Non capimmo subito che qualcuno stava bussando alla porta. Era il tredici dicembre, la sera prima in piazza avevamo visto avvampare i falò di Santa Lucia e i vestiti erano impregnati dell’odore di fuoco, di legna bruciata, delle notti che precedono il Natale, e sono così buie che ci si illude di rischiararle con la festa, e sono così fredde che ci si stringe gli uni con gli altri, come gatti appena nati e ancora ciechi, come anatre sul bordo del lago artificiale, prima della gelata. Udimmo i colpi alla porta e non ci muovemmo, sarà un sogno, saranno i passi di qualcuno che scende la scale a precipizio, sarà un terremoto lontano da qua. Restammo a letto, niente può succedere al mattino presto, niente di brutto può accadere perché il mondo inizia e finisce nello spazio compresso fra la stanza e la cucina. Fuori non esiste; la vita è dentro le case. Bussarono ancora, stavolta più forte, sentii la porta vibrare, la mia stanza scossa dal rumore, come una crepa in un muro. Andò ad aprire mia madre, mio padre non doveva essersi svegliato, i colpi alla porta non avevano scalfito il suo sonno. – È la polizia -, sentii dire, – È la polizia, dobbiamo entrare -, e subito mia madre – Antonio -, invocò, – Antonio -, senza aggiungere altro, come se nominare mio padre bastasse a risolvere un problema, radice quadrata estratta senza indugi, soluzione immediata a un rompicapo da poco, che invece era sembrato insolvibile. – Abita qui Antonio Ranieri? -, domandò una voce d’uomo, un’altra, non quella che aveva fatto irruzione per prima nel nostro silenzio privato. – Il dottor Ranieri, sì -, e mia madre subito sembrò più calma: il nome di mio padre l’aveva acquietata. – Qualcuno s’è sentito male? Avete bisogno di lui? Antonio? -, chiamò di nuovo, – Antonio, c’è qualcuno che ha bisogno di te -, e allora fui io ad alzarmi, – Babbo -, mormorai, e mio padre era già in corridoio, il pigiama a righe e i piedi scalzi. Mi fermai dietro di lui, vidi il primo uomo – non era un agente, indossava un maglione rosso, come un travestimento natalizio –, andargli incontro, – Ranieri Antonio, nato a Roma il 28 marzo 1955? -, e l’altro non aspettò che confermasse, sono io, il ventotto marzo era il compleanno di mio padre, il ventotto marzo era il giorno in cui compravamo la Sacher da Luminari, il ventotto marzo andavamo a cena fuori e la gente ci portava regali in processione, sotto casa o dietro la porta dell’ambulatorio – olio d’oliva, formaggi, conserve di pomodoro con la data di produzione scritta a mano sul tappo, ceste di frutta –, il ventotto marzo tutti festeggiavano mio padre che li aveva salvati, che aveva messo la parola buona, che aveva stretto mani e chiuso occhi. L’altro non aspettò che dicesse sì, sono io, con la voce cavata a forza dal sonno, – non lo conosci mio padre? Com’è possibile? –, l’altro non aspettò e gli mise le manette intorno ai polsi, non dietro la schiena come nei film, ma davanti, mio padre con le mani legate davanti a sé, quelle mani che avevano guarito, risolto, spiegato, colpito, legate davanti a sé, zampette di coniglio spellato e speziato, cosparso d’olio, pronto ad essere sacrificato per fame, per desiderio, per necessità. Per capriccio. Distolsi lo sguardo. – Lasciatelo -, si disperava mia madre, – Antonio, non te ne andare -, e uno dei due uomini intanto piombò in cucina, lo sentivo frugare nei cassetti – cucchiaini, tovaglie, denti da latte, pile mezze scariche –, lo sentivo spostare sedie, la sedia di mio padre che non s’era mai mossa da capotavola. – Antonio -, mia madre non s’arrendeva, – Antonio, non te ne andare. Non ve lo portate. Stasera arriva zia Mina, se non ci sei tu, chi andrà a prenderla alla stazione? -.
