Mia madre mi telefonò verso le undici. Chiamò al telefono fisso, quello di casa; – Vienimi a prendere a mezzogiorno -, disse, – Vieni tu da sola -, e riattaccò. Aveva il fiato corto, di sicuro aveva composto il numero di nascosto, tra il bucato da ritirare e l’aspirapolvere ancora da passare in corridoio e in salotto. La immaginai, in piedi in quella camera da letto estranea, col ricevitore in equilibrio fra la spalla e l’orecchio, lo sguardo puntato sulla porta, per paura di essere scoperta. Non c’era pericolo, in realtà, perché era sola: la dottoressa andava via ogni mattina, alle nove, e le lasciava le chiavi. Mia madre, poi, gliele restituiva prima di tornare a casa, le lasciava alla segretaria dell’ambulatorio, che la chiamava per nome. – Grazie, Teresa -, le diceva, con il sorriso accondiscendente di chi ti concede una familiarità a senso unico, che tu non puoi ricambiare. – La dottoressa ti ha lasciato questo -, le annunciava, e le porgeva un camice cui era saltato un bottone, oppure una blusa dall’orlo scucito. – Grazie -, mormorava mia madre, e in quella parola non c’era gratitudine, c’era rabbia, c’era la disperazione di chi non può sottrarsi e allora ringrazia, c’era la rassegnazione di chi ha imparato a baciare la mano di chi l’ha percosso, soltanto per prevenire un altro colpo.
Mi richiamò alle undici e mezza. – Ecco, non sei ancora uscita -, mi rimproverò, e stavolta la sua voce era normale, – Muoviti, non te ne scordare. Ho due borse pesanti -, e non riuscii a trattenermi, – Cos’è, cosa c’è dentro? -, le domandai, mordendomi le labbra per punire la mia impazienza. – Vieni e basta -, ordinò lei, e sapevo che in quel suo modo di fare, in quel suo offrire il boccone e poi sottrarlo, c’era la cattiveria meschina di chi non ha granché e ha imparato a lucidare la medaglia di ottone della madonna, fingendo che sia oro. Erano le vacanze di Natale, faceva freddo e iniziava a nevicare. Mi infilai la felpa di mio fratello sotto il cappotto e andai a cercarla.
Avevo tredici anni e mia madre lavorava a casa della dottoressa già da qualche tempo. Faceva le pulizie, tutti i giorni, dalle otto del mattino alle dodici, dal lunedì al venerdì; ogni tanto, ci andava anche di pomeriggio, soprattutto se la dottoressa doveva invitare gente a cena, oppure se aveva comprato un divano nuovo, se aveva sostituito il frigorifero o era impegnata nel cambio degli armadi. – Teresa, dobbiamo proprio mettere tutto a posto -, diceva, e s’includeva in quel noi, ma poi non faceva nulla: arrivava, esprimeva il suo disappunto per quel disordine e se ne andava. – Sono così stressata -, si lamentava, – In questa casa non si finisce mai di pulire -, e mia madre annuiva, si affrettava, si sentiva in colpa per quello sporco che ricresceva di notte, mentre la dottoressa dormiva, mentre suo marito, mentre i suoi i figli si riposavano dalla fatica di vivere in una casa come la loro.
Ogni tanto, la dottoressa scartava i vestiti vecchi: li ammucchiava in un angolo del guardaroba, – Teresa, vedi un po’ se conosci qualcuno cui possano interessare quegli stracci -, e mia madre socchiudeva gli occhi con l’aria di chi capisce, di chi è pronto a trovare una soluzione. Quando la dottoressa usciva di casa per andare in ambulatorio, mia madre raccoglieva ogni capo da terra, ripiegava tutto con cura e poi riempiva uno, due sacchetti della spesa, e li portava a casa. Al ritorno da scuola, trovavo pantaloni nuovi, logori sul fondo o tra le cosce, scarpe dal tacco consumato, meravigliosi maglioni, che si erano infeltriti al punto giusto da andarmi bene. Talvolta c’era anche qualche cintura, qualche borsa passata di moda. Ero felice, con mio fratello ci provavamo tutto davanti allo specchio, litigavamo per una tuta dell’Adidas che era troppo stretta per lui e che mi cascava giù dalla vita, quando la indossavo. – Possiamo aggiustare l’elastico -, diceva mia madre, – Posso accorciare i pantaloni -, e già pensavo a quando me la sarei messa per andare a scuola, già mi figuravo in mezzo alla gente, nella corriera, col logo sfavillante che mi brillava proprio sul petto.
