A Ljubov, alla sua famiglia
– Come sei bella -, mi disse una donna, e mi prese le mani, gli occhi azzurri screziati di giallo fissi nei miei. Non sapevo chi fosse, per quale ragione si trovasse là: ero stata io a invitarla? – Grazie -, le risposi, – Grazie di essere venuta -, e lei si commosse; poi qualcun altro, alle mie spalle, dovette attirare la sua attenzione, perché spostò lo sguardo, la vidi sorridere – denti piccoli e appuntiti, come quelli dei gatti. Sentii la stretta allentarsi e la persi: mi aveva già dimenticata. Avanzai tra la gente, strizzando gli occhi per mettere a fuoco i volti: non riconoscevo nessuno. Chi erano quelle persone? Avevo scritto io il loro nome e l’indirizzo sulle buste degli inviti? Un’altra donna mi venne incontro, teneva per mano una bambina di sette, otto anni. – Sono Vera -, si presentò, – Vera Reggiani -, e attese una mia reazione, ma ero incapace di collocarla da qualche parte, e quel cognome, Reggiani, non mi diceva molto. – Sua figlia è adorabile -, azzardai, e lei si affrettò a spiegarmi che era la nipote, la figlia di suo fratello, ma che lui non era venuto perché non poteva. – La moglie è all’ospedale -, sussurrò, e la bambina non si perse una parola, sua madre era ammalata e la gente mentiva in sua presenza, credendo forse che la giovane età la rendesse sorda. Le abbandonai sotto il lampadario, cercai con lo sguardo mia madre, poi mio padre, mia sorella, il suo fidanzato: c’erano. Almeno loro li riconoscevo. Erano tutti assorti in conversazioni con gente estranea, vedevo mia madre rovesciare indietro la testa per ridere alla battuta di un uomo dalla camicia sbottonata, la cravatta rossa in mano e un fiore fiacco nel taschino, mentre mio padre parlottava con mia zia, sembrava stessero litigando – soldi, di sicuro era per i soldi, argomento di amore e di odio che più del patrimonio genetico ne attestava la consanguineità. Mia sorella era seduta al suo tavolo, la vidi alzarsi di scatto col pacchetto di sigarette in mano. La borsa era rimasta sulla sedia; all’interno, c’erano le mie chiavi di casa, le chiavi dell’auto di mia madre – le aveva lei, era venuta con quella. In un attimo me ne appropriai, ci affondai dentro le mani. – Che fai? -, mi domandò Gianni, e io finsi di non aver capito, Gianni era il fidanzato di mia sorella e la sua presenza non mi riguardava, era un estraneo come tutti gli altri: non gli dovevo risposte, né sincerità, nulla. – Cercavo le sigarette -, mi giustificai, elusiva, e me ne andai, le chiavi in mano. Uscii nel parcheggio, passando per il giardino posteriore: non volevo essere vista, non potevo rischiare che mi fermassero, che deviassero la mia traiettoria, che mi mandassero fuori strada o in fondo a un crepaccio. Mi sedetti al volante; la gonna mi ostacolava, così la tirai su fino alla vita, le cosce nude nelle calze sottili contro la finta pelle del sedile, le mani – lo smalto, l’anello, il braccialetto di diamanti preso in prestito a mia madre – che tremavano. Inspirai, misi in moto. Via, dovevo andare via. Guidai fino a casa mia, parcheggiai davanti al portone; – Come sei bella! -, mi gridò Anita, dal balcone al piano rialzato, poi dovette realizzare l’assurdità – cosa ci facevo lì, a quell’ora, da sola? – e volle sapere, – Arianna! -, mi chiamò, e non so cosa mi chiese, perché mi precipitai su per le scale senza salutarla, l’urgenza di solitudine più forte delle buone maniere, la gentilezza imposta dalle convenzioni sociali azzerata dal privato egoismo. Mi spogliai nell’ingresso: via le scarpe, poi tentai di liberarmi dalla morsa dell’abito, mi pareva impossibile. Tirai sui bottoni dietro la nuca, tirai forte e ne sentii uno cedere e staccarsi, rimbalzare a terra, e dietro di lui un altro, e un altro ancora: bottoni e perline si inseguivano, prendevano le distanze da me. Tutto si disfaceva nelle mie mani, i miei resti tintinnavano sul pavimento, inghiottiti dalla penombra del pomeriggio, dagli angoli