Per quattordici anni sono stata figlia di mio padre. Sono stata figlia sua a lungo, figlia sua e basta, – Antonia del dottor Ranieri -, dicevano, e mia madre non esisteva, ero figlia di mio padre, avevamo lo stesso cognome e lo stesso nome. Quando ero nata, avevano voluto chiamarmi come lui, ero Antonia di Antonio, ero una Ranieri e basta, femmina per sbaglio, per colpa del cielo maligno, ma pur sempre figlia sua. Ovunque andassi, mio padre mi precedeva, arrivava prima di me e lo trovavo sulla bocca degli altri: il parroco, i vicini di casa, i genitori dei miei compagni di scuola, che erano operai, architetti, pescatori, professori del liceo e tutti, nessuno escluso, tutti amavano mio padre. Dico che lo amavano, ma non sono certa che fosse amore, giacché suor Claudia, una domenica, ci spiegò che la parola amore non si deve pronunciare mai e che è per questo che le suore se ne stanno zitte, inginocchiate e col fazzoletto in testa, a messa: è perché amano dio così tanto, da aver perduto la voce per dichiararlo. – Sei tutta tuo padre -, mi lusingava la gente; anche i miei insegnanti, sin dal primo giorno, abbandonavano la cattedra e mi venivano incontro, il mio banco era l’uscita dal purgatorio: – Sei la figlia del dottor Ranieri -, senza chiedere, già sapevano, sicché, ne ero sicura, i bei voti li mettevano a lui e non a me, ad Antonio padre, perché io ero sua figlia, scorciatoia alla strada che portava a lui. – Come suoni bene il piano! -, ma non erano le mani mie, erano quelle di mio padre, baciare il Cristo per ingraziarsi il Signore: funzionava così. Solo suor Claudia mio padre non lo nominava mai, – Salutami tua madre! -, mi raccomandava, – Che dio la benedica! -, e sapevo che non era per amore che non si metteva mio padre in bocca, ma pregava per mia madre. Lo sapevo, e in quella mancanza ci vedevo una blasfemia che mi esaltava.
Quando la polizia si portò via mio padre, nei primi tempi non ne sentimmo la mancanza. Iniziarono presto i giorni del consolo: quello stesso pomeriggio, ricevemmo la prima teglia di peperoni ripieni, poi un pollo della rosticceria, e poi focacce, biscotti, formaggi avvolti nel giornale, caraffe di vino e di caffè. La gente veniva in processione a confortarci, a portarci il consolo destinato di solito alle famiglie dei morti, a quelli che hanno perso un familiare come un dente – sognare di perdere i denti porta male, vedi come tutto torna, vedi come adesso tutto si spiega? –. Da noi, le lacrime del dolore si asciugano sui tovaglioli del banchetto, la morte toglie e il cibo dà, ultima cena a posteriori, prima cena di una vita di solitudine. Qualcuno giace in una cassa, già destinato a decomporsi, e gli altri non smettono di aver fame, sete, gli altri non smettono di sudare, di dormire, se possono, di vivere la loro esistenza squallida e disordinata e per questo opposta alla morte. Pensai spesso alla morte, in quel periodo – morte di buio, di segrete umide e fredde, morte di corpi stipati in spazi senz’aria: scantinati, crepacci, sottoscala infestati dagli scarafaggi: quella era la morte vera. Mio padre era vivo, ma la sua condizione, dopotutto, non doveva essere molto diversa da quella di un morto – nonno Giovanni, la vecchia del primo piano, la mamma di Annarita, investita da un’automobile davanti al negozio del marito. Me l’immaginavo così la sua cella, buia e stretta e umida; me lo figuravo così il mondo, oltre il muro di cinta del carcere. A trovarlo non ci andammo mai: mio padre doveva aver peccato parecchio, perché era finito all’inferno. L’inferno, se ci entri anche solo per vedere, non ti fa uscire più.
Lasciammo la città all’inizio della primavera; sulla bocca degli altri, il nome di mio padre aveva smesso d’essere motivo di vanto. Non lo si evocava più come un santo, la galera l’aveva scaraventato a terra, perciò si parlava di lui sottovoce, si congetturava senza mai enunciarne il nome, perché Antonio Ranieri era un delinquente, era un uomo maledetto da dio, era l’angelo che inganna e devasta, e noi, mia madre e io, rilucevamo del suo bagliore sinistro. Nessuno ci compativa più, il consolo s’era esaurito nel cibo, soprattutto in quello andato a male nei giorni in cui la smania di dimostrar devozione a mio padre – l’hanno preso per errore! Presto ve lo restituiranno! -, non aveva tenuto conto della misura del nostro corpo, quello di due donne rimaste sole a vegliare un vuoto abitato dalla vergogna.
