Intinsi il fazzoletto di cotone nel bicchiere d’acqua, lo strizzai tra il pollice e l’indice e lo strofinai sul grembiule. La macchia di sugo, da rossa che era, si dilatò, adornandosi di un’aureola arancione e stinse sul fazzoletto a fiori di mia madre, sporcandolo. Mentre allungavo di nuovo la mano verso il bicchiere, nel tentativo di riparare il danno, col gomito premetti sul manico del cucchiaio, che si sollevò dal piatto e mi sparò il suo contenuto – un resto di carne e di salsa di pomodoro rappresa – sulla manica immacolata. Adesso, le macchie erano due, sanguigne e impertinenti; provai a fregare disperatamente col fazzoletto pregno d’acqua sporca: invano. Sollevai lo sguardo e suor Nemesia era di fronte a me, in piedi, gli occhi azzurri, refrattari alla malinconia e all’indulgenza, ingranditi dalle lenti da vista. – Che stai facendo? -, mi chiese, l’ombra della punizione che già si allungava sulla sua voce. – Mi sto ripulendo, Sorella -, risposi, e distolsi lo sguardo, mi morsi le labbra per frenare l’istinto di inginocchiarmi come davanti a una madonna e baciarle le mani, implorando perdono, invocando una penitenza. – Smettila subito! -, mi ordinò, e tutte le allieve tacquero, le posate sospese tra la bocca e il piatto, suor Nemesia e io, che avevamo cancellato tutto il resto. – Nessun macchia potrà mai essere sbiancata completamente -, riprese, – L’errore corrompe per sempre l’intero -, aggiunse. Restò a fissarmi con gli occhi dilatati, finché non distolsi lo sguardo, il fazzoletto fradicio in mano, il bianco del grembiule profanato dal cibo.
Sedute a tavola, le altre ripresero a mangiare con cautela, a piccoli bocconi nervosi, la mano sinistra aperta sotto il mento ad anticipare catastrofi fortuite. A tutte noi era vietato usare un tovagliolo per proteggere il grembiule, triste uniforme monacale, mentre eravamo in refettorio; – Dovete imparare a governarvi! -, sibilava suor Nemesia. Quando ci sporcavamo, ci impediva di rimediare: ci esortava a esibire le macchie, come medaglie di demerito. – La vergogna vi salverà -, professava, e noi chinavamo il capo per evitare il suo sguardo di biasimo, promemoria doloroso del nostro errore, sintomo inequivocabile di una peccaminosa ingordigia. Ogni lunedì mattina, indossavamo il grembiule stirato dalle nostre madri e le macchie della settimana precedente, sottoposte alla furia della candeggina, cedevano il posto ad ampie cicatrici giallastre, indelebili, marchiate nella trama già logora del cotone.
Era il 23 di dicembre e la casa dei miei genitori era invasa dagli zii paterni, tornati per Natale dalla Germania: era la prima volta che li vedevo tutti insieme, la prima volta che avrei passato del tempo coi miei cugini. Avevamo la stessa età e la stessa faccia, i medesimi occhi scuri, cerchiati di nero, e il naso adunco, ma non parlavamo la stessa lingua. Ci trovammo a tavola insieme la sera dell’incidente con suor Nemesia, e poi le sere successive : li osservai a lungo, muta e interrogativa, mentre mangiavano. Sputavano parole straniere e lische di pesce, afferravano con le mani i carciofi fritti e li squarciavano in due, se li infilavano in bocca ancora fumanti e ridevano, mentre gocce di saliva torbida stillavano dalle loro bocche inesauste. All’angolo opposto del tavolo, mia nonna sonnecchiava, la testa ciondolante come il puntale cascante sull’abete ultimato, mentre mia zia, sua figlia, bisbigliava qualcosa con le mani in grembo. Era un’amica di suor Nemesia: in estate, era lei a farsi carico delle classi di ricamo del convento, e in quel momenti la detestai, la ferita del rimprovero al refettorio ancora aperta nel mio orgoglio. Soltanto loro due tacevano e digiunavano: gli altri parlavano forte, trangugiavano cibo ridendo e toccandosi, il dialetto dei miei zii contro la lingua scostante dei miei cugini, il cibo torturato, sbriciolato, schiacciato sui tovaglioli infilati nel colletto della camicia, con impressa l’impronta oleosa delle loro grosse labbra unte. Quella fame selvatica mi affascinava e mi spaventava. Mi ci rispecchiavo, ero come loro: mangiavo come una bestia, come quella mia famiglia che non capivo: ero un animale furioso e vorace. Non meritavo il bianco del grembiule.
Con lo sguardo, cercai di nuovo mia zia: stava ancora mormorando, le palpebre che le nascondevano le iridi, il volto pallido. Lei non era come me, non le assomigliavo affatto: avevo preso dall’altro ramo della famiglia. Io imprecavo e lei pregava: chissà se pensava alla madonna o alla faccia di suor Nemesia, quando recitava l’Ave Maria.
Avevo undici anni quando capii che mangiare doveva diventare una questione privata; conclusi la scuola dalle suore col grembiule pieno degli aloni di macchie, a memoria indelebile di colpe mai espiate. Mi iscrissi allora alle medie e poi al liceo; durante la ricreazione, non toccavo cibo. Osservavo un digiuno rigoroso e muto, mi affamavo fino al ritorno a casa, dove consumavo il pranzo da sola, o in presenza di mia madre, che tuttavia non si era ancora arresa alla mia fame intima, adolescenziale e scomposta, e scuoteva la testa, come suor Nemesia.
