Allungò una mano verso il comodino, nel buio, urtò gli occhiali, che caddero sul pavimento: si mise a sedere, li raccolse, cercò l’orologio da polso, se lo avvicinò al viso, con un gesto da miope, erano le cinque meno dieci. Si alzò, attraversò il corridoio – odore di pane bruciato e briciole contro la pianta dei piedi, briciole come sabbia e cadaveri di formiche –, e andò in bagno. Al piano di sopra, qualcuno si stava facendo una doccia, sentiva l’acqua prendere possesso delle tubature, invaderle: a che ora si svegliava la gente? Perché le vite degli altri andavano sempre così in fretta? Seduta sul bordo della vasca, chiuse gli occhi. Non aveva più sonno: aveva di nuovo una mattinata infinita davanti.
Dalla finestra della cucina, guardò la strada: era ancora deserta, c’erano poche auto; il posto della bancarella del fioraio era vuoto e non si era mai chiesta a che ora arrivasse. Chissà se era già lì quando suo marito rientrava dal turno di notte; non lo sapeva né poteva chiederglielo, perché suo marito l’aveva lasciata ed era un mese che lei si svegliava all’alba, da sola, un mese che i cento metri quadri del suo appartamento erano diventati una trappola. Una cella fuori misura, insopportabilmente piena di luce, impregnata dell’odore dei suoi aborti di cene, infestata dallo sporco che lei non trovava un buon motivo, un solo buon motivo per arginare. – Espanditi -, gli diceva, ad alta voce; – Avanti, prenditi il mio spazio, mandami via -, e sapeva di star parlando non allo sporco ma alla solitudine, sapeva che quel monologo era un sintomo da non trascurare. La sua voce s’infrangeva contro le pareti e precipitava sul pavimento, si disperdeva lungo le fughe delle piastrelle; nessuno rispondeva, perché suo marito l’aveva lasciata e lei era diventata il prodotto di un abbandono, un acquisto sbagliato e restituito senza incarto. Questo, niente di più.
Non riusciva a trattenersi, lo raccontava a chiunque; – Mio marito se n’è andato -, annunciava, e sulle prime la gente pensava alla morte, tratteneva le parole per paura di pronunciare quelle sbagliate. Allora lei si sentiva in dovere di spiegare, di piangere, – Mi ha tradita -, si lamentava, anche se non ne era sicura, perché lui non aveva voluto rispondere a quella domanda e le aveva lasciato il dubbio. Si era limitato ad ammettere di non poterne più del matrimonio e di lei, senza aggiungere altro, senza un dettaglio, senza una scintilla per alimentare il rancore. Forse l’aveva sposata per leggerezza, per noia, l’aveva indossata come s’indossa un cappotto troppo grande – l’ultimo del negozio –, e davanti allo specchio e agli occhi del commesso ci si decide a comprarlo lo stesso, solo per tornare a casa con qualcosa in più. Qualcosa in più per sé, piacere fugace e perverso, istinto superbo e distruttivo: forse l’aveva sposata per quello. Poi però l’aveva lasciata e lei doveva farlo sapere a tutti, specialmente a quelli che non la conoscevano e che quindi dovevano compatirla per forza: è più facile dar ragione a un estraneo. In fondo, chi lo rivedrà più? Perciò lei caricava la sua sofferenza come un’arma, puntava dritto contro il bersaglio – il polso fermo del tiratore scelto, la calma inodore di chi non ha più paura – e la svuotava senza pietà addosso al primo passante: il portiere, la barista, l’impiegata dell’ufficio postale, l’operatore di un call-center, che l’aveva chiamata per cercare di venderle un contratto di energia elettrica. – Mio marito mi ha lasciata -, aveva replicato una volta, la voce scossa da un tremito studiato, – Le pare che io possa darle una risposta, in queste condizioni? -, e quello aveva taciuto, impreparato. – Le pare che possa avere bisogno di qualcosa, quando a mancarmi è qualcuno? -, e aveva riattaccato, soddisfatta della propria banalità.
Aveva iniziato a comprare i fiori quasi tutti i giorni, come se la loro caducità potesse compensare l’infedeltà ipotetica del marito o come se la consapevolezza della loro esistenza effimera potesse aiutarla nell’esercizio della gestione del lutto d’amore, giacché le rose, le fresie e le margherite iniziavano a morire nel momento stesso in cui venivano avvolte nella carta di giornale. Anzi, allora erano già morte, prive di vita e bellissime, struggenti perché uccise apposta per essere guardate. Dalla finestra, spiava il fioraio che arrivava col furgone bianco: sistemava il tavolo, poi i vasi, il suo sgabello, la cassa e solo alla fine i fiori; verso le dieci scendeva, andava a scegliere un nuovo bouquet, confidava le sue ordinarie disgrazie a quel signore piccolo, di poche parole, dagli occhi sempre un po’ arrossati, dietro alle lenti da vista. Era novembre, e casa sua assomigliava a un cimitero, a una chiesa dopo un matrimonio o dopo un funerale, a un mercato della domenica; una mattina, dopo Natale, mentre l’uomo le porgeva il resto, lei scoppiò in lacrime. – Mi scusi -, biascicò, e lui pensò che fosse per il marito, temette di doversi ascoltare di nuovo la storia della separazione, dell’abbandono, della casa vuota, ma lei scosse la testa. – Lasci stare -, riuscì ad articolare, – Non so nemmeno io perché piango -, e strinse contro il cappotto un grosso giglio che non avrebbe tardato ad appassire. – Buon anno! -, le gridò il fioraio, mentre attraversava la strada, e lei non gli rispose. Quell’estraneo era la sola persona che le avesse lasciato intravvedere un accenno di futuro.
