Eternità

Del fumo ci eravamo già accorte tornando a casa col motorino, quel pomeriggio. L’avevo sentito in fondo alla gola e avevo chiuso forte gli occhi, premendo il naso contro la schiena di mia madre, contro il giubbotto di jeans che mi prestava, ogni tanto, e che era impregnato del suo deodorante da uomo. Poi avevamo svoltato l’angolo del viale che porta fuori dal centro del paese e lei l’aveva visto, – Guarda com’è nero! -, aveva commentato, e avevo sollevato lo sguardo verso il cielo intorbidato da una nuvola fitta, che ci rendeva liquida la vista. Avevamo capito che si trattava di un incendio soltanto più tardi, mentre stavamo preparando la cena, mia madre borbottando improperi sulla melodia di una canzone e io ripetendo mentalmente il discorso che dovevo farle, per chiederle di non lasciarmi più davanti al cancello della scuola, al mattino. La tv era accesa, ma le scene scorrevano mute, il volume zittito dal telecomando, i nostri pensieri prioritari, rispetto alla cronaca locale. Rivedemmo sullo schermo il fumo che ci aveva sovrastate poco prima, i caseggiati che delimitavano la zona urbana e infine la villa dei Mandelli, sfregiata dalle fiamme, bocca cariata, spalancata davanti alla telecamera. Mia madre si avventò sul telecomando, lo fece cadere a terra e imprecò. Quando le immagini tornarono a parlare, la voce di una cronista stava spiegando che non si era trattato di un incidente, che il rogo era doloso e che i sospetti aprivano un sentiero che portava dritto alla figlia minore della famiglia, Valeria, sedici anni, la testa offuscata dai farmaci e dagli imperativi dei genitori. Mia madre trattenne il fiato, sorpresi nei suoi occhi un sorriso euforico; – Andiamo a vedere -, mi ordinò, e in un attimo aveva scalciato via le ciabatte dai piedi, era pronta sull’uscio. – Muoviti, o ci perdiamo lo spettacolo! -, e io mi chinai ad allacciarmi le scarpe; lei si spazientì e sbatté la porta, la sentii scendere le scale senza di me.

La villa dei Mandelli era sepolta sotto il fumo e il rombo dell’elicottero, e non riuscimmo ad arrivar lì davanti perché era circondata dai pompieri e dalle auto della polizia; c’era un’ambulanza, che ci investiva col suo debole fascio di luce azzurra intermittente, c’eravamo noi del paese, estratti dalla pigrizia che precede la cena, sospinti verso il disastro dalla curiosità, sorella della noia. I Mandelli non si vedevano, le loro facce piene di lentiggini non facevano parte dello spettacolo. – Anche loro sono finiti -, sentenziò mia madre, – Nemmeno la ricchezza è per sempre -, e gli occhi le si infiammarono di eccitazione, mentre pronunciava quelle parole. Rientrammo che era già buio e cenammo parlando di Valeria, che conoscevo poco, e di quanto fosse arrogante la signora Mandelli; ci domandammo che ne fosse stato della piscina, di sicuro il fuoco si era mangiato pure quella. Era tutto finito, anche per quella famiglia: avevo tredici anni e avevo appena imparato che nulla è per sempre.

I miei genitori avevano appena divorziato; era iniziato tutto un anno prima, la domenica in cui mio padre aveva annunciato che presto avrei avuto un fratello, che lui aveva concepito con un’altra donna. Mia madre non gli aveva creduto, aveva pianto e aveva urlato; gli aveva ricordato i voti nuziali, ma mio padre aveva allargato le spalle, per proteggere quella sua creatura nuova, che ancora non esisteva e che ci era estranea. Aveva replicato, calmo, che la parola “eternità”, lui, non l’aveva mai pronunciata. – Non ti ho mai promesso niente -, aveva concluso, e se ne era andato, aveva trasferito le discussioni con mia madre dal salotto di casa all’aula di un tribunale.

Quella rottura, per mia madre, era stata una rivelazione: aveva iniziato a cercare la finitudine in ogni cosa, in ogni rapporto, in ogni parvenza di equilibrio. Avevamo lasciato la casa in paese e ci eravamo trasferite lontano dal centro, aveva venduto l’utilitaria che guidava per andare a lavorare e l’aveva sostituita con un vecchio motorino, rumoroso e maleodorante. – È finito anche quel tempo -, mi aveva spiegato, e non avevo capito se stesse parlando dell’automobile o di mio padre, di se stessa o di me. Aveva imparato a godere delle disgrazie altrui, dei sintomi evidenti di un epilogo inatteso: la vedevo esultare per i torti inflitti a un estraneo, per la perdita di un lavoro, per un incidente stradale e finanche per una malattia irreversibile. – Cosa credevano? -, blaterava, – Credevano che a loro sarebbe andata bene? Lo credevano davvero? Allora ben gli sta -, esultava, e accendeva l’aspirapolvere, o intonava ad alta voce canzoni rabbiose.

