– Mio padre non viene -, annunciavo, e a scuola gli altri mi guardavano dubbiosi, si domandavano come sarei tornato a casa, chi sarebbe venuto a prendermi. – Non c’è, è andato a fare la revisione -, spiegavo allora, e mostravo le chiavi di casa appese al collo, indugiavo, prima di aprire l’ombrello rosa a fiori che mia madre mi aveva infilato nello zaino al mattino, anche se il cielo sembrava azzurro e inoffensivo. – Mettono pioggia, più tardi, e te ne dovrai tornare a piedi -, mi avvertiva, ma era inutile perché già lo sapevo; non mi dispiaceva rientrare da solo, ma mi vergognavo per quell’ombrellino da donna: ne avrei voluto uno diverso, magari quello di Batman. Anche uno tutto blu sarebbe andato bene, o nero, come quello dei preti: mi sarei accontentato di uno qualunque, purché non fosse quello. Tuttavia non protestavo, perché avevo imparato a farlo solo quando era davvero necessario e, in fin dei conti, se mi attardavo, fingendo di stare aspettando qualcuno sotto la pensilina, dopo la scuola, potevo sperare che i miei compagni fossero andati via. Con un po’ di pazienza, avrei aperto quell’ombrello da signora in solitudine e mi sarei incamminato tranquillo, non visto, verso casa mia: perlomeno non mi sarei bagnato.
Una mattina, la maestra di italiano mi prese da parte; – Quando finisce la revisione di tuo padre? -, mi domandò, senza preamboli, e io esitai, fui sul punto di dirle la verità, e cioè che quella volta stava durando più del solito e che non ne sapevo niente. Poi la guardai dritta nei riflessi rosa delle lenti progressive, notai le peluria che le adombrava il mento e mi venne da ridere. – È già finita -, mentii, – Il babbo è tornato, solo che ha molto lavoro, sta imbiancando una casa in città -, le dissi, – Una villa di due piani -, e allargai le braccia per significarle quanto fosse grande l’impresa, e lei mi lasciò andare, non tornò più sull’argomento fino alla fine della giornata. Più tardi, nella settimana, telefonò a mia madre, le chiese una spiegazione, e ottenne quello che voleva: seppe che mio padre era in clinica, come le altre volte, ma che c’era stato un intoppo nella terapia e doveva fermarsi per due settimane ancora, forse tre. – Il bambino è al sicuro -, mormorò mia madre, – Mio marito non gli farebbe mai del male, e poi tanto ci sono i farmaci che fanno da salvagente -, aggiunse, e mi sembrò che volesse quasi chiedere scusa alla maestra. Intercettò il mio sguardo, oltre la porta: la stavo ascoltando, in piedi in corridoio, così mi fece una smorfia, mi chiamò con la mano e si affrettò a mettere giù. – Stavolta la revisione sarà più lunga -, ammise, – Ma gli farà bene, al babbo: vedrai come tornerà riposato, beato lui -, e mi abbracciò, poi accese la radio. – Stasera ordiniamo una pizza -, promise, – Come la vuoi? -, e sapevo che era un modo per consolarmi, perché era solo venerdì e noi la pizza la mangiavamo di domenica, quindi feci finta di niente, tornai nella mia stanza e strappai una pagina di quaderno. La divisi in sei rettangoli; su uno scrissi: revisione; su un altro, a penna rossa: babbo. Poi, piegai quei foglietti piccoli piccoli e li infilai nel salvadanaio di latta che tenevo in fondo all’armadio e non ci pensai più. Lì dentro nascondevo le mie paure.
