– Ci siamo già incontrate, vero? -, mi chiese, e con la mano cercò la borsa sulla sedia accanto alla
sua; la vidi affondare lo sguardo nel buio che racchiudeva il portamonete, le chiavi, il pacchetto dei kleenex. Poi dovette accorgersi che aveva gli occhiali nel taschino della camicia, perché li indossò, spinse di lato la borsa e si sporse verso di me. – Il tuo volto mi dice qualcosa -, aggiunse, e mi rivolse il suo sorriso sbreccato nel mezzo. Ripensai a quando era scivolata dallo sgabello e aveva battuto i denti sul bordo del tavolo: stava cercando di cambiare una lampadina e non poteva aspettare il ritorno di mio padre, la sera. L’avevo vista piangere e disperarsi, quella volta, e non riuscivo a capacitarmi di quanto sconforto potesse generare una scheggia di incisivo, un dettaglio insignificante, ai miei occhi di bambina. – Non sorriderò mai più -, aveva annunciato, – Non riuscirò a guardarmi più -, ed era tornata a singhiozzare, tirandosi su i capelli dalle tempie, come per far luce nella testa, – Mai più -. Invece, pochi minuti dopo, l’avevo spiata mentre, in piedi davanti allo specchio del bagno, esaminava quella fessura triangolare che si riempiva d’ombra quando pronunciava: – Io, io -, e poi faceva una pausa, – Irene -, e ripeteva il suo nome, cancellava l’alone del fiato dal vetro e tornava a ispezionare. – Non ti preoccupare -, l’aveva rassicurata mio padre, – Andremo dal dentista e tornerai come prima -, ma lei aveva pianto di nuovo, – Non tornerò mai com’ero perché nessuno si ricorda com’era quell’incisivo, solo io ho memoria di me stessa, solo io -. Invece, aveva dovuto ricredersi, perché il dottore le aveva ricostruito il sorriso esattamente come lo aveva avuto fino a un attimo prima dell’incidente, ma lei all’inizio non era stata contenta. Diceva che era diverso, lo aveva affermato sin da quando era uscita dallo studio dentistico, quando si era seduta accanto al babbo, in macchina; si era morsa il labbro inferiore, denudando gli incisivi di sopra e aveva spalancato lo specchio da borsetta di fronte al viso. – Guarda -, aveva ingiunto a mio padre, – Guarda come si è sbagliato -, e lui l’aveva canzonata, aveva riso, ma lo vedevo che era irritato, sapevo quant’era costato quell’intervento di cui lei non era soddisfatta. – Tu non te ne accorgi perché ti sei già scordato i miei denti -, l’aveva rimproverato, e allora lui l’aveva minacciata di romperle pure quelli di sotto, così lei aveva cambiato idea, non si era lamentata più. Nel giro di pochi anni, il triangolo di sorriso posticcio si era staccato e mia madre non aveva detto niente: si era tenuta il buco senza piangere e aveva imparato a coprirsi la bocca con una mano, quando rideva.
– Allora, dov’è che ci siamo già viste? -, insistette, e dovetti spiegarle che ero sua figlia maggiore Ines, e che eravamo sedute in una gelateria per festeggiare il mio compleanno; c’era molta gente, intorno, dovevo alzare un po’ la voce per farmi sentire, ma mia madre sembrò capirmi, annuì, – Allora auguri -, mi disse, e non le rimproverai di avermeli già fatti prima, la ringraziai e feci per cambiare discorso, ma lei si era già rabbuiata. – Scusami -, aveva mormorato, e intanto le nostre coppe fragola e vaniglia erano arrivate, – Non so che mi è successo -, e invece io lo sapevo bene e lei pure non ne era del tutto ignara. Mangiammo i nostri gelati parlando poco, per via del rumore; avevo sbagliato a portarla in quel posto, il medico me lo raccomandava da anni: dovevamo frequentare soltanto luoghi e persone che lei conosceva bene. Non dovevamo mai svirgolare, mai uscire dalla traccia delle abitudini. – Però non ti preoccupare -, riprese, quando eravamo uscite e stavamo camminando verso casa. – Anche se non mi ricordavo di te, sapevo di volerti bene -, e si fermò, mi fermai anch’io, le circondai le spalle col braccio. – Lo so -, le risposi, ma stavo mentendo: erano anni che mi ero dimenticata come fosse l’amore di mia madre.
Gli specialisti ci avevano parlato di demenza senile molto tempo prima, quando mia madre non aveva nemmeno cinquant’anni; aveva iniziato a perdere la memoria poco alla volta, prima come una maglia saltata nel lavoro all’uncinetto, poi con buchi sempre più ampi, che assomigliavano a strappi scomposti. La prima volta in cui ci eravamo allarmati davvero era stata una mattina di primavera, quando era uscita dalla sua merceria verso mezzogiorno, senza chiuderla; si era fatta una lunga passeggiata, era andata al mercato, era tornata a casa e aveva preparato il pranzo. Prima della frutta l’avevamo vista alzarsi in piedi di scatto, portarsi le mani al viso, – Cosa ho fatto! -, aveva esclamato sgomenta, e ci aveva spiegato che doveva tornare subito in negozio, che l’aveva lasciato aperto e noi ci eravamo precipitati, con mio padre e mio fratello, la tovaglia ancora sul tavolo e i piatti sporchi nel lavabo. Non era successo niente, nessuno era entrato a rubare bottoni e calzini e anche i soldi erano tutti nella cassa; ne avevamo riso, la farsa a esorcizzare la paura, la leggerezza a mascherare il pericolo e le probabili conseguenze. – Sarà la menopausa -, aveva commentato lei, – La menopausa mi fa uscire di senno -, e quella storia era diventata un argomento per riempire i vuoti delle cene coi parenti. – Sai che ho fatto il mese scorso? -, esordiva mia madre, e raccontava di quella stravagante dimenticanza, e tutti ridevano e lei pure, con la sua allegrezza sfregiata nell’angolo dell’incisivo, la mano spalancata a nasconderla.
