La domenica mi sembrava sempre lontana; soprattutto il giovedì o il venerdì, quando il ricordo di quella precedente iniziava a essere sovrastato dai piccoli incidenti quotidiani. Avevo perso l’autobus e sciupato un’ora e un quarto, seduta alla fermata, col libro di scienze aperto sulle ginocchia e le mani coperte dalle maniche tirate del maglione; avevo fatto confusione col resto della spesa, e quando ero tornata indietro la cassiera si era accanita con me. – Non ti ho mai vista, non sei venuta qui -, aveva gridato, e invece di ribattere che non era vero, invece di urlarle che era una bugiarda avevo chiesto scusa e mi ero messa a piangere. Avevo dodici anni e non avevo ancora imparato il potere della calma, non sapevo come ordinare alla mia voce di smettere di tremare e di diventare disumana, come quella che annuncia le partenze e gli arrivi, nelle stazioni o negli aeroporti. Non mi ero nemmeno asciugata le lacrime, non avevo provato a difendermi, né a mostrare lo scontrino, la pasta che avevo appena comprato, i pomodori pelati; – Scusi -, avevo mormorato, e me ne ero andata, ero tornata a casa stringendo gli spiccioli nella mano. Era solo venerdì.
La domenica, mio padre mi portava fuori; iniziava a rammentarmelo dal sabato mattina, mentre facevamo colazione insieme, e lui usciva di casa prima di me. – Domani si parte -, mi diceva, e io non riuscivo a essere felice, avevo ancora tutta la giornata davanti, la più lunga della settimana. Avevo ancora ritardi da accumulare, errori che non avrei saputo evitare, risposte che mi sarebbero venute in mente troppo tardi, quando non sarebbero state più risposte ma inutili evidenze, buone soltanto a riempirmi i pensieri di un rimorso acerbo e per questo più amaro, più difficile da mandar giù con un bicchier d’acqua. C’era ancora tempo, prima del giorno dopo.
Uscivamo nel primo pomeriggio, quando dalle case degli altri si udivano le voci del pranzo e la sigla del telegiornale, e scendevamo le scale a piedi, passando attraverso l’odore di ragù, di frittura, di torta di mele. Davanti alla porta della famiglia del primo piano, rallentavo ogni volta, cercavo di indovinare cosa avessero cucinato; le gemelle venivano nella mia stessa scuola, ma non prendevano la corriera: i genitori le accompagnavano in auto. Non ci incontravamo quasi mai nell’androne del palazzo. – Muoviti -, mormorava mio padre, che era già arrivato di sotto, – Sennò facciamo tardi e ci perdiamo lo spettacolo -, e io ripetevo mentalmente cosa avrei detto alle gemelle, se mi si fossero materializzate davanti proprio in quel momento, costruivo discorsi che poi affidavo alla voce della donna delle partenze. Non la conoscevo, quella donna, ma credevo di volerle bene.
Ci mettevamo in macchina, mi sedevo accanto a mio padre e tenevo gli occhi spalancati, volevo verificare che la strada fosse sempre quella; contavo i semafori, le insegne dei supermercati. Sapevo quando avremmo svoltato a sinistra, quando mio padre avrebbe imprecato contro i motorini che ci superavano da destra; dopo il negozio di ferramenta, mi rilassavo, appoggiavo la schiena, mi toglievo gli occhiali. Eravamo quasi arrivati.
Andavamo in aeroporto tutte le settimane; era la nostra gita, il premio per non aver mancato mai un giorno di scuola, per aver fatto tutti i compiti, per aver scolato la pasta dopo otto minuti esatti. Le prime volte, accendevo la tv, mentre l’acqua bolliva, mi perdevo nelle domande dei quiz a premi e gli spaghetti si incollavano sul fondo della pentola, mio padre scuoteva la testa. – Devi prendere il tempo -, mi rimproverava, – Devi fare le cose per bene, altrimenti domenica non ti porto fuori -, e io mi rattristavo, – Ti prego -, piangevo, – Ti prego, partiamo lo stesso -. La sera dopo, puntavo la sveglia assieme all’acqua che iniziava a scaldarsi, supplicavo lei di aiutare la mia mente smemorata e mio padre di perdonarmi. Lui rideva, – Non è niente, Giulia, ce li mangiamo lo stesso, gli spaghetti molli: sembrano una frittata -, e io mi sentivo in colpa lo stesso, masticavo quella poltiglia insapore più a lungo del necessario.