dell’appartamento dove Michele e io vivevamo da due anni. Era casa nostra, mia e di mio marito. Quando riuscii a slacciare del tutto il corpetto, mi sfilai l’abito da sopra la testa, poi andai nella mia stanza, mi cambiai in fretta – chiavi, documenti, un paio di jeans in più: ero pronta. Il vestito giaceva a terra, floscio come un’enorme medusa morta, trascinata a riva dall’andirivieni delle onde. Lo guardai: non provavo niente. Solo allora capii perché, quella mattina, mi avevano aiutata mia madre e mia sorella a vestirmi: non pensavo che sarebbe stato così difficile spogliarmi da sola dell’abito da sposa. Mentre rimettevo in moto l’auto – una strada vuota presa in controsenso, la città mi apparteneva perché stavo per abbandonarla –, pensai a Michele, Michele che avevo amato per sei anni e che avevo appena sposato, Michele che quella mattina mi aveva detto che gli era venuto da ridere di fronte al prete, perché aveva sbagliato a pronunciare il mio nome – Marianna, quando invece era Arianna – e forse il matrimonio non era valido, avremmo dovuto rifarlo. – Ma che dici -, avevo replicato, – Il nome mio l’ha detto bene. E poi sono stata io a dire di sì, io c’ero, mica un’altra -, ma la possibilità dell’errore mi aveva permesso di resistere, di stare al gioco, ma fino a quando? Fino alle sedici e trenta; avevo resistito fino ad allora. Poi ero scappata, avevo lasciato le cose a metà, Michele e la sua famiglia e la mia e decine di sconosciuti, invitati al nostro matrimonio. Ero stata moglie per quattro ore; poi, me n’ero andata. Ero fuggita e non sarei più tornata.
Non era la prima volta. L’arte della fuga era diventata il mio pezzo di bravura e la coltivavo con l’esercizio, come la calligrafia, come gli arpeggi al pianoforte. Erano stati proprio gli anni delle lezioni di musica a offrirmi il palcoscenico dell’esordio. Avevo debuttato, bambina, a casa della maestra Lombardi: ci accoglieva nel suo salotto, una poltrona accanto alla panca del pianoforte, un allievo seduto davanti alla tastiera e gli altri sulle sedie di velluto, ricoperte di plastica trasparente affinché non le sciupassimo. Aspettavo il mio turno per suonare e mi comprimevo la pancia per trattenere l’orina che minacciava di venir fuori, e più provavo a ricacciarla dentro, più l’urgenza s’impossessava della mia volontà e la rendeva serva di un bisogno primitivo, più sentivo l’irreparabile affacciarsi, meno mi sforzavo di dominarlo, finché non sentii un tepore piacevole e sinistro tra le cosce, poi una lingua di freddo scivolarmi giù per le gambe, lungo i polpacci, nelle calze. Sara continuava a suonare, Mariele, accanto a me, la guardava e non si curava del danno, non si curava di me e la maestra nemmeno, sicché mi alzai, attraversai il corridoio, aprii la porta e scappai via, sola nelle strade del paese che mai avevo affrontato senza mia madre, orfana nella vergogna, eppure libera, finalmente libera. A lezione di pianoforte non ci tornai, la maestra Lombardi non l’ho mai più sentita nominare. Chissà s’è morta.
Dopo essere scappata dalla mia festa, scomparvi in una pensione di provincia. Presi una stanza singola e me ne restai distesa sul letto per quasi tutto il tempo; guardavo la TV, i programmi del mattino per bambini che cedevano lentamente il posto ai rotocalchi di cronaca nera, e loro alle gare di cucina. Verso sera, uscivo a comprarmi qualcosa da mangiare in una rosticceria, dunque tornavo in camera e cenavo, fissando lo schermo muto dove la gente lanciava appelli per ritrovare familiari scomparsi. Chissà, forse di lì a una settimana ci sarebbe stata la mia faccia, ci sarebbe stato il mio nome, Arianna Greco, sparita il giorno del suo matrimonio. Potevano avermi rapita, potevano avermi uccisa e fatta a pezzi, aperto l’addome per estrarmi gli organi vivi e poi venderli: chi li vuole? Chi lo vuole un rene, il fegato, il cuore di una donna che ha abbandonato il marito subito dopo avergli detto sì davanti a dio?
