A Roma venni accolta dalle madonne; mi sorvegliavano, serie e mute, dagli angoli dei palazzi, dalle teche illuminate e adorne di fiori finti, affacciate agli stipiti dei portoni. All’inizio, quel loro sguardo desolato e immobile mi atterriva: evitavo di sollevare la testa verso di loro, mi comportavo come se volessi sottrarmi al saluto indagatore di una madre, che ti bacia in fronte come se volesse misurarti la febbre con le labbra, e intanto ti annusa i capelli, per stanare l’odore di sigaretta o di gas di scarico del motorino. Poi, col tempo, imparai a farmele amiche; col capo velato o incoronato, coi loro lumicini da niente, assaliti dalle falene, in un certo senso mi proteggevano, e non importava se per me le madonne fossero state solo un’imprecazione che avevo ascoltato sulla bocca altrui, o un’espressione di stupore, di sconforto, e persino di sorpresa. Non importava più, perché nel volgere di qualche mese ero io a cercare per prima i loro occhi, quando uscivo di casa, ero io a pregarle di nascosto, affinché mi portassero una novità: un figlio, o una vacanza, oppure un vestito nuovo. Qualunque cosa potesse distogliermi per poco dalla noia di quel primo anno di matrimonio.
Non che fossi infelice, no: ero sola, non avevo nessuno cui raccontare l’avvilimento di una vita priva di trama e misera di prospettive. Solo le madonne sembravano ascoltarmi e, poco alla volta, iniziai a pensare che stavo diventando una di loro, che tutte noi, tutte le donne del quartiere stavamo assumendo quello stesso sguardo addolorato e privo di imbarazzo con cui ci spiavamo l’un l’altra, in piedi dietro ai vetri delle nostre finestre, senza curarci di spegnere la luce in casa e anzi accendendola di proposito, per avere qualcosa da offrire. Barattavamo la nostra riservatezza per un poco di curiosità, per la distrazione di un momento, per riuscire a immaginarci nei panni della nostra vicina e così vivere di riflesso un’esistenza che non fosse la nostra. Durava solo pochi istanti, ma valeva un pomeriggio intero di fantasie da raccontarci.
Con Leonardo, ci eravamo conosciuti al mare; era italiano e aveva il nome di un artista: era bastato questo a farmi innamorare di lui. Era stata sufficiente l’illusione che il nome si portasse dietro un mondo che per me esisteva soltanto al cinema o nei libri di scuola, per farmi perdere il senno e annunciare ai miei genitori, già di ritorno dalle ferie, che mi sarei sposata. Mia madre mi prese in giro, – Ti scorderai di lui una volta attraversato il confine francese -, mi disse, ma si sbagliò, perché Leonardo non smise mai di telefonarmi, di spedirmi cartoline che erano fotografie del Colosseo, di Piazza Navona, della Cupola di San Pietro. Parlavamo d’amore in un italiano incerto, ma nemmeno una volta mi venne il dubbio di verificare sul vocabolario l’aderenza alla realtà del mio intuito linguistico e, dopotutto, per pronunciare le promesse matrimoniali e dirgli di sì occoreva solo un po’ di esercizio, davanti allo specchio del bagno. – Non abbiamo bisogno della luna di miele -, mi annunciò Leonardo, pochi giorni prima delle nozze, – Perché Roma è così bella che viverci sarà già una vacanza -, e io gli credetti, m’immaginai seduta dietro di lui, su una Vespa, con Piazza di Spagna sullo sfondo, e non sapevo che lui la Vespa non l’aveva, e che guidava una vecchia Fiat rossa col finestrino bloccato dal lato del passeggero.
