Quando tornavamo dal mare, avevo voglia di nascondermi: mi facevo la doccia in fretta, appoggiavo la schiena scottata contro le piastrelle del bagno, e intanto ascoltavo mia madre parlare con sua sorella, in cucina, dall’altra parte del muro. Spesso c’erano anche mia nonna e mio zio, il fratello di mia madre. Si scambiavano i suoni agri della loro lingua: io fingevo di non capire, ma loro hanno sempre saputo che li ingannavo, che seguivo bene i discorsi che loro mettevano tra parentesi, isolandoli dall’italiano, credendosi al sicuro e interessanti, con le loro litanie dissonanti.
Non mi chiamavano per nome, quando discutevano tra loro, dicevano “la bambina”, ma io ero alta, con i piedi lunghi, la schiena curva, e i fianchi attraversati da striature livide di cui mi vergognavo. – Guardala! -, borbottava mia madre, – Ha preso dalla famiglia del padre -, e indicava col mento la mia pelle ferita dal sole e dalla crescita, le ossa del bacino sporgenti e le cosce sgraziate. Mia nonna scuoteva il capo, rispondeva con un fischio, simile al verso di un uccello: mia zia si portava una mano alla bocca e mi guardava sconcertata. Mi coprivo, indossavo la camicia da notte a maniche lunghe nonostante fosse pomeriggio, premevo le mani sulla pancia piatta, come a volerla occultare, mi abbracciavo da sola la vita.
– Dopo il parto si sformerà anche quella! -, commentava crudele mia madre. – Dopo il primo figlio diventerà tale e quale alle sue zie, alle sue cugine -, scuoteva la testa e piegava all’ingiù un angolo della bocca, mentre le altre annuivano. Mio zio soltanto provava compassione, – Che peccato! -, mormorava, e mia madre alzava le spalle, – Che peccato! -, gli faceva eco, e poi mi sorrideva. – Hai messo la crema? -, mi chiedeva, ma a me non importava nulla delle scottature, della pelle deturpata dal sole e dall’acqua di mare: avevo quattordici anni e avevo già giurato a me stessa che non avrei mai avuto figli. Mai. Non sarei stata la madre di qualcuno, avrei preservato il mio corpo acerbo, sonante come una mandorla vuota, quando la colpisci con una pietra, sapendo già che non ci troverai nulla dentro, così la risparmi, la tieni da parte intatta. Sarei rimasta com’ero: quel corpo già sfigurato in giovane età non si sarebbe in alcun modo prestato alla vita altrui.
Avevo venticinque anni quando incontrai Elia; indugiavo in un dottorato in filosofia per ritardare il momento in cui avrei iniziato a lavorare in negozio, da mio padre, che non vedeva l’ora di rifugiarsi nella pensione e di lasciarmi la sua poltrona dietro il bancone della profumeria. Elia aveva due figli e me lo disse subito, ancora prima di iniziare a interessarsi a me: mi parlava di loro come gli altri mi raccontavano le partite a calcetto, le interminabili serate al cineforum in piazza o la passione mal simulata per la letteratura russa. I suoi figli gli appannavano la vista, turbavano la traiettoria dei discorsi; io mi lamentavo dell’università, delle mie amiche, del mio futuro da negoziante e lui subito mi riportava sulla sua strada, come un istruttore di guida che prende il volante quando stai tagliando male la curva e ti riporta dritto, parallelo ai margini tracciati.
Anche io mi affrettai a consegnargli la mia decisione, senza aspettare, col tono grave e definitivo di chi annuncia una rottura. – Non voglio bambini -, scandii, e restai ad aspettare la reazione sconcertata che le mie parole non mancavano mai di suscitare. Lui piegò la testa di lato, posò la birra sulla panchina e annuì, – Certo! -, e poi cambiò argomento, intrecciò altri fili di storie, senza chiedermi perché, senza tornare indietro. Iniziammo a vederci alla fine dell’estate; lui era solo, i ragazzi erano in vacanza con la madre e lui si occupava del gatto, delle piante, delle foglie che invadevano il terrazzo e che bisognava raccogliere due volte a settimana. La sua ex moglie non aveva un nome: la evocava soltanto col ruolo, in relazione ai figli, e avevo la sensazione netta che, per lui, fosse stata solo un utero pieno, buono a dargli ciò che lui amava sopra ogni cosa, i figli, una combinazione di cellule vincenti come un biglietto della lotteria. Mi sentivo fortunata, in un certo senso, perché mi stavo affezionando a un uomo che aveva già avuto ciò che desiderava; mi sentivo scaltra e in realtà ero soltanto giovane, affilata nei giudizi come i cocci di un vaso di vetro andato in frantumi, miope nelle valutazioni.
