In banca faceva freddo; la scuola era finita da pochi giorni, il sole incendiava il cemento grigio del cortile, il pallone di gomma ci rimbalzava in mano rovente. Quella mattina, mia madre ci aveva svegliati presto, – Muovetevi -, aveva annunciato, sulla porta della stanza, – Oggi abbiamo un appuntamento -. Mi aveva infilato l’abito bianco di quando avevo fatto da damigella al matrimonio di zia Rosanna, che non era davvero mia zia, e che non mi piaceva perché aveva un neo sulla bocca e i suoi baci pungevano, sicché mi sottraevo alla sua stretta: preferivo quella educata e priva di entusiasmo di suo marito, zio Angelo, estraneo, dalla parlata flemmatica e forestiera. L’abito mi tirava sul collo e saliva fino al ginocchio; feci per protestare ma mia madre mi raccolse i capelli dietro le orecchie, me li appiattì con le mani bagnate, – Allora vieni in mutande, avanti -, e si chinò a prendere in braccio mio fratello, e lo portò dalla vicina. – Saremo di ritorno prima di mezzogiorno -, promise, quindi si rivolse a me: – Niente storie. Devi stare muta vicino a me, non mi lasciare mai la mano -, sibilò, e negli occhi le si accesero quelle venuzze rosse e minuscole che mi facevano paura, che minacciavano di esploderle contro le lenti da vista. Aveva indossato il completo blu e le scarpe col tacco, la borsetta chiara, e la vedevo che sudava, sulla fronte; mi teneva stretta a sé con la mano umida e borbottava parole che non potevo distinguere, come una preghiera, una poesia, una supplica mandata a memoria all’ultimo momento. Quando avevamo attraversato la doppia porta vetrata che dava accesso alla banca, mi aveva lasciato le dita all’improvviso, mi aveva spinta verso una poltrona. – Adesso ci asciughiamo e poi andiamo -, mi aveva spiegato, all’orecchio, e mi aveva passato un fazzoletto sulla fronte, sulla nuca, mi aveva slacciato un bottone sulla schiena e mi aveva sistemato i capelli sopra. – Così starai meglio -, aveva commentato, e poi aveva chiuso gli occhi, aveva mosso appena le labbra, – Andiamo -, aveva ordinato, e si era diretta verso uno sportello, saltando la fila, intromettendosi tra l’impiegata e il cliente, un uomo piccolo, con la testa lucida e una giacca pesante sulle spalle. – Devo parlare col direttore -, aveva proferito, e da dietro lo sportello la donna le aveva fatto cenno di attendere, ma mia madre aveva alzato la voce, – Devo parlargli adesso, ora -. La gente si era voltata verso di noi, mia madre che lottava e io che la proteggevo col mio corpo vestito da sposa giovane, la pelle d’oca sulle gambe. – Deve prendere un appuntamento -, la avvertì qualcuno, e intanto una guardia giurata si era avvicinata, ma mia madre aveva iniziato a parlare più forte, – Non ho bisogno di appuntamenti, il direttore lo conosco di persona, lo devo vedere! -. Ero orgogliosa di lei, del modo in cui si prendeva lo spazio e lo dominava, della sicura caparbietà con cui guerreggiava e vinceva, gridava e s’imponeva. Il direttore uscì dalla sua stanzetta e ci venne incontro, mia madre si placò; – Sono la moglie di Antonio, il muratore che si è sentito male a casa vostra -, si presentò. – Mi chiamo Lorenza e vi devo dire due cose -, e quell’uomo lungo come un ferro vecchio le fece cenno di entrare, le sopracciglia gli si congiunsero sulla fronte, mia madre parlò. Non di mio padre, che lavorava in nero e aveva avuto un infarto mentre gli ristrutturava l’appartamento, ma di sé: voleva un lavoro, sapeva battere a macchina e tener testa alla gente, era educata e puntuale. Il direttore la ascoltò, mentre osservavo ora la sua faccia esangue, ora quella alterata e umida di mia madre; non interruppe il suo monologo, annuì, allungò una mano verso di me per farmi una carezza: sapeva di sigaretta e di cibo, forse anche dell’olio di una focaccia. Quando uscimmo dal suo ufficio, erano le undici e mezza e mia madre era stata assunta: avrebbe iniziato a fare le pulizie a casa di quello sconosciuto l’indomani stesso.