Andammo a vivere all’ultimo piano di uno stabile che dava su un mercato, in un quartiere lontano dalla vita che mi ero immaginata; c’erano le bancarelle, una salumeria, qualche caffè, ma nessuna traccia della città che Leonardo mi aveva promesso. Andavo a fare la spesa coi soldi che mi lasciava lui, prima di uscire di casa al mattino; si svegliava presto, si preparava la colazione da solo e posava sul tavolo della cucina una banconota che non sapevo ben quantificare. Il cambio tra la Lira e il Franco restava per me un problema oscuro, che risolvevo imparando a memoria il prezzo del pane, quello del latte e del prosciutto cotto; i commercianti mi conoscevano, – Arriva la francese! -, mi salutavano, e poi parlavano in fretta, non se la prendevano se non capivo e ripetevano le stesse frasi alla cliente successiva. Il terzo venerdì del mese, Leonardo mi lasciava i soldi da dare a Simone, il giovane che lavava le scale: arrivava in bicicletta prima di pranzo, con un secchio azzurro appeso al manubrio e gli stracci dentro, prendeva l’acqua dalla fontanella del cortile e lavava la gradinata di pietra, strofinava il pavimento dell’ingresso e lucidava la maniglia del portone. Poi suonava alla mia porta, – Fanno quindicimila Lire -, mormorava, e io gli consegnavo i soldi, aprendo l’uscio con la catenella, come mi aveva ingiunto di fare mio marito. – Non fargli mai vedere che sei sola in casa -, si era raccomandato, ma io ero felice di incontrare qualcuno e mi vestivo sempre come se dovessi uscire, accendevo la luce del corridoio e gli sorridevo; lui, invece, neppure mi guardava.
Una volta, quando arrivò il nostro turno per lavare le scale, mi feci trovare in strada, davanti al portone; – Oggi non abbiamo bisogno di te -, annunciai a Simone, – Non venire più -, e riempii un secchio alla fontanella, lo trascinai fin dietro la porta di casa e lavai le scale al suo posto, sgocciolando acqua insaponata tra una rampa e l’altra, invocando le madonne come faceva mio marito, quando era esasperato. I soldi di Simone me li presi io, ma non dissi nulla a Leonardo; dopo qualche settimana, iniziai a lavare le scale per la gente di tutto il palazzo: prendevo meno del giovane in bicicletta, ci mettevo più tempo e i miei vicini scambiarono la mia mancanza d’esperienza per buona volontà. – Queste sì che sono delle scale pulite! -, mi incoraggiavano, – Altro che quel lavaggio fatto in fretta come i gatti da Simone -, e mi porgevano un biglietto da diecimila. Iniziai così il mio mestiere di donna delle pulizie: di nascosto da mio marito, rubando il posto di un altro e mentendo sulle mie reali competenze. Tuttavia, era contenta; nascondevo i soldi in una zuccheriera gialla, regalo di nozze di una cugina di Leonardo, e non sapevo cosa farne, non avevo idea di come spenderli senza dare nell’occhio, quindi li guardavo aumentare e basta, come si sorveglia una pianta di basilico che mette foglie nuove e cresce sul balcone. Solo la domenica ne spendevo un poco: dopo la messa, di nascosto, mi compravo una pasta alla panna e la mangiavo in fretta, sul marciapiedi, stando bene attenta a non sporcarmi il cappotto e controllando con cura, nello specchio retrovisore delle auto in sosta, di essermi spolverata per bene i residui di zucchero a velo dal naso.