Un’altra volta, si era scordata la caffettiera sul gas e quella era esplosa contro il soffitto, imbrattando le piastrelle della cucina; – Come sono sbadata -, si era scusata, – Sono così stanca -, e poi aveva iniziato a confondersi coi soldi, con le bollette da pagare, coi nomi. – Sto diventando come zia Luigia -, commentava, – Debbo convocare all’appello tutti i parenti prima di chiamare quello giusto -, si perdeva sulla strada di casa, smetteva di salutare le persone, i vicini, i clienti affezionati. – Hai bisogno di una vacanza -, le aveva detto il babbo, ma invece che in albergo si ritrovò ad accompagnarla in ospedale, una mattina in cui lei si era svegliata e cercava sua madre, angosciata come una bambina che si è persa al supermercato. Solo che sua madre se n’era andata da anni, io stessa non l’avevo mai conosciuta, se non in una fotografia ovale al cimitero, in bianco e nero, bordata di ottone dorato. Quella prima trasferta in ospedale ci aveva schiuso davanti un vocabolario nuovo, un lessico di malattie, di medicinali, di istruzioni precise e di dosaggi. – Andrà sempre peggio -, era stata la previsione del medico, e io avevo sperato che ci vedesse male come un meteorologo, come un astrologo, come uno che legge la mano alla stazione. – Tanto questi dottori sono meno affidabili di un cartomante -, aveva sentenziato mio padre, ma non era riuscito a ripulire la sua voce dalla paura, l’avevo sentito incespicare sulle consonanti, come tutte le volte in cui era a disagio. Cosa mi piace fare? Te lo ricordi cosa mi piace? -, mi chiedeva mia madre, ogni tanto, e io all’inizio le rispondevo sul serio, le parlavo del teatro di Eduardo De Filippo e le facevo ascoltare Lucio Dalla, le mostravo i vestiti che mi aveva cucito, i gladioli che aveva piantato sul balcone.
Aveva quasi settant’anni, adesso, e il suo passato iniziava e finiva nella memoria che mio fratello e io ne avevamo: noi due eravamo il suo cervello esterno, giacché mio padre ci aveva lasciati. Era accaduto un giorno in cui il suo cuore non se l’era sentita di arrivare fino al tramonto e non avevamo detto niente a mia madre, avevamo risolto il funerale da soli, tenendola all’oscuro, pregando che la smemoratezza sua giocasse a nostro favore. Lei non aveva posto domande, non mi aveva dato la sensazione di essersi accorta del cambiamento. Solo una sera, quando la sistemai a letto, mentre salutavo l’infermiera che oramai l’assisteva a casa, mi chiamò, allarmata. – Ines -, esordì, – Perché sono sola? -, e cercai di spiegarle che non lo era affatto, che c’eravamo io e l’infermiera, ma lei batté con la mano sul letto al posto di mio padre e io non seppi cosa replicare, l’infermiera le accarezzò i capelli. – Tu sei la mia figlia preferita -, le confessò allora mia madre, guardandola dritto negli occhi, e lei scosse la testa, – Lo so -, le rispose, – Ma non si dice ad alta voce -, e mia madre rise mostrando i denti, impudica e felice.
Verso la fine, avevo iniziato a mentire; – Cosa mi piace fare? -, mi domandava, e io ne approfittavo per inventarmi una vita che non era la sua, – Ti piace cantare -, improvvisavo, – Ti piace suonare il piano -, e nemmeno ne avevamo uno, in casa, il maestro di musica era un lusso che mai ci eravamo potute permettere. – Ti piace Parigi -, rincaravo, Parigi non l’aveva mai visitata, così le mettevo sotto il naso una foto di me stessa davanti a Notre Dame, – Questa sei tu da giovane -, asserivo, e lei faceva sì con la testa, si fidava di me: non mi conosceva, non sapeva chi fossi, ma ero sua figlia.
Un pomeriggio, poche settimane prima che morisse, mi ero addormentata accanto a lei; eravamo sedute in salotto, col balcone aperto; era quasi estate e, dal piano di sotto, risalivano le voci della radio accesa. Lei mi aveva svegliata, scuotendomi la spalla, – Mamma -, mi aveva chiamata, – Mamma -, e io avevo aperto gli occhi, ci avevo messo qualche secondo per realizzare che era me che voleva, che avevo smesso di essere Ines ed ero diventata altro per lei, per lei soltanto. – Sono qui -, le avevo detto, – Va tutto bene -, e lei si era messa a piangere. – Meno male -, aveva mormorato, – Meno male. Avevo paura che ti fossi scordata di me -, aveva aggiunto, e mi aveva coperto gli occhi con le mani, come faceva quando ero piccola e le raccontavo di aver avuto un brutto sogno.