Nella nuova città ero orfana. – Mio padre è morto -, annunciavo a tutti: vicini di casa, compagni di scuola, commercianti del quartiere. Non avevo segreti. – Mio padre è morto quest’anno -, e la gente spalancava gli occhi, m’investiva di pietà, di compassione, d’amore riflesso: povera figlia, così giovane e già ha perso il babbo. – Antonio Ranieri si chiamava -, rincaravo, – E io sono sua figlia, Antonia -, e chi m’ascoltava tratteneva a stento le lacrime: il nome di mio padre aveva di nuovo un’influenza. La menzogna aveva risvegliato la sua forza sopita. Per anni, ci credettero tutti; solo il professore di scienze, una volta, mi prese da parte: – So chi sei -, mi rivelò, – So di tuo padre -. Lo guardai dritto in faccia, non obiettai. – Io credo in dio -, gli risposi soltanto, – E dio dice che i morti, prima poi, ritornano in vita -, e nei suoi occhi intravvidi terrore. Nei miei, forse, vide un potere che non avevo, ch’era finzione, ma che funzionava. Come il nome di mio padre.
Quando m’innamorai di Neri avevo venticinque anni; fu la sua storia a portarmi a lui, il passato più forte del presente, le assenze che prendevano più spazio dei corpi vivi. Era figlio d’un uomo inesistente Neri, figlio d’un padre né vivo né morto, che se n’era andato a lavorare un venerdì di molti anni prima e non era mai tornato a casa. La famiglia l’aveva cercato: appelli in TV, sui giornali, volantini attaccati con lo scotch ai pali della luce, mentre la polizia lavorava sotto terra come le formiche, come le talpe, come Ambrogio, che scavava le fosse al cimitero e una volta m’aveva detto che i morti, dalle bare, aprono cunicoli per tenersi la mano di notte, per non stare da soli. L’amavo per amore della sua tragedia, per l’assenza del padre che consideravo affine alla mia, di assenza, ma m’ingannavo. Neri credeva che lo avrebbero ritrovato, diceva: – Quando tornerà a casa -, oppure: – Quando ce lo riporteranno -, come se non si fosse trattato d’un uomo ma d’un bagaglio smarrito, e io , incredula, lo contrariavo. – E s’è morto? -, lo incalzavo, – Non pensi che potrebbe essere morto? -, e lui si rabbuiava, allora una volta aggiustai il tiro: – E se fosse un delinquente? Un criminale latitante, un usuraio, sfuggito alla galera? -, e non era più a suo padre che pensavo, ma al mio. Lo vidi rasserenarsi, – Ne sarei felice -, ammise, – Meglio un padre delinquente che un padre morto -. Gli rivelai allora la verità su mio padre, e che non ero un’orfana, ma figlia di un carcerato, di un condannato. Mio padre era all’inferno, ma vivo. Smise di parlarmi; poi ci rappacificammo, ma la menzogna coltivata per anni e poi ritrattata era stata la sentenza emessa da un giudice immaginario ai miei danni e, nel giro di poche settimane, ci separammo: il nome di mio padre era stato letale. Il suo potere continuava a muovere il mio mondo, anche dall’oscurità del suo.
Iniziai presto a vedere altri uomini; ci incontravamo, andavamo a cena insieme, facevamo l’amore e glielo annunciavo: – Sono figlia di un delinquente. Mio padre è in galera -, e loro facevano spallucce, il coito era più importante del mio passato, il presente sovrastava la giustizia. Seguii lo stesso copione con Emilio: – Mio padre sta in prigione -, e lui invece mi stava già addosso, le spalle contro le mie, la faccia tesa ed estranea di un uomo per cui non esisti più tu, ma solo il tuo corpo, solo un bisogno cogente, come quello di orinare. Mi piaceva Emilio; non sapevo se mi piacesse davvero, perché il nostro rapporto era fatto di corpi e non di parole. Lui mi parlava e io non lo ascoltavo, lui sbocconcellava ricordi e io gli guardavo le vene sulle braccia, le labbra, la linea del collo. Non ero sicura di esserne attratta, dopotutto non lo conoscevo, ma credevo di sì e mi beavo di raccontarmelo, e per questo seguitavo a presentarmi agli appuntamenti.
Ci vedevamo solo da tre mesi quando scoprii di essere incinta. Glielo dissi senza preamboli: una sera entrò in casa e glielo annunciai. Sono incinta, in fretta, e poi: – Mio padre è un delinquente, sta in galera: s’è preso l’ergastolo -. Lui si confuse: obiettò che gli avevo già detto di mio padre, che non capiva perché gliene riparlassi proprio allora e che invece avevamo altro di cui discutere, della mia gravidanza, di noi due che saremmo diventati genitori, forse di un aborto, che ne pensavo dell’aborto? – No -, risposi, decisa. – Questo bambino lo tengo. È mio e lo tengo. Volevo ricordarti di mio padre proprio perché avremo un figlio. E adesso che ne sono sicura, solo adesso, sono pronta a sapere chi sei -.