La dottoressa, la detestavo. Anche i suoi figli, anche suo marito: detestavo tutti, e li salutavo sorridendo, facendomi rossa in viso, ingoiando le maledizioni che avevo imparato da mia nonna, masticando quelle che avevo imparato da mio padre, e che non osavo pronunciare ad alta voce. Diventavo sciocca, servile, ringraziavo anche in risposta a un arrivederci. Una volta, incontrammo la dottoressa al supermercato e io indossavo uno dei cappotti che aveva buttato qualche mese prima. Mia madre lo aveva adattato, aveva accorciato le maniche, aveva coperto una piccola macchia sulla spalla con una toppa a forma di fiore. Salutai la dottoressa guardandole i piedi, non ebbi il coraggio di riconoscerle negli occhi la sorpresa e la costernazione di vedere un suo vecchio vestito sul corpo di un’adolescente. – Quella non se n’è nemmeno accorta -, commentò mia madre, più tardi, quando le confidai la mia vergogna; – Quella si scorda delle cose che ha -, aggiunse. – Un giorno potrei pure portarmi via la sua camicia da notte, un cuscino del divano o il profumo che si spruzza tutti i giorni: non ci farebbe caso -, disse. – Quella gente ha talmente tante cose che ha disimparato a contare -, concluse, e io le credetti, iniziai a non pensarci più. Nei giorni in cui indossavo un paio di jeans che era stato dei figli, o delle scarpe cui avevamo incollato di nuovo la suola, o la borsa di camoscio con le frange, che usavo per metterci dentro i libri, passavo apposta davanti al suo ambulatorio. – Vediamo se te ne accorgi -, pensavo, e fantasticavo di entrarle in casa e di rubarle il soprabito rosa, quello che piaceva a mia madre, il vaso di vetro di Murano, i volumi di Harry Potter, che io avevo letto, prendendoli in prestito dalla biblioteca.
A settembre, iniziai ad andare al liceo; il figlio della dottoressa aveva due anni più di me, era in terza. Lo spiavo nel cortile, la vergogna di indossare i vestiti vecchi della sua famiglia si era riaffacciata, mi era esplosa in corpo assieme agli ormoni, assieme alle gambe che mi si erano allungate, assieme al seno, al sedere che non ci stava più nella tuta, che mia madre aveva riaccomodato per me. Un giorno, lo vidi venirmi incontro; indossavo la giacca dell’Adidas, quella col logo argentato, che doveva essere stata sua, o di suo fratello. Arrivò di fronte e me ed ero sola, sentii le labbra impostarsi nel solito sorriso di gratitudine che riservavo alla sua famiglia, le corde vocali contrarsi nei registri più acuti e stridenti. – Adesso mi chiede indietro la giacca -, pensai, ed ero pronta a togliermela, a restare in canottiera davanti a tutti, col reggipetto bianco e rosa che mia madre mi aveva comprato al mercato. Non potevo restituirgliela, era mia, dopotutto la dottoressa l’aveva gettata, e poi di sicuro se l’era già scordata quella giacca. Ormai era così vicino che potevo distinguere i segni dell’acne sulle sue guance, l’azzurro della montatura degli occhiali, la camicia a righe pulita, abbottonata fino al collo. – Marta -, mi disse, e io ebbi paura, non volevo spogliarmi, allora mi avvicinai, gli presi il viso tra le mani, come fosse stato un pallone da basket, e lo baciai sulla bocca. Il primo bacio della mia vita l’ho dato a un estraneo che indossava una camicia stirata da mia madre.