Erano passati quattro giorni da quando ero arrivata alla pensione; il mercoledì mattina, uscii per andare a comprare un test di gravidanza. Entrai in un bar, ordinai un cappuccino; – Posso usare il gabinetto? -, domandai, appoggiata al bancone, sporgendomi verso le spalle del ragazzo, che armeggiava con la macchina del caffè. Non pensai a niente mentre aspettavo di sapere cos’ero diventata, quanto grande fosse la mia solitudine e quanto irreversibile la perdita della libertà. – Marito e moglie -, mi ripetei, mentre sbloccavo la serratura della porta e meccanicamente leggevo le oscenità vergate a pennarello: numeri di telefono di prostitute che forse erano state amiche, sorelle, madri, maledizioni rivolte a uomini che avevano un nome – Marco, Mattia, Alessandro – e ai loro morti anonimi. – Marito e moglie -, borbottavo, e la fede sembrava non voler venire più fuori, mi stringeva l’anulare, lo strangolava. Eppure era entrata, solo qualche giorni prima era riuscita a passare: il problema, era evidente, era uscirne. Appoggiai il test sul piattino, presi la tazza in mano e me la portai alle labbra – freddo, tutto freddo, tutto già morto – e richiamai il ragazzo. – Scusi -, alzai la voce, anche s’ero vicina, – Mi scusi: cosa vede qui? -, e girai verso di lui il piattino, col dito tamburellai sul marmo – caffè rappreso, scaglie di pasta sfoglia, granelli di zucchero. – Quante strisce rosa? Una? Due? -. Lo vidi spalancare gli occhi, poi abbassarli sul mio destino – un pezzo di plastica impregnato di orina –, infine spostarli su di me. – Due. Sono due: è incinta? -, e sorrise. – Mi porti una pasta alla crema -, ordinai e quando si voltò per andarmela a prendere me ne andai, il mio destino abbandonato accanto a un resto di colazione, due monete buone per l’elemosina o per l’offertorio a benedirlo.
Non tornai subito a casa; volevo essere imperdonabile, trovare la porta sbarrata, restituire l’anello e le promesse, ritrattare ogni cosa: matrimonio, fedeltà, eternità. È realista il cristianesimo, “finché morte non vi separi”: lo sa che abbiamo una fine, che tutto ce l’ha, e che si sta insieme finché dura la vita, dopodiché si è liberi. Solo che io non volevo aspettare, volevo essere libera subito: perciò ero fuggita, quella volta dal mio matrimonio e molti anni prima dalla lezione di musica, e poi dalla scuola – via, nel mezzo della lezione di geografia, di corsa fino alla fontana, in piazza. Ero scappata dall’amore di Angelo, che a diciannove anni voleva sposarmi e piazzarmi dietro il bancone di ferramenta del padre, avevo abbandonato la facoltà di giurisprudenza all’inizio del secondo semestre – due trenta e lode alle spalle, i libri di Filosofia del diritto già comprati – e m’ero iscritta a matematica. Avevo reciso il rapporto con Maria, un’amica nuova che a ventun anni m’era diventata troppo cara, e allora me l’ero strappata di dosso con tanta violenza che l’emorragia mi aveva tenuta chiusa in casa per settimane, a rifiutare le sue telefonate e a cancellarla minuziosamente dalla mia vita. Ero un’esperta di fuga, di rotture, di fini precoci: con la maestria maturata in anni di esercizio, ero scappata dalla mia festa di matrimonio. Adesso, però, c’era un bambino, e quella presenza invisibile, rappresa nel mio corpo, mi obbligava a tornare. Pregai che mio marito mi scacciasse, m’insultasse, mi espellesse dalla sua vita come corpo estraneo, come un organo che non sopravvive a un trapianto. Invece mi accolse, mi abbracciò, il viaggio di nozze non l’avevamo ancora organizzato: che ne pensavo di Venezia? E Parigi? Ero mai stata a Parigi? Gli confessai della gravidanza in aereo, un attimo prima che atterrassimo al Charles-de-Gaulle; – Sono incinta -, dissi, – Di otto settimane -, e la voce che annunciava la fine del volo coprì la sua. Chiusi gli occhi sulla sua reazione, sulla sua gioia, sulle prime parole da padre pronunciate da Michele. Si dà tanta importanza ai primi balbettii dei figli, ma chi pensa a quelli dei genitori? Chi si ricorda che ha detto, nell’esatto momento in cui s’è trovato davanti all’evidenza d’aver smesso d’essere un figlio e di essere diventato padre, madre? Chi se lo ricorda? Io, io me lo ricordo; ma per me, non per mio marito.