Verso i sedici anni, sperimentai i primi amori a stomaco vuoto, come prima di un prelievo di sangue, e consegnai le mie labbra a quelle di sconosciuti con lo stesso capogiro di chi si è appena fatto infilare un ago in una vena. Rientravo a casa prima delle dieci di sera e il mio era un coprifuoco di sopravvivenza più che di rispetto filiale; rifiutavo gli inviti ai compleanni e alle feste, mi affacciavo alla giovinezza con la bocca pulita e l’alito saturo di succhi gastrici, pur di non dover affrontare il cibo in presenza d’altri. La sola idea mi ripugnava, mi faceva sentire indifesa, sola come una condannata a morte che per timidezza, e non per superbia, non ha saputo invocare misericordia.
Una sera, durante l’estate dei miei vent’anni, Enzo mi portò verso una gelateria, poi si sedette prima che potessi oppormi, inorridita e spaventata. Ordinai una coppa alla stracciatella e non riuscii a rifiutare la panna perché stavo già pensando alla punizione che incombeva, la voce bassa di suor Nemesia che già mi minacciava, le preghiere mute di mia zia che mi promettevano sciagure. Parlai tanto, con foga, risi senza ragione, mentre Enzo assaporava il suo gelato, si sporcava le dita e se le leccava, mentre io lo valutavo e lo giudicavo e lo condannavo, piena di paura e di un’arroganza difensiva. – Guarda che si scioglie! -, mi avvertiva, ogni tanto, io annuivo, rimestavo col cucchiaino e mi compiacevo della mia condotta. Un’altra volta, l’anno dopo, Roberto mi regalò dei cioccolatini. – Mangiamone uno! -, propose, a tradimento, alla fine della serata, e scartò il suo, se lo infilò in bocca e socchiuse gli occhi, lo masticò ostentando un piacere osceno. Poi ne scartò un secondo, me lo spinse contro le labbra e le schiusi mio malgrado, accolsi nella mia bocca il sapore burroso e stucchevole della glassa alle nocciole. Lo tenni sulla lingua per un tempo interminabile, poi sentii la saliva contro il palato, contro l’interno delle guance, e mi venne da piangere, così lo distrussi sotto i molari, mi avventai sulla sua fragile consistenza, lo spinsi in fondo nel buio del mio corpo. Roberto mi guardava, si aspettava gratitudine: gli rivolsi un odio triste e rabbioso, desideroso di vendetta.
Quando, qualche anno dopo, andai a vivere con Cosimo, chiarii subito le condizioni. Lo amavo, ma affinché quel sentimento durasse non avremmo mai dovuto mangiare insieme. Mai. Beninteso, avrei cucinato per lui, la sera, ma ci saremmo seduti a tavola in momenti diversi. Lui accettò, senza darci troppo peso, e quella stretta di mano che ci eravamo scambiati in bilico, per tenerci in equilibrio e non cadere, ognuno sull’orlo del proprio burrone, divenne la base per la relazione più solida che avessi mai sperato coltivare.
– Ha un’altra -, mi annunciò una collega, una mattina, senza preamboli. – Cosimo ha un’altra -, ripeté, rivolgendo a me quelle parole che cercai di deviare verso qualcun altro, verso il muro, verso il nulla. Non risposi, notai una macchiolina scura, sotto il collo del suo pullover, forse uno schizzo di caffè o di salsa, sintomo di una pericolosa lascivia alimentare. Ebbi l’istinto di strofinarle la maglia con un fazzoletto bagnato, come quella volta nel refettorio delle suore, ma nascosi le mani dietro la schiena, la ascoltai raccontarmi di Cosimo e di quest’altra donna, che pranzavano ogni giorno assieme, al ristorante e si mangiavano il mio amore e i nostri compromessi.
Quel giorno stesso, andai a contemplare il tradimento subito, crudele come un chirurgo che non asporta il male, ma apre il corpo corrotto e ne scruta il mistero: era vero, vidi Cosimo che mangiava, come la sera, seduto nella nostra cucina, davanti alla cena che gli avevo preparato io e che avevo consumato prima di lui. Mi sembrarono, lui e quella sconosciuta, l’uno di fronte all’altra, insopportabilmente nudi, indecenti e spregiudicati. Continuai ad andare a guardarli per giorni, senza mai dir niente a Cosimo: mi fermavo sul marciapiedi opposto, attenta a non farmi vedere, avida di quell’intimità dolorosa e bestiale, affamata di quella normalità che non mi era concessa. Un mercoledì, non li trovai, così mi sedetti al loro posto e ordinai l’intero menu del giorno: non volevo mangiare, in realtà, volevo studiare gli altri e basta. Volevo sentirmi migliore di loro, più pulita, sebbene mia madre non avesse mai smesso di rinfacciarmi il corredo genetico paterno, il modo di far sparire il cibo in bocca senza respirare, il capo troppo vicino al piatto, come i miei zii, come i cugini che non vedevo mai e che tuttavia mi erano fratelli nel sangue selvaggio.
Avevo appena mandato giù l’ultimo boccone del secondo, quando mi accorsi di Cosimo e dell’altra donna, che erano entrati nel ristorante e si dirigevano verso il loro tavolo; avevo infranto il mio imperativo e avevo finito per arrendermi alla debolezza, alla malagrazia congenita, alla fame ereditaria e irreligiosa. Avevo paura, ma ero ancora viva. – Cosa ci fai qui? -, mi aggredì Cosimo, disarmato e rosso in volto; – Che ti è preso? Non ti vergogni più? -, insistette. – No! -, gli risposi, senza risentimento, mentre strappavo un pezzo di pane e me lo portavo alla bocca, i denti che vincevano la trama elastica, la lingua e il palato che si preparavano a deglutire. – No, ho imparato, grazie a te, che non c’è niente da nascondere -, conclusi.
Con un cenno chiamai il cameriere: detestavo aspettare, tra una portata e l’altra. Il digiuno era durato troppo a lungo.