Venne a suonare alla mia porta una domenica sera. Stavo guardando le repliche di uno sceneggiato, mentre cercavo invano di fare addormentare la bambina, e lei mi rispondeva gonfiando bolle di saliva con le labbra, ridendo in faccia alla mia stanchezza di una settimana intera. Volevo andarmene a letto, lasciarla sveglia nel buio della stanza. Mi alzai e andai ad aprire. Mi trovai sull’uscio la figura trafelata di Lucia, mi voltai a cercare con lo sguardo mia figlia, quasi a rassicurarmi che quella comparsa inattesa non l’avesse contrariata. – Mi devi accompagnare dalla polizia -, mi ordinò. – Mi ci devi portare ora! -. Le spiegai che mio marito non c’era, che era al lavoro e lei replicò che lo sapeva, che lo aveva visto uscire, ma che era urgente, dovevamo far presto: mi sembrò di sentire la sua voce tremare e provai compassione e paura, così prendemmo la mia auto. Guidai in silenzio.
Il commissariato del paese era una specie di ufficio postale spoglio, con un solo sportello; ci accolse un agente, ci chiese cosa fosse successo, ma non toccava a me rispondergli. Mi sedetti in disparte, con la bambina che mi pesava tra le braccia. – Ora te ne puoi andare! -, mi aveva intimato Lucia, quando mi aveva vista parcheggiare e scendere dopo di lei, ma avevo finto di non sentirla e l’avevo seguita dentro.
– Debbo denunciare la scomparsa di una persona -, annunciò, sbrigativa, e iniziò a spiegare che Rosalba, sua sorella, con cui viveva e gestiva un negozio di pentole e stoviglie, si era allontanata la mattina del giorno prima e non aveva più fatto ritorno a casa. – Si è portata la 128 -, aggiunse, – La targa la ricordo a memoria -. Mi sporsi per ascoltare meglio: da dietro il vetro, l’uomo in divisa le spiegò che sua sorella era una persona adulta, che poteva andare dove le pareva, che poteva essere un allontanamento volontario e che non bisognava allarmarsi. – L’hanno rapita! -, insistette la donna, la voce più acuta, e si aggrappò con le mani al davanzale in marmo dello sportello. – La prego -, aggiunse, e temetti che si mettesse a piangere, fui sul punto di alzarmi, di supplicare anche io con lei. Sentii la bambina sussultare, la sua fronte contro il mio collo, il respiro di chi dorme.
L’agente iniziava a spazientirsi, le chiese il suo nome, – Greco. Lucia Greco -, e lo vidi compilare a mano un formulario, senza guardare. – E sua sorella come si chiama? Greco e poi? -, incalzò, impaziente di vederci andare via. La donna taceva, sembrava aver perso la determinazione che ci aveva condotte fin là. – Signora, mi ascolta? Greco, e poi? il nome? -, ma non ricevette risposta. Mia figlia gemette, mi alzai in piedi e mi avvicinai a Lucia. – Si chiama Giuliani. Rosalba Giuliani -, scandì. L’agente era perplesso, mi parve incuriosirsi; – Non siete sorelle? -, e per la prima volta sembrò realmente interessato alla faccenda. La donna scosse il capo, rabbiosa, – Ora possiamo tornare alla denuncia? -, chiese, la voce intrisa di pianto, l’angoscia che virava verso l’umiliazione. A quel punto, il questurino uscì dal suo gabbiotto di vetro e andò verso la donna. – Non posso far niente -, provò a spiegarle, – Se non siete parenti non posso far niente -, e Lucia si mise a piangere, – Cerchiamola adesso -, ripeteva. L’agente provò a consolarla, le disse di tornare l’indomani, o meglio ancora il martedì o il mercoledì: ci avrebbero pensato allora e intanto sicuramente la signora sarebbe tornata a casa. Per il momento, non poteva aiutarla: Rosalba non le era nemmeno sorella. – Ma se non siete sorelle -, azzardò a un certo punto, – cosa siete? cosa le è questa persona? -, e il pettegolezzo si insinuò nel dovere professionale, le labbra del poliziotto si prestarono alla diceria, pronte a svendere i dolori privati degli altri come merce di contrabbando. – Non mi è niente -, rispose la donna, improvvisamente invecchiata, la collera che prendeva possesso della sofferenza. – Mi è tutto e niente -, precisò, e si voltò, si diresse verso la porta. La seguii fino alla mia auto, il sonno di mia figlia che mi rallentava i passi, e tornammo a casa. Solo una volta arrivate, Lucia sembrò riscuotersi, – Grazie -, mi congedò, e la lasciai andare.
L’indomani mattina, alle sei, ero già sveglia insieme alla bambina; sentii il portone di Lucia chiudersi e mi avvicinai alla finestra: stava uscendo in quel momento, gli stivali da pioggia e il cappuccio della giacca a vento tirato sopra la testa. Tornò la sera, uscì di nuovo il martedì, e il mercoledì, e il giorno dopo ancora: rientrò sempre sola. Il suo negozio rimase irrimediabilmente chiuso.