A lungo cullai il desiderio di abortire, come si tiene d’occhio un’uscita di emergenza, una finestra, come si memorizza una strada da percorrere a ritroso per liberarsi. Con Michele non ne parlai mai. Ogni giorno pensavo al momento in cui me ne sarei andata – abbandonare tutto e saltare giù, sparire, ricominciare chissà dove –, ma i mesi passavano e io diventavo sempre più ingombrante, sempre più difficile da nascondere. Il mio stato mi ostacolava: come avrei potuto scomparire? Come avrei fatto con quel corpo mio e con quell’altro corpo che mi appesantiva il passo da dentro? Qualche volta, andai via; uscivo di casa al mattino e tornavo l’indomani. Dormivo in una pensione, dalle suore oppure in un hotel vicino alla stazione di una città vicina. Mettevo due, tre ore, quattro al massimo tra me e mio marito; poi tornavo a casa e si vedeva che lui era inquieto, lo intuivo dagli occhi di chi non ha dormito e dai capelli scarmigliati, ma non se la prendeva. In fondo, non mi aveva avuta accanto per una notte, una soltanto; – Mi siete mancate -, ammise una volta, riaccogliendomi in casa, e quel plurale era una mano che mi spingeva fuori – fuggi! Fuggi di nuovo! –, ma restai, non me ne andai. Ero incinta da cinque mesi: forse potevo farcela. Forse mi sarei salvata.
Secondo il dottore, la bambina sarebbe nata il dodici di aprile; il nove, preparai una valigia e me ne andai. Presi il treno fino a Rimini, aspettai l’arrivo di mia figlia con le mani sulla pancia. Volevo che nascesse al mare, e alla mancanza di Michele non pensavo, la fuga era la priorità, mia figlia veniva dopo, arrivava seconda. Passò il dodici di aprile, poi il tredici ed ero sempre sola, sempre una con un’altra dentro. Allora ripresi il treno notturno, tornai nella mia città: erano le quattro del mattino quando arrivai. Avevo pensato a lungo alle mie fughe, in quei giorni: avevo provato nostalgia per Angelo, anche se sapevo che nel frattempo s’era sposato, ma aveva dovuto assumere un commesso, nella ferramenta, perché la moglie faceva la vigilessa e non poteva occuparsi di bulloni e cacciaviti. Pensai ai libri di legge abbandonati, a Maria, ch’era andata a vivere a Berlino e adesso amava in una lingua sconosciuta e dolorosa. Anche alla maestra di piano avevo pensato, solo che di lei non avevo saputo più nulla, così mi diressi a casa sua, nel buio nebbioso della notte che finisce. Suonai al citofono; la targhetta col nome, “Lombardi”, era sempre la stessa – scritta marrone su fondo bianco, stampatello appuntito e privo di grazia. Aspettai: non rispondeva nessuno, così dopo un poco ci riprovai, premetti il tasto più a lungo, e fu allora che sentii un formicolio, nella griglia metallica, poi una voce, – Chi è? -. Una donna. – È la maestra Lombardi? Susanna Lombardi? -, e lei, subito: – Sono io. Chi è? -, insistette, ma me ne andai e la sua domanda si spense nell’umidità dell’alba. Quando giunsi dietro la porta di casa mia, erano quasi le cinque. Michele venne ad aprire non appena sentì la chiave nella serratura, come se fosse stato di vedetta nell’ingresso, come se mi stesse aspettando. Mi abbracciò – odore di shampoo, di saliva, di cucina –, poi si staccò da me, mi guardò la pancia – era lì la bambina, me la portavo ancora in corpo, non l’avevo tradito – e tornò ad abbracciarmi. – Scusa -, gli dissi, meccanicamente, ma lui non sembrava arrabbiato, non me ne voleva. Era felice di rivedermi e questo mi sconcertava e insieme mi dava sollievo, mi riempiva di delusione e di una gratitudine che non comprendevo. – Non ce l’hai con me? -, gli chiesi allora, e lui scosse la testa, – No. Perché sei come i pesci, che ogni tanto hanno bisogno di nuotare verso la superficie e di saltar fuori dall’acqua, di respirare altrove, anche se quell’altrove può ucciderli -. Fece una pausa, posò di nuovo lo sguardo su di me – non su di me, sul mio corpo che la conteneva. – Ma i pesci, alla fine, tornano sempre nel mare -, e non c’era traccia di tristezza, nella sua voce. La luce del mattino era liquida: non mi era mai parsa tanto familiare.