In aeroporto, compravamo i giornali; sfogliavo le riviste per signora, i quotidiani, qualche fumetto. Poi mio padre mi portava al bar, mi comprava un gelato e si prendeva un caffè; andavamo a sederci davanti alla vetrata e guardavamo gli aerei decollare, gli aerei atterrare, la gente affrettarsi, correre trascinandosi dietro una valigia come se fosse stato un cane. Ogni tanto, vedevamo qualcuno piangere, abbracciarsi e poi separarsi, quando la donna delle partenze annunciava il loro volo; sugli schermi, osservavo i nomi delle città illuminarsi e poi spegnersi, e spesso mi domandavo dove si trovassero. Non lo chiedevo quasi mai a mio padre, perché si innervosiva, – Non le impari a scuola, queste cose? -, e io non sapevo cosa rispondergli, perché a scuola ci andavo tutti i giorni, ma non ricordavo. La mia memoria mi prendeva in giro, come quando mi sbagliavo col resto, come quando lasciavo la pasta squagliarsi nell’acqua bollente. – A te piace prendere gli aerei, papà? -, azzardavo, e lui socchiudeva gli occhi, – Oh, certo -, e mi raccontava di come fosse bella Venezia, di quanto sole ci fosse a Firenze, e del cielo di New York, che era il più lontano dalla terra di tutti, ed era per questo che lì avevano i palazzi più alti. – Quando ci sei andato? -, insistevo, ma lui non rispondeva quasi mai, e allora lasciavo perdere, perché voleva dire che era stato prima che io nascessi, o subito dopo, quando mia madre c’era ancora e si poteva ancora parlare di lei. A dire il vero, mio padre la chiamava per nome, diceva: “Rita”, come se non fossi stata figlia sua, come se fosse stata la madre di un’altra, e vedevo che soffriva, che gli mancavano le parole, come quando non avevo saputo cosa dire alla cassiera, così lasciavo perdere, gli chiedevo qualcos’altro.
Aspettavamo insieme che la saletta degli arrivi si svuotasse e si riempisse due, tre volte; restavamo a guardare gli aerei finché non diventavano piccoli e neri come uccelli, e ce ne tornavamo a casa. Ero felice; quando non dormivo, la notte, quando non riuscivo più a figurarmi il volto di mia madre, perché se ne era andata da così tanto tempo che iniziavo a dimenticarmi i suoi lineamenti e confondevo la sua voce con quella della mia vicina, il colore dei suoi occhi col mio, pensavo a quando avrei volato, un giorno. Avrei guardato dal finestrino l’aeroporto, avrei salutato quelli che, come me, aspettavano davanti a una vetrata di trovarsi davanti agli occhi solo cielo, cielo e basta.
L’anno scorso mi sono trasferita a Berlino; mio padre ha sessantacinque anni, adesso, e non mi è mai venuto a trovare, così per il suo compleanno gli ho comprato un biglietto; – Ti ho preso un volo che parte di domenica pomeriggio -, gli ho annunciato, al telefono, – Così sarà come portarmi in gita, ricordi? -, ed ero contenta, mi ero preparata il discorso da fargli, per paura di non trovare le parole. Lui si era rabbuiato, – Non ci voglio venire -, aveva dichiarato, poi mi aveva detto che preferiva il treno, anche se così ci avrebbe messo due giorni. – Ma perché? -, gli avevo chiesto alla fine, ed ero delusa e rattristata, e incapace di spiegarglielo. – Perché non ho mai preso un aereo -, mi confessò, piano. – Neppure una volta. Ho paura di volare. Ho paura di cadere e di finire in mezzo al niente -.