Prima di Natale, venne a trovarmi Annarita, la vedova del secondo piano. Da quando lavavo le scale, avevano iniziato a salutarmi tutti, a chiamarmi per nome, a offrirmi il caffè nella penombra delle loro cucine. – Mi manda il dottor Mancini -, mi spiegò, sottovoce, e quel giorno stesso mi accompagnò nell’appartamento di questo medico in pensione; si sedette accanto a me sul divano del dottore mentre lui mi parlava di orari di lavoro, di compenso, di chiavi di casa, della polvere che impregnava i tappeti. Iniziai a lavorare da lui l’indomani, dalle otto e mezza alle undici e mezza, tutti i giorni tranne il sabato e la domenica; il dottore ascoltava la radio francese, mentre facevo le pulizie, ma non mi parlava mai. Mi pagava ogni venerdì, porgendomi i soldi in una busta; io l’aprivo, mi mettevo le banconote in tasca, e gliela restituivo, senza guardarlo in faccia. Poi, me ne tornavo a casa, ringraziavo le madonne che mi guardavano dagli spigoli dei palazzi, cucinavo il pranzo per Leonardo. – Fa’ che non lo scopra mai -, imploravo, silenziosa, – Fa’ che resti un segreto -, ma una delle madonne non mi ascoltò, se la prese con me e mi punì: Leonardo ebbe un infortunio sul cantiere alla fine di gennaio e, per un paio di settimane, forse di più, sarebbe rimasto a casa. – Non dirgli niente -, mi suggerì Annarita, quando le rivelai l’inconveniente, – Inventa che devi andare a fare la spesa, inventati qualcosa: sono solo tre ore al giorno -, e io le diedi ascolto, seguitai a uscire tutte le mattine e a tornare prima di mezzogiorno. Leonardo si spazientiva, – Cosa ci fai tutto quel tempo in giro? -, mi chiedeva, ed esitavo tra il timore e la sicurezza, gli mentivo sorridendo, lo abbracciavo, cambiavo discorso. Poi, una volta, mi seguì fino a casa del dottore e si fece trovare tre ore dopo sotto il portone, seduto sul marciapiedi; – Ma non ti eri fatto male alla schiena? -, lo aggredii, quando lui mi accusò di averlo tradito, di avere un altro uomo, di aver preferito un vecchio dottore in pensione a un giovane muratore con l’ernia al disco, e io mi persi tra le sue parole. Il disco, il tradimento, le bugie: il mio lessico era troppo povero per inventare altre menzogne, così gli consegnai la verità come se fosse stata un’arma da fuoco carica nelle mani di un chierichetto, gli mostrai i soldi, piansi. Quella domenica, dopo la messa, comprai due paste alla panna e le portai a casa: Leonardo e io ce le mangiammo in silenzio, davanti alla finestra, mentre in strada i bambini si lanciavano manciate di coriandoli, approfittando del Carnevale. Ero triste per aver rinunciato al mio segreto e al piacere solitario della domenica: così lo confidai ad Annarita, che scrollò le spalle, – Ai maschi non puoi nascondere niente e non puoi dire niente -, sospirò, e con un cenno del mento mi indicò il volto in bianco e nero di suo marito, che ci sovrastava, severo, da una cornice posata sul televisore. Non capii le sue parole, ma ci pensai a lungo.
Alla fine della primavera, il dottore morì: se ne andò con un infarto, sicché appresi che ero rimasta senza lavoro da sua figlia, una mattina, andando a casa sua, ignara della piega che stava per prendere la mia vita. Lo raccontai a Leonardo quando tornò dal cantiere, mentre si faceva la doccia e mi chiedeva di insaponargli la schiena; lui non disse niente, annuì soltanto e si voltò verso di me, come se si aspettasse qualcosa. Sembrava triste; – Non sei contento? -, gli domandai, e mio marito scosse la testa, così m’infuriai, anche se non sapevo nemmeno io stessa il motivo di tanta collera improvvisa. Di nuovo nominai la madonna e quella nostra vita a Roma che non era Roma, ma una qualunque città priva di fascino, brulicante di occhi estranei, lontana dal Colosseo, diversa da ciò che lui mi aveva raccontato al mare, solo pochi anni prima. Leonardo uscì dalla vasca da bagno, indossò l’accappatoio e pulì lo specchio dalla condensa, con la manica. – Mi dispiace -, mormorò allora, – Mi dispiace, perché adesso che il dottore se n’è andato, non mangeremo più le paste alla panna, la domenica -, e negli occhi gli riconobbi la delusione di chi ha voluto a lungo illudersi e così ha finito per crederci.