti, mio padre non l’abbiamo visto più, e io vivo in un’altra città, in un appartamento da cui è impossibile spiare le vite dei vicini. Penso ancora a Silvia, ogni tanto, quando sfioro la voragine di un pericolo senza caderci dentro, oppure quando un amore in cui credevo mi si sbriciola in mano, come un biscotto pescato dal fondo del sacchetto. Anche mia madre evoca talvolta il suo nome, ma senza più rancore, senza dolore; pare siano tornate amiche, adesso che sono vecchie, e Silvia va a trovarla più spesso di quanto non faccia io. Parlano forte, perché mia madre ha perso l’udito a forza di star sola, come sostiene lei: per molti anni, ha ascoltato talmente tanto silenzio da essersi disabituata ai suoni; è questa la sua versione della realtà, e non ha più importanza trovare buoni motivi per contraddirla.
Il mese scorso, è stato il suo compleanno, ma non potevamo ancora sapere che sarebbe stato l’ultimo. Le ho portato una torta; mi ha detto che non le piaceva, ma che potevo tagliarne una fetta per Silvia, visto che era lì con lei. Le ho trovate che parlavano di uomini, e quando mi hanno vista arrivare hanno smesso; poco dopo hanno ripreso, e Silvia mi ha raccontato che il tizio che s’era presa in casa anni prima, quel vedovo senza figli che aveva messo le tende ai balconi, era morto d’infarto da poche settimane. – Posso presentarti qualcuno -, le aveva proposto mia madre, – Qui è pieno di uomini: vedovi, divorziati, c’è di tutto -, aveva ribadito, seria. – Tanto, quando vi lasciate, sai dove trovarmi -, aveva aggiunto, e in quella falsa gentilezza avevo intuito di nuovo la malasorte che attribuiva a Silvia e che, da sempre, toccava a quella donna soltanto e mai a noialtri, mai a lei stessa. È a questo che penso mentre la camera mortuaria si riempie di gente che conosco appena, di parenti che non ricordavo di avere; è a Silvia che faccio un cenno con la mano, e mi trattengo dal ridere, voltando le spalle a mia madre, al suo corpo che, stavolta, non ha fatto in tempo a scongiurare la malasorte, e prima d’incrociare le dita dietro la schiena, prima di fare le corna nella tasca o d’invocare la protezione d’un santo, è caduto disteso, orizzontale, e non s’è alzato più.