Mia madre entrò in bagno mentre mi stavo facendo la doccia; scostò la tendina di plastica, mi diede un’occhiata perplessa. – Da quanto tempo sei qui dentro? -, mi domandò, senza aspettarsi davvero una risposta; chiusi gli occhi sotto il getto dell’acqua, osservai un rivolo percorrere le piastrelle, deviare lungo il bordo nero di calcare e proseguire fuori, verso il pavimento. Quando finii, la trovai ancora lì, davanti al lavabo, con una lente a contatto su un dito; – Vestiti bene -, mi disse, guardandomi attraverso lo specchio. – Oggi ti porto con me -.
L’aria era appiccicosa, fuori: seguii mia madre in silenzio, senza prenderla per mano, nonostante avessi paura della gente sul tram, di quelle vecchie che se ne andavano in giro con una valigia enorme, in cui avrei potuto starci tutta intera, ben rannicchiata sul fondo. Avevo quattordici anni, ero troppo grande per il contatto fisico con mia madre, e la sua presenza accanto a me iniziava a darmi fastidio. Mi accorgevo che entrava in bagno apposta, mentre mi lavavo, e che soppesava ogni parte del mio corpo nuovo, troppo acerbo per essere accettabile in alcuni punti e sfatto come una pesca marcia in altri. Mi voltavo per nascondere le smagliature sulle cosce e sul petto, che mi facevano apparire come un frutto sbucciato e dimenticato nel piatto, mi strofinavo le ascelle col sapone, sperando che la schiuma portasse via l’odore e quella peluria insopportabile che non potevo più ignorare. Quella mattina, per uscire con lei, indossai un pullover a maniche lunghe e la gonna azzurra che mi aveva cucito mia nonna: la detestavo, ma mia madre ne sarebbe stata soddisfatta. E volevo farle piacere perché sapevo dove stavamo andando; avevo aspettato quel momento per anni.
Quando arrivammo sotto il portone, mia madre voltò la testa a destra, poi a sinistra, come se avesse dovuto attraversare la strada; estrasse le chiavi dalla borsa con la cautela di chi maneggia un guscio d’uovo, aprì e mi fece passare per prima. – Mi raccomando: non toccare niente e togliti subito le scarpe, appena entriamo -. Pensai ai miei piedi sudati e sporchi ed ebbi il riflesso istintivo di tirarmi indietro, di pregarla che mi facesse aspettare fuori, invece annuii, feci come voleva. Suonò il campanello due volte prima di far scattare la serratura pianissimo, quasi fossimo state ladre d’appartamento alle prime armi; nel momento in cui varcammo la soglia, la vidi sorridere nello stesso modo in cui sorrideva a mio padre, quando lui tornava dopo mesi passati a lavorare in Germania.
Mia madre faceva le pulizie a casa dei signori; li chiamava signori o dottori, qualche volta professori. Nessuno di noi ha mai capito che lavoro facessero davvero e di sicuro nemmeno lei ne era al corrente, perché si limitava a nominarli di sfuggita, come se si trattasse di entità superiori e immateriali; come se fossero personaggi del cinema o dei cartoni animati. In realtà, di loro non le importava granché, giacché quello che le interessava era il luogo in cui vivevano: tutte quelle stanze, il pavimento di parquet, ricoperto da una quantità di tappeti esotici che, nei suoi racconti, era infinita. E poi l’argenteria, che lei lucidava con furia, lo spropositato televisore, che occupava una parete intera della camera da letto; e la macchina per fare il caffè e tutte quelle piante sul balcone. Ne era innamorata, ne parlava di continuo, includendosi nell’opulenza di quell’appartamento come se ne avesse fatto parte lei stessa. – Abbiamo comprato un nuovo aspirapolvere -, confidava a sua sorella, al telefono, oppure: – Quest’anno a Natale abbiamo decorato un albero vero! -, e significava che lei – la signora, o la dottoressa o la professoressa, – le aveva fatto trovare un abete sventurato, in mezzo al soggiorno, e le aveva ordinato di trasferirlo in salotto. Ogni tanto, soprattutto in estate, quando i signori erano in vacanza e mia madre aveva il compito di entrare nella loro casa vuota una volta a settimana, per innaffiare le piante, a qualcuno della famiglia veniva accordato il privilegio di accompagnarla. – Ti faccio vedere la casa -, prometteva al telefono a mia zia, a mio padre, a un’amica fidata, – Ti faccio vedere com’è spaziosa, come sono morbidi i nostri divani, quanti vestiti abbiamo nel guardaroba -, e si vantava come una bambina che ha ricevuto il pacco di Natale più grande, come una mamma che ha appena messo al mondo la sua creatura grinzosa e urlante.