Lorenza era nata per dominare; – Ho imparato a vincere -, ripeteva, – Bisogna farsi sentire -, e non si arrendeva finché non aveva ottenuto l’attenzione di tutti: i vicini di casa, che le tenevano mio fratello gratis e non si arrischiavano a contrariarla, il preside della mia scuola, che ci aveva concesso i buoni per la mensa e quelli per i libri, il pediatra, che veniva a guardarci le tonsille nonostante lei gli urlasse al telefono che era un incapace. In paese la conoscevano, la salutavano, un poco temevano le sue intemperanze, e io ne andavo fiera; mi sentivo importante, sapevo di essere rispettata e riverita perché ero figlia sua, perché per ottenere una medaglia le bastava uscire di casa e rivendicare la propria presenza nel mondo, o perlomeno così diceva, di questo si vantava. Sbraitava e ululava, – Vado a esibirmi -, annunciava, e quasi sempre dava spettacolo per noi; saliva su un palco immaginario, si poneva in mezzo alla luce come una solista jazz e strappava via la gente dalle proprie preoccupazioni per dedicarsi alle sue, estorceva applausi ed entusiasmo. – Diventerò come lei -, mi ripromettevo, simulando le sue guerre solitarie davanti allo specchio, ma più il tempo passava, più sembrava che la voce mi si ritirasse in fondo alla gola, mi si appiattisse contro le corde vocali, sepolte nel buio indicibile della laringe. – Sei come tuo padre -, mi rinfacciava, – Tu e tuo fratello siete nati per subire, vi dovete svegliare -, e sbatteva le porte delle stanze, scatenando in me uno sciame impazzito di dubbi, che si avventava sulle poche certezze che avevo, le aggrediva senza pietà.
Una sera, eravamo già andati tutti a dormire quando mia madre si alzò, accese le luci e irruppe in cucina; – Questo cane deve finirla! -, inveì, – Deve finirla! -, e la sua voce da contralto inconsapevole mi estrasse dai sogni confusi del dormiveglia, mi portò da lei. – Non lo senti? -, mi assalì, venendomi incontro, e scossi la testa; – Beata te! -, commentò, cattiva, e tornò a prendersela col cane, che in quel momento guaiva dalla strada e si faceva ascoltare più di lei. Abitavamo al piano rialzato e tutto ciò che si svolgeva sotto il nostro balcone si trovava alla nostra stessa altezza: sedevamo a tavola e le auto ci filavano accanto, dall’altra parte della parete, i semafori diventavano rossi assieme alla spia sullo scaldabagno, quando facevamo la doccia. Mi passai una mano sugli occhi, mio fratello ci raggiunse, piagnucolando confusamente, e lo udii anche io: il cane che abbaiava, che chiedeva qualcosa che noi non capivamo. – Deve finirla! -, imperversò lei, ancora, e io aprii la portafinestra, mi sporsi a vedere; la bestia se ne stava accucciata nell’aiuola, – Forse sta male -, azzardai, e lei non ne volle sapere, sbatté le imposte e se ne tornò a letto borbottando. L’indomani mattina, il cane era ancora lì, silenzioso e interrogativo, ma mia madre sembrò essersene scordata; non ne parlò più fino a sera, quando lui riprese ad abbaiare e a lamentarsi. Allora Lorenza uscì imprecando, prese il cane in braccio con la stessa rabbia con cui estirpava mio fratello dal pianto, e lo portò in casa, lo appoggiò sul tappeto davanti al lavello; era pesante e ferito. Lei lo fece curare, invocando al telefono l’intervento di un veterinario, e il cane subito smise di abbaiare, si arrese alla tirannia di mia madre, prese ad amarla in silenzio, con devozione guardinga. Nei primi tempi, Lorenza si rivolse alla bestia ostentando disprezzo, poi le si affezionò, era femmina e la battezzò una domenica mattina, rovesciandole addosso una tazza di camomilla, per distrazione. – Ti chiamerai Bea, perché beata te che puoi startene zitta -, le annunciò, e la accarezzò tra le orecchie, la rimproverò di non essere un buon cane da guardia.