Mio padre soffriva di un disturbo psichico, o forse anche più d’uno. I miei genitori sono sempre stati attenti a non parlarmene con precisione, evitando con cura di snocciolare nomi di malattie e di medicinali. Qualche volta, li avevo sentiti pronunciare parole come “schizofrenico”, “bipolare”, ma queste parole non mi spaventavano perché non le conoscevo e mi facevano pensare a uno schizzo d’acqua di mare in una domenica d’agosto, oppure alle pile, ai segni più e meno che facevano funzionare l’automobile telecomandata che il babbo aveva vinto per me alla lotteria del quartiere. Ogni tanto, mia madre gli riempiva una borsa di pigiami e di biancheria e lo accompagnava in clinica: – Il babbo ha bisogno di una revisione -, mi diceva, e sapevo che non lo avremmo visto per un qualche tempo, per qualche settimana almeno. Di solito, prima di andarsene, lui era triste oppure silenzioso; lo vedevo che riordinava tutti i suoi libri sugli scaffali e che borbottava davanti alla finestra e poi tirava le tende. – I vicini ci stanno spiando -, mi avvertiva, sottovoce, e io andavo a vedere, di soppiatto, – Non c’è nessuno di fronte, papà -, obiettavo, e lui si rabbuiava, – Perché non mi credi? -, mi chiedeva, – Perché? -. Poi passavano i giorni e tornava spensierato, andava a dipingere gli appartamenti degli altri. – Sono un pittore, non un imbianchino -, mi diceva, e mi strizzava l’occhio, mi mostrava gli acquerelli che conservava nel cassetto della scrivania. – Nascondo sempre la mia firma, a casa della gente, sotto la prima mano di pittura -, mi confidava, e a me sembrava un’idea geniale, che la diceva lunga su mio padre, su quanto fosse una persona diversa dalle altre. Era capace di essere il più felice di tutti, più di me e dalla mamma; sapeva contare in fretta e si arrabbiava quando ripetevo le tabelline sulla punta delle dita, – Non stai sgranando un baccello di fave! -, mi rimproverava, e scuoteva la testa, tornava alle sue parole crociate, a quelle griglie che anneriva in poco tempo, oppure giocava a scacchi e provava a insegnarmene la logica. Quando se ne andava per la revisione, ero triste perché perdevo un compagno di giochi, perché passavo i pomeriggi da solo, a casa, e non avevo più nessuno cui preparare la merenda. Mia madre, il più delle volte, tornava quando era quasi ora di cena e non aveva tempo per sedersi di fronte alla scacchiera insieme a me, – Ho gli occhi pieni di nebbia e di sonno -, si scusava, e provavo tenerezza per lei, non volevo darle pena perché sapevo che in quella nebbia che le si annidava negli occhi c’era già mio padre. – Non fa niente -, le dicevo, – Tanto, senza il babbo, non so giocare nemmeno io -, e non era del tutto una menzogna, perché, spesso, in sua assenza, temevo di non saper contare più. Mi scordavo le successioni di numeri che ripetevamo insieme fino allo sfinimento e le caselle bianche e nere mi davano le vertigini, avevo la sensazione che tutti i pezzi fossero uguali, la regina e il cavallo, i pedoni e le torri. Senza di lui, le regole di ogni gioco diventavano confuse, come se qualcuno avesse strappato il libretto di istruzioni; – Non è così -, mi rassicurava mia madre, – Sai contare come ieri, solo che sei stanco pure tu, andiamocene a vedere la televisione -, e io qualche volta non le credevo, piangevo. – E se me ne scordo? -, mi disperavo, – E se domani non so più fare le moltiplicazioni, se non so più muovere gli alfieri? -, e le guance mi diventavano bollenti. – Impossibile -, replicava lei, e aveva sempre le mani fresche, quando me le passava sulla nuca, – Impossibile: tu sei nato grande, e i grandi non si scordano niente -, e mi stringeva accanto a sé, mi addormentavo sulla sua spalla di fronte all’ennesimo film poliziesco. L’indomani mattina, mi svegliavo sempre nel mio letto.