Quella mattina d’estate toccò a me; mentre andavamo, avvertii lo stesso smarrimento euforico del giorno in cui avevo trovato per la prima volta il sangue sulle mutande. Vedere quella casa, per me, voleva dire diventare grande: era come se, all’improvviso, fossi stata promossa ai diciott’anni dai quattordici che avevo appena compiuto. Tuttavia, la trovai brutta, pacchiana, buia, soffocata di tappeti, infestata di quadri mostruosi, impregnata di un odore insopportabile di sigaretta e di profumo; mia madre me ne aveva mostrata una boccetta, l’aveva presa dal comodino della signora e me ne aveva spruzzata una nuvola addosso. Poi mi aveva passato il polso sul collo umido, aveva raccolto i resti di quella miscela alcolica e dolciastra. – Ti piace? -, mi aveva chiesto a bassa voce, e non sapendo se si riferisse al profumo o alla casa, annuii. – Molto -, mentii, – Mi piace molto -. – Brava -, mormorò lei, e ci rimettemmo le scarpe, ce ne andammo.
Quell’anno, all’inizio della scuola, arrestarono il marito della signora; riconobbi la sua faccia attonita sullo schermo, al telegiornale, mentre eravamo seduti a tavola, e mia madre era eccitata, sconvolta, quasi felice. Passò il pomeriggio al telefono, a raccontare l’accaduto a mia zia, a mio padre, a qualche amica, anche se di fatto non ne sapeva niente e s’inventava ogni volta una versione diversa, diceva che era andata la polizia, mentre lei era lì, e che la signora si era messa a piangere. La signora, invece, non le spiegò nulla ma fu molto esplicita: se mia madre fosse stata contattata da un magistrato, non avrebbe mai dovuto ammettere di essere la donna delle pulizie: mai. – E che devo dire? -, domandò mia madre, smarrita, – Cosa sono io allora? -. La signora si spazientì: – Sei un’amica. Una mia amica, va bene? Non hai mai lavorato in questa casa, perché sei amica mia -, e mia madre ne fu contenta, – Una sua amica -, le fece eco, e si precipitò a riversare nel telefono questa novità, orgogliosa di potersi comprendere finalmente in un noi che le stava tanto a cuore.
Venne convocata in tribunale poche settimane dopo, per un colloquio preliminare; – Sono una sua amica -, confermò sicura, dritta sulla sedia, senza alcuna emozione nella voce. Il giudice era un uomo sui cinquant’anni, una lieve balbuzie gli azzoppava la lingua; – Si-sicura? -, le chiese, e le spiegò che, secondo i vicini di casa della signora e secondo i commercianti del quartiere, lei non era propriamente un’amica, perché l’avevano vista lavare i vetri, pulire i balconi, stendere il bucato. – Siamo amiche -, ribadì mia madre, – Ogni tanto ci scambiamo qualche favore -, spiegò. Il giudice le sorrise, sembrava quasi che volesse alzarsi e andarle incontro, abbracciarla. – Ah -, commentò, – Va bene. E la signora come ricambia queste cortesie? Cosa le dà, in contropartita? -, incalzò, e mia madre rispose pronta, soddisfatta: – Una bella casa. In cambio mi dà una casa bellissima, tre ore al giorno, quattro giorni su sette -. Lo stomaco le si contrasse in un lamento liquido e sinistro, amplificato dal silenzio dell’aula: non aveva mangiato niente, prima di uscire di casa.