Dopo sei mesi dalla separazione con mio padre, mia madre iniziò a vedere altri uomini; erano ragazzoni appena usciti dall’università, erano garzoni di bottega oppure padri disperati e traditi. Erano vedovi che iniziavano appena a superare le promesse di eternità, prosaicamente infrante dalle logiche terrene. Con loro, coltivava rapporti che si affrettava a bruciare non appena li vedeva germogliare, impegnandosi con dedizione nella fase della semina e poi abbattendosi con furia devastatrice sul primo accenno di vita, stroncandolo con gusto. Quando la vedevo uscire con un uomo che non conoscevo, diverso da quello cui avevo iniziato a fare l’abitudine, lei afferrava la borsetta, sprofondava dentro la mano e ne cavava un accendino. – Lo vedi? -, mi chiedeva, minacciosa, facendomi ondeggiare davanti agli occhi la fiamma lunga di azzurro e di verde, – Lo vedi o no? -, ripeteva, e io annuivo, atterrita; – Lo vedo -, rispondevo. Era un promemoria dell’incendio, era una minaccia: era soltanto un altro modo per dirmi che tutto finiva, che pure le frequentazioni con gli uomini diventavano presto cenere e che dovevo tenerlo sempre a mente, se non volevo rischiare di scottarmi anch’io, di fare la stessa fine della villa dei Mandelli e della loro fortuna sventurata. Non aveva mai fumato, mia madre, né aveva iniziato allora: quell’accendino l’aveva comprato solo per me, affinché capissi. Era, in qualche modo, un suo personale strumento educativo.

Una mattina, la prima delle vacanze estive, venne a svegliarmi bruscamente, mi tirò su, sollevandomi dalle spalle e accese la luce della mia stanza, senza aprire le imposte. – Mi devi fare una promessa -, mi aggredì, e con gli occhi ancora disabituati al giorno mi accorsi che aveva le palpebre e le ciglia ancora cariche di grigio e di azzurro, dalla sera prima. – Promettimi che non ti sposerai mai -, disse, dura, – Promettimi che resterai sempre libera, promettimi che farai come me -, e io annuii, incapace di oppormi, allo stesso tempo affascinata e spaventata dai suoi occhi disperati. – Prometti -, ripeté, mentre mi abbracciava, tutta sudata, e sancivamo così il nostro giuramento, io bambina, che avevo appena iniziato a sanguinare, e mia madre donna ferita, col sangue già rappreso sui margini dello squarcio. Io inquieta, intrappolata nel mio corpo nuovo, mia madre fuori di sé.

Infransi la promessa dieci anni dopo; avevo quasi ventiquattro anni, quando decisi di sposarmi. Mia madre non volle sentirmi annunciare le nozze; mi disse che non avevo capito niente, che non ero più figlia sua, che non era servito farmi vedere che le cose finiscono perché io mi consideravo più intelligente, più furba, perché ero come quegli ingenui che credono nell’eternità, che pregano dio e in realtà sono degli spergiuri. Non urlò, tuttavia, aveva smesso di urlare da un pezzo: la voce le era rientrata nella laringe dopo l’ultima udienza per il divorzio, quando aveva ripreso a parlare normalmente e se ne era tornata a casa sconfitta, un assegno alimentare come premio di consolazione. Alle mie nozze venne lo stesso, vestita di scuro, tra le mani una busta da lettere piena di banconote. – Finiranno anche queste -, mi ammonì, consegnandomela, e non sorrise nemmeno una volta: il suo viso triste adombra tutte le fotografie di quel giorno.

Si ammalò quando la mia prima figlia era appena nata; era un morbo di quelli che non ti lasciano scampo, – Sei mesi o sei anni -, ci avvertì il dottore, e mia madre non seppe accettarlo, voleva morire subito, non tollerava la possibilità di una fine lenta, di un traguardo incerto. Reagiva bene alle cure, c’erano buone speranze che ingannasse le statistiche e durasse un po’ di più, ma lei si malediva ogni giorno, ogni giorno se la prendeva con la malattia. – È una condanna -, tuonava, con la voce che era tornata a esploderle contro il palato. – Questa malattia è infinita, questa sofferenza dura in eterno -, inveiva, e noi cercavamo di calmarla, accendevamo la radio affinché non parlasse da sola, le portavo la colazione perché non ingoiasse il suo stesso veleno sin dal risveglio.

– Non posso accettare di essere moribonda per sempre -, mi confessò, un giorno, e si mise a piangere, così la abbracciai, come non facevo da anni; – Quindi hai cambiato idea sull’eternità? -, provai a scherzare. – Non dicevi che niente è per sempre? Non dicevi che tutto finisce? -, le chiesi, ma non ero seria, stavo solo cercando di portarla altrove, di spingere i suoi pensieri in una direzione diversa, come fossero stati un gregge riottoso, riluttante a tenere la strada. – Eh, mamma? Come può la tua malattia essere eterna? -, incalzai, e lei si asciugò gli occhi, rabbiosa e incredula.

– È che le cose iniziano a sembrarti eterne, quando non puoi più immaginarne la fine -, mi rispose, sottovoce, e accese la tv, alzò il volume. Sullo schermo, una cattedrale stava andando in fiamme.