Una sera, all’inizio di febbraio, si accorse che erano tre o quattro giorni che non comprava fiori; sua sorella era venuta dal paese a trovarla, per spiegarle come fare a riprendersi il marito e a riguadagnare un umore accettabile, ma aveva fallito. Erano quasi le sei e mezza e scese di corsa; non le interessavano i fiori, in realtà: voleva vedere qualcuno, fingere una normalità che andava perdendo come una lingua che non parli più e che pure ti è stata madre. Era in riserva di parole altrui, di esistenze che non fossero la sua, e quel commerciante severo e mansueto le parve la soluzione più accessibile. Lo trovò che stava caricando sul furgone le ultime cose: iniziava a piovere, un vento gelido faceva tremare i pali dei segnali stradali, e il viale era avaro di passanti. Non aveva senso starsene a prendere freddo insieme ai fiori, le spiegò, la sincerità commerciale più forte della finzione sociale tra due estranei. – Allora mi accompagna a casa? -, gli chiese lei, e lui non capì, così lei dovette ripetergli la domanda. – Abito lassù -, aggiunse, e gli indicò una finestra illuminata, al quarto piano del palazzo alle loro spalle; – Ma si entra dall’altra parte -. Il fioraio accettò, l’imprevisto s’incastonò nella stanchezza di fine giornata come una lisca tra i denti. L’accompagnò sotto il portone e lei, prima ancora che lui potesse andarsene perplesso, lo baciò.
Iniziarono a vedersi a casa di lei due volte a settimana, poi più spesso, poi divenne un’abitudine; la stagione dei tulipani era appena incominciata e lei ne comprava tutti i giorni, li installava nei vasi, li abbandonava allo strazio della condanna a morte. – Anche se hanno già chinato il capo, sono ancora vivi -, le spiegava lui, e lei quasi si sentiva osservata dai quei fiori che adornavano la stanza come fosse un santuario, ma era sollevata adesso all’idea di non offrire più lo spettacolo di sé sola. Ogni tanto, mentre ancora stava parlando, l’uomo si addormentava e lei accendeva la luce, lo guardava da vicino, così diverso da suo marito e così sconosciuto. Si chiedeva allora cosa ci facessero insieme, così disperatamente spaiati, cosa ci facesse lei da sola, proprio lei ch’era nata per essere una di due, moglie di marito, e non trovava risposta, non trovava pace. Tuttavia, si aggrappava alle spalle strette di lui, lo tirava a forza fuori dal sonno affinché le facesse compagnia.
– Oggi ti debbo dare le peonie -, le disse lui, una mattina, vedendola arrivare davanti alla bancarella con un soprabito leggero, la bocca tinta di rosso e la borsa stretta sotto il gomito. – È finita la stagione dei tulipani -, aggiunse, e lei non esitò a replicare che anche la loro stagione era finita, che suo marito era tornato e non potevano vedersi più. Il fioraio non se la prese. Le sorrise, mentre spuntava i gambi delle peonie, e lei ne fu sorpresa, forse delusa, persino offesa; – Il bello delle stagioni -, le spiegò, – È che poi ritornano -, la salutò e andò incontro a un altro cliente. Lei non c’era già più.
Arrivò la primavera, poi l’estate; la donna smise di comprare fiori. Passava davanti alla bancarella col marito; il fioraio la salutava col solito garbo spiccio, – Buongiorno, signora -, e lei era stizzita da quella sfrontatezza, ma provava nostalgia per quel corpo sottile, per il respiro fiducioso di quell’uomo che solo pochi mesi prima le dormiva accanto, mentre lei gli raccontava la sua vita e lo implorava di ascoltarla, di prenderla con sé. – Buongiorno, signora -, e lei avrebbe voluto insultarlo, costringerlo a volergliene, a prendersela col marito che le era risbocciato accanto, come una maledetta orchidea, che credevi stecchita e che invece rifiorisce proprio quando stavi per buttare il vaso.
Venne l’autunno, arrivò Natale e poi ancora la primavera. L’anno nuovo si portò dietro gli avanzi del vecchio, ma la donna decise di non tenerli, di mettere ordine e di fare spazio: lasciò il marito e, questa volta, non ne pianse. Se ne liberò senza malinconia, come si mette via un cappotto logoro, dopo l’ennesimo inverno passato a perdere le chiavi nella fodera strappata, in fondo alle tasche.
Ai primi di maggio, si avvicinò alla bancarella, esitante, e aspettò il suo turno, chiedendosi se fosse o meno il caso di farsi rivedere. – Sei tornata appena in tempo -, l’accolse lui, e a lei sembrò di essere rientrata a casa; – Ancora una settimana e ti saresti persa la stagione dei tulipani -.