Avevo tenuto gli occhi aperti per tutto il tempo; il desiderio non mi riguardava più, era una lama sporca che minacciava ma non feriva, si mostrava ma non affondava; il corpo di Bruno era l’ostacolo fra me e il coltello. Ne riconoscevo il calore umido, l’odore di dopobarba e il tintinnare della sua collanina d’oro, che colpiva i miei occhiali a ogni movimento; serrai forte le palpebre, strinsi le mani intorno alle sue braccia. Quella era l’ultima volta che ci vedevamo, ma non glielo avevo ancora detto; volevo lasciargli qualche momento, prima di farlo, concedermi l’illusione di una vita identica a quella che stavamo vivendo da anni e che, tutto sommato, non disturbava nessuno. Nell’istante in cui Bruno sospirò, e si lasciò cadere accanto a me, cercandomi le dita col palmo della mano, mi ricordai che era giovedì e che non ero ancora passata in lavanderia, a ritirare la giacca di mio marito. Avrei dovuto fare in fretta, chiudere quella parentesi d’amore scomposto e di sudore concitato, e arrivare davanti al negozio prima della chiusura.
Con Bruno, ci vedevamo da otto anni; sapeva del mio matrimonio, ma si era accomodato bene negli interstizi fra la mia noia e la sua incapacità di una vita ordinaria, tra il mio eccesso di solitudine e la facilità con cui lui coniugava promesse al futuro, come se nessuno potesse negarci qualcosa e come se mio marito fosse soltanto un anello d’oro che mi pesava all’anulare. Avevo iniziato ad andare a casa sua come si accende la prima sigaretta, schermando con la mano la fiamma dal vento, con la stessa serietà che si concede a un vezzo, a un capriccio improvviso, al desiderio notturno di cioccolato, quando già sei adulto e non permetti a nessuno di ricordarti che è inopportuno. Poi erano passati i mesi, il primo anno era sparito oltre la curva, e Bruno era diventato qualcosa di intermedio fra un’abitudine e una necessità; ero innamorata di lui, o perlomeno così avevo deciso, incollando con cura l’etichetta del sentimento sul nostro rapporto e poi cambiando subito idea, provando a grattarla via dagli angoli, senza riuscirci del tutto. Avevamo continuato a incontrarci, il sesso come un pretesto più suo che mio; ci chiamavamo amore per semplificare, e avevamo finito per crederci, come due bambini che, dopo Carnevale, non vogliono svestire la maschera e piangono, davanti allo specchio, perché non riconoscono più la loro identità ordinaria. Mi portavano da lui l’urgenza e la mancanza, la certezza di trovare qualcuno che tenesse al mio spreco di vita del mattino e di pomeriggi interi, al punto da trasformare la mia inattività in una risorsa; – Come faremmo se tu lavorassi? -, mi chiedeva sgomento, a volte, poi mi prendeva le mani, mi abbracciava nel suo salotto, dove aveva conservato una fotografia di sé e di sua moglie nel giorno delle nozze. La loro unione era durata sei mesi appena: quelle promesse sull’altare, lei gliele aveva fatte pensando a un altro.
Non fu facile dirgli che era finita; avevo preso la decisione lucidamente, con dolore: dovevamo rompere prima che lui mi venisse a noia, dovevo separarmene adesso che lo amavo ancora, mi ero ripromessa, e avevo usato proprio quel verbo, “amare”, mentre ci pensavo, ma me ne ero accorta solo dopo, quando ormai era fatta. Sollevai entrambe le mani, mostrandogli il palmo, quando iniziò a protestare, a piangere; volevo ergere una barriera tra noi due e mi sembrava che mi bastasse quello per allontanarlo, ma non fu così. – Non puoi -, protestò, all’inizio, ma si arrese presto. – Non posso continuare a mentire a mio marito -, gli spiegai, banalmente, e i miei occhi andarono verso la fotografia. Lui se ne accorse, pianse di più, ma mi sembrò che fossero lacrime di sconfitta più che di dolore; mi parve fallimento, l’ombra sul suo volto, e non amore ferito.Tornai a casa prima delle otto, la giacca di mio marito sotto il braccio; di sicuro, sulle clavicole, sul collo, tra i capelli, dovevo conservare ancora l’odore di Bruno: sarebbe bastata una doccia a cancellare per sempre i resti di ciò che eravamo stati.