– Non ci hai detto nemmeno arrivederci -, la rimproverò, piano, il giorno in cui Bea chiuse gli occhi per non riaprirli più, solo pochi anni dopo; l’avevamo accolta come un cucciolo, ma lei era già anziana, e, quando ci lasciò, nemmeno mia madre si disperò ad alta voce, ma pianse in silenzio, seduta sul pavimento del bagno.
Avevo quindici anni, allora, e Lorenza iniziava a occupare troppo spazio, spingendomi contro le pareti anguste della mia esistenza; mi vergognavo delle sue rivendicazioni, accettavo ciò che era ingiusto con la quiete rassegnata di chi sa che le cose vanno storte, qualche volta, e che non è sempre il caso di lottare. Piegavo la testa e andavo oltre, mi staccavo dalla sua carne e già stavo infrangendo la promessa di assomigliarle, di diventare la donna in collera che era lei, con l’arco pronto a far volare frecce addosso ai nemici. Invece che urlare e pretendere, piangevo e accettavo, lasciavo che ci si disamorasse di me senza oppormi, mi facevo sottrarre diritti e precedenze come tutti, come chi non ha la forza di resistere e allora dà la colpa al destino, al caso o alle statistiche. Quando mi sposai, lo annunciai a casa poco prima di spedire gli inviti e mia madre fu l’ultima a saperlo; temevo la sua reazione, la sua ribellione. Ero atterrita all’idea che potesse protestare, presentarsi in casa del mio fidanzato come aveva fatto col direttore della filiale del paese, prendersi l’amore e la considerazione che erano destinati a me con la stessa naturalezza con cui, quando andavo a scuola, si appropriava di quelli delle mie rare amiche, si guadagnava la loro ammirazione e oscurava la mia presenza con la sua, lei astro splendente e io opaco satellite, destinato a frantumarsi al suolo senza frastuono. Partecipò alle mie nozze restando al margine, dritta e logora nel suo vestito nuovo; parlò poco, mi fece gli auguri e se ne andò prima che arrivasse la torta, lasciando un vuoto più abbagliante dei riflettori che avevano illuminato la sua giovinezza riottosa.
La settimana scorsa, mi hanno telefonato dall’ospedale; mia madre era al pronto soccorso da ore, giaceva su una barella in mezzo a un corridoio, tra la gente che passava e la sfiorava col camice svolazzante. L’ho trovata distesa, quieta, la borsetta stretta a sé e le scarpe capovolte accanto ai piedi nudi e gonfi; me la sono presa coi medici, che mi hanno riferito che era ammalata da tempo, e con lei, che da sempre aveva saputo e mai mi aveva detto niente. Ho gridato, incapace di trattenermi, ho accusato il primario, gli infermieri, chiunque passasse lì vicino senza voltarsi verso di noi, e mia madre mi ha stretto forte la mano, infastidita, mi ha ordinato di tacere, di smetterla, di tornarmene a casa, e che il mio baccano non sarebbe servito a niente. – No -, le ho risposto, – Non vado da nessuna parte finché non ti spostano di qua -, e le ho domandato dove fosse finita la sua voce, che fine avesse fatto la veemenza con cui pretendeva ascolto e lo otteneva. – Zitta -, ha mormorato mia madre, grave, e mi ha sorriso a mezza bocca, ma con calma, senza derisione. – Zitta: si fa rumore per vivere -, mi ha detto, – E adesso voglio riposare -. L’ho guardata, le ho toccato la spalla, la fronte, i capelli crespi. Non occupava più spazio di Bea, il cane che ci era entrato in casa abbaiando e, lasciandosi addomesticare, si era già avviato in silenzio verso la morte.