Una volta, mio padre perse le orecchie; eravamo andati al centro commerciale per comprarmi dei vestiti nuovi per Natale, e lui a un certo punto si inginocchiò in terra, – Non sento più niente -, urlava, – Ho perso le orecchie -, e con le mani, alla cieca, toccava il pavimento, le scarpe dei passanti, le ruote dei passeggini. Mia madre provò a tirarlo su, – Non è niente -, gridava, più forte di lui, – Le tue orecchie sono a posto -, e faceva per toccargliele, ma lui si tirava indietro e si disperava, – Le ho perse, le ho perse! -. Arrivò l’ambulanza a portarselo via, mia madre mi prese un gelato alla fragola, nonostante fosse dicembre, e ce ne tornammo a casa, a preparargli la borsa per la clinica; quell’anno, passammo le feste da mia nonna, perché la revisione durò a lungo e mio padre tornò che gennaio era già iniziato. – Almeno hai potuto vedere l’albero -, lo consolò mia madre, e lui non mi sembrò scontento; le orecchie erano attaccate alla testa, dove le aveva sempre avute.
L’estate in cui compii sedici anni fu la più dolorosa della mia vita; mi ero innamorato di Claudia, ma lei non aveva voluto saperne di me e, per la prima volta, mi ero messo a piangere davanti a mio padre. Non era mai accaduto, prima di allora, perché ero sempre stato attento a non mostrargli il mio dolore, per timore di alimentare il suo, ma lui mi aveva messo le mani sulle spalle: – Ce le hai le orecchie? -, mi aveva chiesto, e io mi ero ricordato di quella volta al centro commerciale, avevo avuto paura. – E gli occhi, ce li hai? -, aveva insistito, – E il naso? La bocca? Le mani ce le hai? -, e mi aveva sfiorato le orecchie, gli occhi, la bocca, le mani. – Hai tutto -, aveva concluso, – Non piangere per questa Claudia, non hai perso niente -, e tutto sommato aveva avuto ragione, poco alla volta avevo smesso di crucciarmi, mi ero innamorato di Angela, di Nina, di Annamaria, e ogni volta avevo sofferto e ogni volta mi ero accorto di avere ancora tutti i pezzi al loro posto, dopo, quando era finita.
La settimana scorsa, mia moglie mi ha detto di essere incinta; me l’ha annunciato al telefono, mentre stavo lavorando. – Auguri! -, ha esordito, e lì per lì non ho capito, – Avremo un bambino, ho ritirato adesso le analisi: sono incinta -, e, istintivamente, mi sono cercato con le mani le orecchie, gli occhi, la bocca. Quella sera, sono andato a trovare mio padre; era appena tornato da una revisione e l’ho trovato seduto da solo davanti alla scacchiera, ma non stava giocando. Gli ho raccontato che avrei avuto un figlio e che avevo paura di non esserne all’altezza, di non essere in grado di fare il genitore, di non essere capace di capire un bambino. – Sai già farlo -, mi ha risposto mio padre, – Sai già farlo, hai esperienza -, e mi è sembrato così fragile, nella maglia del pigiama a righe, e allo stesso tempo così sicuro di sé che ho avuto la sensazione che mi stesse prendendo in giro. Mi sono arrabbiato, gli ho rinfacciato di non capirmi, di non avermi mai ascoltato, e che non sapevo che farmene del suo tono di scherno; – E poi esperienza, dove? Esperienza con chi? -, gli ho urlato, ed ero esasperato e deluso da me stesso, per aver perso la calma proprio con lui che non c’entrava niente, proprio in un momento in cui avrei dovuto essere felice.
– Allora? Esperienza con chi? -, ho insistito, incapace di trattenermi. – Con me -, mi ha risposto mio padre, – Hai fatto esperienza con me -, e mi ha sorriso, l’ho visto sporgersi per allineare i pezzi bianchi, sulla scacchiera, con quelle sue mani da vecchio e coi gesti di chi non ha mai potuto crescere.