Seduto sul bordo del letto, trattenni il fiato per ascoltare la porta dell’ascensore chiudersi, il motore sussultare, attivarsi, cigolare. Poi di nuovo lo schiaffo metallico della porta che si richiude, questa volta più lontano, smorzato dalla distanza; serrai le palpebre e le labbra, come se, concentrandomi, potessi distinguere i suoi passi sul travertino dell’androne, il suo saluto al portiere. Non sentii niente, solo l’eco del mio battito cardiaco, il flusso ignaro e imperturbabile del sangue che mi attraversava il corpo e mi teneva in vita. Quella fu l’ultima volta che la vidi.
Avevo conosciuto Norma nove mesi prima, nel suo negozio; avevo appena ottenuto l’incarico in un liceo di provincia, dovevo sostituire una collega fino al mese di giugno: un anno scolastico, che di stagioni ne comprende tre soltanto, più uno scampolo d’estate in testa e in coda, una parentesi accennata di facce distratte e orecchie assenti. Prendevo il tram ogni mattina e poi camminavo per venti minuti; passavo davanti al suo negozio e lei era dentro, ma non potevo saperlo, perché le vetrine sono per chi ha tempo e desiderio, e io mi raccontavo di non avere nemmeno un poco del primo, mentre il secondo mi avanzava, mi colava fuori dalle tasche dei calzoni e dalle mani. In realtà, era tutto il contrario: di tempo, a ventott’anni, ne avevo tanto da non riuscire a figurarmelo, mentre del desiderio avevo paura, era tutto fatto di parole, di frasi prese in prestito ai libri e agli altri uomini e niente di più. Norma dovette intuirlo, perché un giorno mi venne incontro sul marciapiedi, sulla strada del ritorno, – Hai cinque minuti? -, mi domandò. – Non riesco a tirar giù la serranda del negozio! -, e le andai dietro, la aiutai a chiudere; – Per fortuna che passavi di qua -, mi disse. – Se hai bisogno di un bel tessuto per farti un vestito, sai dove trovarmi -, aggiunse, ridendo, e quello fu il suo grazie, un invito a comprare qualcosa di cui non sapevo di avere bisogno. Scrollai le spalle e me ne andai a casa, mi preparai il pranzo con gli avanzi della sera prima, mi innervosii per aver mancato il telegiornale e provai a studiarmi una lezione accettabile per l’indomani.
Non avevo mai fatto caso al negozio di Norma, eppure da allora mi parve inevitabile notarlo: potevo percorrere un’altra strada, oppure cambiare marciapiedi, e invece continuai a passare accanto alla sua vetrina, solo che, adesso, mi voltavo a cercarla. Fingevo di osservare la lucentezza di una seta, appoggiata sulla spalla del manichino, studiavo le trame di un cotone dozzinale, che mi sembrava magnifico, perché lei si trovava proprio là, dritta dietro il bancone, oppure appoggiata sui gomiti, a osservare l’indecisione di una cliente. Si accorgeva di me un attimo prima che rinunciassi al suo saluto, e allora mi sorrideva, mi faceva un cenno con la mano.
Un pomeriggio, la trovai sulla soglia del negozio; – Torni a casa? -, mi domandò. E poi, subito: – Ti accompagno io -, e chiudemmo insieme, salimmo in macchina, mi raccontò del suo matrimonio, di sua figlia, mentre i semafori diventavano rossi, poi verdi di nuovo, e lei rallentava sull’arancione, mi consegnava altre parentesi del suo passato e del presente.
Divenne una consuetudine; si faceva trovare sulla porta, quando passavo, mi riportava a casa, mi svelava ogni dettaglio di ciò che aveva vissuto, con chi e quando, come se mi squadernasse davanti agli occhi un album di fotografie scattate senza pudore, senza rispetto, immortalando i compleanni, i matrimoni, ma anche i fallimenti quotidiani, le sordide meschinità. Poi, una sera di fine ottobre, spense il motore dell’auto, – Salgo da te -, mi disse. Le feci strada verso il mio bilocale con una sola finestra, affacciato su un cortile desolato. – Non ho niente da offrirti -, le confessai, e non ero sicuro che fosse un modo per dirle che avevo il frigorifero vuoto, ma lei non rispose, si spogliò in silenzio, ripiegò i vestiti e li appoggiò sulla scrivania. – Beh, che fai? -, mi chiese, e rise, poi mi spogliò disordinatamente, ridendo e baciandomi gli occhi, le orecchie, le braccia magre, la bocca. Sapeva di liquirizia e di sigaretta bagnata.
Ci vedevamo ogni mercoledì, che era il pomeriggio di chiusura del suo negozio; mi riportava a casa con la sua stanca Fiat Uno, si svestiva con metodo, se ne andava prima di cena. Ogni tanto, mi portava un regalo: un vasetto di marmellata, una confezione di biscotti, una bottiglia di vino. – Tienili per dopo -, mi ordinava, sbrigativa, e tornava al nostro copione già rodato. Quando si rabbuiava e provavo a chiederle cosa avesse, cosa fosse successo, si innervosiva, – Hai fame? -, mi chiedeva, e cambiava d’argomento, – Ti preparo qualcosa? -. Rifiutai, ansioso com’ero di tenerla vicino per tutto il tempo; avrei mangiato più tardi, avrei tentato di colmare col cibo il vuoto che lei mi lasciava nella pancia quando se ne andava e avrei fallito.
Prima di Natale, mi prese le misure con un centimetro da sarta, – Voglio farti un regalo -, mi annunciò, e non capivo se mi stesse prendendo in giro, se fosse seria. Arrivò l’anno nuovo, poi febbraio, poi marzo, aprile, e non vidi nessun regalo, immaginai che fosse stato uno dei suoi scherzi.
Aveva quarantasei anni, Norma, i capelli corti sulla nuca e sulle tempie, e gli occhi cupi, severi, la schiena ampia, il seno pesante; quando il primo scampolo d’estate iniziò a intravvedersi, quando il caldo del pomeriggio iniziò a suggerirci di abbassare i finestrini, mentre andavamo a casa, capii che mi ero innamorato di lei. Glielo dissi una sera di maggio, prima di congedarla, e lei rise, – Tu sei pazzo -, mi rimproverò, e rise ancora. – Grazie -, concesse, poi, mentre si rivestiva, – Grazie per avermelo detto -.
La scuola era finita da una settimana, quando Norma venne a trovarmi di mattina presto. Non faceva parte delle nostre abitudini e, sulle prime, vedendola arrivare mi spaventai. – Suo marito ha scoperto tutto -, pensai, e mi preoccupai più del mio destino che del suo, di cosa si sarebbe detto di me, di come l’avrei affrontato. Invece lei era tranquilla, salì in ascensore, portava sul braccio una giacca da uomo. – Questo è il mio regalo di Natale -, mormorò, e volle che mi spogliassi, che la indossassi sulle spalle nude. – Sei ridicolo -, affermò, e mi abbracciò. Fu allora che mi rivelò che non ci saremmo visti più, che quella era l’ultima volta. – Non ho mai scelto niente in vita mia -, mi spiegò, – E per una volta ho voluto vedere che effetto fa -. Tacque, e non osavo chiedere nulla, non osavo respirare. – Fa un bell’effetto scegliere -, riprese, e mi strinse di nuovo, mi fece sedere sul letto. – Grazie per avermelo insegnato, professore -, disse piano, e se ne andò a mani vuote. Scomparve mentre l’estate incominciava appena.