Quella sera stessa, mio marito mi lasciò; aveva un altro amore che cresceva, come una pianta di basilico sul davanzale, e non intravvidi pudore, sulle sua labbra, mentre mi spiegava la sua incapacità di sottrarsi a ciò che ignoravo, né riuscii a stanare il senso di colpa, nella sua voce. Fu rapido e neutro come un’annunciatrice televisiva e a un certo punto lo vidi persino sorridere, mentre mi consegnava mezze verità, mentre mi spiegava che capiva il mio sconcerto, che mi avrebbe concesso del tempo, e che dovevo pensare a me, adesso. – E bravo Antonio -, mormorai tra me e me, mentre lo ascoltavo soltanto a metà e desideravo che se ne andasse, affinché potessi richiamare Bruno, dirgli che mi ero sbagliata, che era stato uno scherzo, implorarlo di riprendermi. Antonio, invece, continuava a parlare, sembrava non dovesse smettere più; – Potevi pensarci prima -, mi lasciai sfuggire, a un certo punto. – Se me lo avessi detto ieri, oggi non sarei stata sola -, ma lui non capì, mi ripeté che gli dispiaceva e uscì, chiudendosi piano la porta alle spalle. Chiamai Bruno subito, mentre mio marito aspettava ancora l’ascensore, sul pianerottolo, e io guardavo la sua nuca dallo spioncino; rimasi immobile, a fissare il suo nome che lampeggiava sullo schermo del telefono per minuti interi, senza ottenere risposta. Gli scrissi un messaggio, poi un altro, poi riprovai a chiamarlo. Non mi rispose mai, né quella sera, né nelle settimane a venire. Era l’inizio di ottobre e, sebbene ci fosse sempre meno luce, fuori, avevo la sensazione che fosse ancora estate, che nulla fosse cambiato e che la mia vita non si fosse frantumata come un bicchiere sotto un tacco, ma solo smontata, pronta a essere rimessa insieme al più presto, seguendo le istruzioni di un manuale che tardava ad arrivare.
Nei primi giorni, non piansi quasi mai; a chi mi chiedeva di Antonio, rispondevo che era in viaggio, che lavorava molto, oppure dissimulavo, affermavo che era a casa, che andava tutto bene, e fingevo stupore per i dubbi dei vicini, degli amici, dei commercianti del quartiere. – Ma se ti ha risposto lui al telefono, ieri -, mentii a mia madre, una volta in cui mi chiese di mio marito, perché era molto tempo che non lo sentiva. Lei sulle prime esitò, provò a contraddirmi, poi la sua attenzione si spostò altrove e smettemmo di parlarne, trattenni tra la lingua e il palato la disperazione di non avere interlocutori, orecchie adatte ad accogliere i miei dolori.
Tuttavia, una mattina cedetti alla verità e alle lacrime, e raccontai tutto; non a mia madre e nemmeno a un’amica o a una persona pronta a confortarmi e a schierarsi dalla mia parte. Era la prima giornata di pioggia della stagione, ed ero uscita di casa senza farci caso, con la giacca leggera e un ombrello mezzo rotto; entrai in un bar, mi avvicinai al bancone. – Aspetta suo marito? -, mi chiese il cameriere, e il suo tono gentile e privo di dubbi mi strappò la crosta dalla ferita, mi colpì in mezzo alle costole. – Mio marito mi ha lasciata -, ammisi, e piansi di fronte alla sua faccia costernata, incurante dell’imbarazzo suo e degli altri clienti. Raccontai ogni cosa, le parole schiacciate dal frastuono dei piattini contro il marmo, i singhiozzi soffocati dal vapore delle macchine per fare il caffè. Il barista giovane annuì e basta, senza comprensione; una donna, accanto a me, mi strofinò la mano sulla schiena: – Passerà -, mi assicurò, – Vedrà che passerà -; mi sentii sollevata, mi piaceva ascoltarmi mentre mi disperavo, la mia voce impregnata di lacrime era credibile, era efficace. Copriva ogni altro dolore, come quando hai un mal di testa prodigioso e ti bruci il polso per distrazione, col ferro da stiro, come quando sta nascendo tuo figlio e scopri che tuo marito ha un’altra; questa sofferenza, però, me l’ero solo immaginata, perché di figli non ne avevo avuti e la mia solitudine, adesso, era assoluta.