Nessuno ricorda quando Lucia e Rosalba siano arrivate in paese; c’è chi giura che ci siano sempre state, che la loro bottega sia nata con le mura della città, piantando le due donne dietro il bancone, come alberi da frutto. La gente le ha considerate dal primo momento sorelle, così simili, così schive, e poi le ha battezzate “Regine”, attribuendo una nobiltà derisoria alla chioma che entrambe avevano sguarnita nella parte posteriore del cranio, laddove i capelli si diradavano e lasciavano intravvedere una mezzaluna bianca, simile a una una tiara rovesciata. La calunnia aveva raggiunto presto le due commercianti, che avevano provveduto a coprire il vuoto con due parrucche identiche, rafforzando così l’immagine di sorellanza e rendendole più facili da identificare e, quindi, da accettare. Maligne e silenziose, avevano preferito dar da bere alle lingue riarse dalla maldicenza, anziché zittirle, invitandole a un banchetto fittizio, pur di non lasciarle a digiuno.
In realtà sorelle non lo erano, ma il corso del destino dell’una si era inceppato all’unisono con quello dell’altra, e anziché cambiare i pezzi guasti delle rispettive vite, avevano messo in comune i rottami, cercando di ricavarne una macchina disparata, ma funzionante. Lucia era vedova da qualche mese: suo marito era morto poche settimane dopo un agognato e tardivo matrimonio, lasciandola sola, ereditiera di una fortuna difficile da quantificare senza che la voce tremasse sulla conta degli zeri. Rosalba, invece, era moglie di un uomo che affilava le mani sul corpo di lei, rendendole coltelli da affondare in un’infertilità presunta e colpevole, in un’inadeguatezza che sarebbe precipitata come una condanna a morte, se Lucia non fosse arrivata a mettere fine a una storia e ad iniziarne un’altra, privata e, soprattutto, appartata. Da vicine di casa e conoscenti, le due donne erano diventate fuggitive e complici di un crimine mai commesso: insieme, avevano disertato i resti dei rispettivi matrimoni. Nessuno le reclamò mai indietro. Lucia salvò Rosalba dalla violenza; Rosalba sottrasse Lucia alle voci di chi era certo che fosse stata lei a uccidere il marito e a dichiararsi vedova perfida e ingrata ereditiera. Loro due soltanto conoscevano la verità, ma adesso Rosalba era scomparsa, non tornava da giorni: il loro intero, una volta inscindibile, s’era dimezzato e Lucia non si dava pace.
– Ci sarà un uomo di mezzo -, malignava la gente, che intanto aveva aggiornato la posizione delle due donne nell’anagrafe del pettegolezzo, e aveva smesso di chiamarle sorelle, dichiarandole altro, dichiarandole niente, mormorando congetture a mezza voce. – Sarà tornata dal marito -, si ipotizzava, e c’era pure chi arrivava ad accusare Lucia, – L’avrà fatta fuori, povera donna, come fece con quel disgraziato che la sposò! -. L’eccitazione stimolata dall’ignoranza dei fatti riempiva le persone di una benevolenza ipocrita, di un’empatia affamata di notizie, di una curiosità insana, avida di insinuazioni calunniose, da barattare davanti alla saracinesca abbassata del negozio delle Regine. Il loro trono era vacante, adesso. Forse, lo sarebbe rimasto per sempre.
Sin dal primo momento, sono stata dalla parte di Lucia: mai ho dubitato della disperazione che l’aveva condotta alla mia porta, quella domenica sera, e poi fuori di casa tutte le mattine, nella nebbia di ottobre e nel buio di novembre, che si rischiara lentamente e si diluisce nel giorno. L’ho vista vagare nelle campagne e cercare quella donna che – sorella, o socia, o amante – aveva perduto. Ho creduto all’amore e al tormento, ho creduto allo sconforto e alla speranza; ho provato a parlarle, qualche volta, le ho proposto di aiutarla, ma lei non mi voleva, così ho continuato a sorvegliarne i movimenti, ad accertarmi che rientrasse, tutte le sere, che la luce della sua stanza si spegnesse, a una certa ora. Quando non l’ho vista più per due, cinque, sette giorni, ho chiamato la polizia: questa volta, gli agenti son venuti, mi hanno presa sul serio e l’hanno trovata morta, nel suo letto. Il cuore non aveva sopportato un’altra notte di solitudine. Durante la veglia funebre, tutti piansero Lucia col dolore sincero di chi ha perso una sorella; non c’era più traccia di rancore né di sospetti, giacché la morte l’aveva resa incolpevole, vittima di una macchinazione che l’aveva piegata e vinta.
Rosalba arrivò quando non l’aspettavamo più, quando ci eravamo scordati di lei. Si avvicinò alla cassa laccata, dove giaceva Lucia, gli occhiali sul viso e la giacca di tweed troppo grande per quel corpo che la sofferenza aveva asciugato. – Che ne è stato dei capelli? -, chiese, gelida, rivolta a noialtri. Solo allora mi accorsi della testa grigia e spettinata di Lucia, così nuda, senza i capelli posticci, e indifesa. Rosalba si sfilò con un gesto selvaggio la parrucca dalla testa e la accomodò sul capo disadorno dell’altra. Col gomito, urtò un bouquet di fiori, che rotolò a terra e risvegliò la gente. – Vattene -, sibilò qualcuno, – Vattene, sei un’estranea -. Mi alzai anch’io, mi avvicinai a lei, finalmente ricongiunta con la sorella, finalmente di ritorno. – A proposito, chi sei, per Lucia? Cosa sei? -, le domandò una donna, inasprendo la voce, le mani sui fianchi e lo sdegno sulle labbra.
Tutto -, rispose Rosalba. – Le sono tutto e niente -, e fissò quella sconosciuta negli occhi, finché lei non abbassò lo sguardo.