– Ti faccio un regalo importante -, mi dichiarò il giorno del mio compleanno, e poi venne a prendermi insieme a due adolescenti silenziosi e somiglianti, Lara e Lucio. Ci sedemmo al tavolo di una pizzeria e quasi non parlai per tutta la serata, timorosa di inciampare nelle parole, di ferire la pelle esposta di quei due estranei, come aveva fatto mia madre, come mia nonna, come mia zia avevano ferito la mia, molti anni prima. Lasciai che fosse Elia a portare il peso di noi tre, mi schierai dalla parte dei figli e contro di lui, sempre più sicura della mia posizione, sempre più confusa e incredula di fronte a quell’imprevisto che lui aveva calcolato al millesimo, ma s’era sbagliato lo stesso. – È andata bene -, commentò, inaspettatamente, l’indomani, e ancora una volta tacqui, soffrii di riflesso, immaginando che il dolore di Lara e di Lucio fosse simile al mio, quando fingevo di non capire una lingua che mi era stata madre e che invece mi aveva tradita.
Da quella volta, i figli di Elia divennero un’abitudine: li andavamo a prendere insieme, il sabato pomeriggio, ma non sapevo far altro che infliggere loro il mio silenzio imbarazzato e solidale. Lasciavo che Lara frugasse nel cassetto che conteneva le mie poche cose nell’appartamento di suo padre: fingevo di non vederla quando si metteva il mio smalto e si macchiava le dita, quando provava il mio costume da bagno ancora umido, dopo la piscina. Avvertivo per lei, nello stesso tempo, insofferenza e rimorso, come se fossi stata la responsabile delle sofferenze che mi avevano preceduta nella sua vita, ma non avevo il coraggio di parlargliene e mi limitavo a regalarle un mascara usato, a suggerirle le risposte per i compiti di inglese, a ignorare l’odore di sigaretta che le impregnava i vestiti e i capelli. Cercavo di non guardarla, perché portavo ancora sul mio corpo le ferite generate dagli occhi altrui: le riservavo un’indifferenza complice, e non mi accorgevo che era suo fratello il vero problema per me. Non mi ero mai chiesta come maneggiare i dodici anni di un giovane maschio e ce l’avevo con Elia, con la sua ostinazione di padre che imponeva ai figli la presenza di una sconosciuta. Tuttavia, più passava il tempo e più Lara e Lucio mi diventavano cari. Non li consideravo come figli, naturalmente, né come i figli di un uomo che non ero sicura di amare; non smuovevano in me la paura né il desiderio della maternità, tutt’altro. Li amavo come si può amare il cane della vicina, con una tenerezza riservata e distante, e ne ero turbata: me la prendevo con mia madre e con la sua brutta lingua che mi aveva compromesso i sentimenti.
Un pomeriggio, rimasi da sola con Lucio; erano le vacanze di Natale, Elia aveva accompagnato Lara a una festa e aspettavamo il loro ritorno. Lucio aveva chiuso gli occhi, sul divano, accanto a me, credevo dormisse, così spensi il televisore, mi alzai e feci per andarmene in cucina. Lui mi seguì, mi abbracciò: era la prima volta che accadeva. – Non lo dire al babbo -, mormorò, ma io non capii, gli chiesi: – Cosa? -, e lui si mise a piangere, se ne tornò sul divano e non mi parlò più. Avevo la sensazione che non ce l’avesse con me, che cercasse di dirmi qualcosa, qualcosa che i miei imperativi dogmatici e i miei divieti preconfezionati mi impedivano di comprendere. Con suo padre, ci lasciammo quell’estate, con una telefonata; l’indomani saremmo partiti per le vacanze e non intendevo andare con loro, ma mi ostinavo a non ammetterlo. Fu Elia a salvarmi, – Vorrei riprovarci con mia moglie -, ammise, e gli risposi che andava bene, che poteva chiamarmi al ritorno, se voleva. Non lo fece.
La settimana scorsa, è entrata una coppia, nel negozio. Ero seduta dietro il bancone, ma non nella vecchia poltrona di mio padre: non l’ho tenuta, quando lui se n’è andato, ne ho comprata una nuova, di velluto rosso, come quelle dei cinema. Lui l’ho riconosciuto subito, senza esitare; – Lucio! -, ho esclamato piano, e mi sono alzata, gli sono andata incontro, porgendogli le mani. L’ho ascoltato parlare, gli ho chiesto di sua sorella, e intanto tenevo d’occhio la scena nello specchio alle sue spalle: ero alta e sottile, più alta della donna che lo accompagnava e che sorrideva a ogni sua parola. Alla fine, mia madre ha avuto torto e non ho preso da mio padre, il corpo mi si è assottigliato sotto le bruciature da quattordicenne e persino le smagliature si sono sbiancate, hanno smesso di dichiararsi ostili, sulla pelle tesa dei fianchi. – Non ti ho presentato mia moglie -, mi ha detto Lucio. Allora la donna ha scandito il suo nome e io ho annuito sorridendo, aspettando di pronunciare il mio, ma Lucio mi ha preceduta, è venuto accanto a me, avvolgendomi le spalle col braccio. – E lei è Laura -, ha annunciato, – È stata il mio primo amore -. Non c’era traccia di ironia nella sua voce, ma io ho pensato fosse uno scherzo, un eccesso di cortesia, e ho riso senza allegrezza, coprendomi la bocca con la mano. Come faceva mia zia quando mi feriva.