Iniziai a confessare il tradimento di Antonio, omettendo il mio, a chiunque, con metodo e con gusto; era come sedersi di fronte al proprio dolce preferito e mangiarlo lentamente – prima la glassa di cioccolato, poi il pan di Spagna, la marmellata, la crema pasticcera che sfugge alle labbra e cola sul piatto, pronta a farsi raccogliere con la punta del cucchiaino. Godevo della reazione di chi ascoltava, inventavo dettagli che non esistevano e piangevo: sapevo piangere al momento opportuno, le mie lacrime erano lo zucchero a velo sulla pasta frolla, le offrivo con generosità, peccaminose e ricche, senza trattenermi, spingendomi sempre un po’ oltre, ogni volta più avanti. Ne parlai con mia madre, con le amiche, col medico di famiglia, che non seppe come curare la mia afflizione simulata; informai i vicini di casa, pure, studiando il momento giusto per uscire insieme a loro, per bloccarli in ascensore o nell’androne con la cronaca dei miei disamori, col racconto dell’abbandono.
Mi piaceva stare da sola; mi svegliavo tardi, il profumo che mi spruzzavo restava sul corpo mio soltanto, non dovevo guidare nel traffico fino a casa di Bruno. La sera, ordinavo la pizza, andavo a passeggiare sul lungofiume, assieme agli innamorati adolescenti che si scambiavano saliva e sigarette; mangiavo il gelato al freddo, in piedi, davanti alla pasticceria, andavo al cinema a metà del pomeriggio, quando già era buio, ma avevo ancora tutta la giornata davanti. L’abbandono mi donava come un vestito nuovo, come un taglio di capelli e ogni giorno me ne prendevo cura, lo lustravo, lo mostravo con orgoglio, pietra preziosa che mi brillava al collo.
All’inizio di dicembre, mi telefonò mio marito; mi disse che mancava poco a Natale e che pensava spesso a me, che forse s’era ingannato e aveva confuso l’amore con un errore: quell’altra donna era stata per lui come il sole troppo forte contro il parabrezza dell’auto, che ti acceca e ti fa passare col rosso. Mi chiese di vederlo e io non risposi, ma lui insistette, la sua voce barcollava; – Ci penserò -, concessi, alla fine, e gettai un panno sulla sua immagine, nei miei pensieri. Anche Bruno si fece sentire; mi chiese scusa per non avermi risposto e per avermi aggredita col silenzio, e la sua voce era la stessa che mi parlava d’amore, mesi prima: la sentii farsi spazio dentro di me, riprendersi ciò che le avevo tolto. – Va bene -, acconsentii, quando mi propose un incontro, e gli diedi un appuntamento in un caffè, – Martedì sera, alle sette -, ed ero impaziente e felice, perché finalmente la mia vita stava iniziando a funzionare come doveva, e la precisione del suo meccanismo era, per me, una rivelazione. Chiamai mio marito subito dopo, gli spiegai che accettavo la sua proposta: gli comunicai giorno e ora e mi feci ripetere più volte che andava bene, che ci sarebbe stato, che era quasi emozionato; – Anche io lo sono -, gli risposi, e non stavo mentendo, ero sincera, per la prima volta dopo molti anni.
Quel martedì, alle sette, andai all’appuntamento; arrivai un po’ in anticipo e mi fermai sul marciapiedi di fronte, per aspettare il momento giusto e intanto calmarmi, inspirare e poi soffiare fuori il fiato bianco e visibile. Mio marito arrivò per primo, si sedette al tavolo dietro i vetri, il solito; camminava in fretta, la schiena curva e un berretto sulla testa. Poi, subito dopo, vidi entrare Bruno; si diresse allo stesso tavolo di Antonio e si chinò verso di lui, di sicuro gli stava dicendo che aveva un appuntamento e che avrebbe voluto sedersi a quel tavolo, proprio a quello, perché così gli avevo precisato, al telefono. Erano loro, non potevo sbagliarmi: erano gli uomini che avevo creduto di amare, nascosti appena da un leggero strato di brina, sui vetri. Restai a osservarli ancora per qualche secondo, poi voltai le spalle, e me ne andai. In tasca avevo il biglietto per lo spettacolo delle sette e mezza, al cinema.